domenica 24 maggio 2020

Antonio di Borbone Conte di Lecce



Un don Rodrigo Borbone e una Lucia Taglialatela
Galanti e tragiche avventure del Principe Antonio, Conte di Lecce

Nella fredda giornata del 12 gennaio del 1843 una triste notizia si sparge nella Napoli borbonica; Antonio Pasquale, principe delle Due Sicilie, è trovato morto, con la testa fracassata, a Pozzuoli nella sua casina da caccia.

Antonio è figlio del defunto re Francesco I delle due Sicilie [1]

e della sua seconda consorte l’infante Maria Isabella di Borbone-Spagna; nasce a Palermo nel 1816, quindi è fratello minore del re che dal 1830 siede sul trono di Napoli come Ferdinando II ‘Re delle Due Sicilie’ [2].

Antonio Pasquale, poco dopo la nascita, riceve il titolo dinastico di ‘Conte di Lecce’ e si narra che fin da ragazzo gode a Napoli della reputazione di "satiro in boccio". 
Ovvero un piccolo satiro inteso come simbolo di lussuria e sfrenatezza, seppure non ancora completamente sbocciato [3].

Lo pseudo storico Giovanni La Cecilia scrive che il palazzo reale di Napoli è un ronzante alveare di giovani principi e di principesse che meritano molte definizioni, tranne quella di modesti e innocenti. 
Ma questa descrizione sembra esagerata, e non credibile, perché inclusa nella campagna diffamatoria che i Savoia hanno intrapreso contro i Borbone. 
Questo e altro lo troviamo scritto dal La Cecilia in uno dei corposi volumi sulle “Storie segrete delle famiglie reali o Misteri della vita intima dei Borboni di Francia, di Spagna, di Parma, di Napoli, e della famiglia Absburgo-Lorena d'Austria e di Toscana” stampato a Genova nel 1859 [4],

Il prezzolato autore definisce i maschi, di questa vivacissima e prolifica stirpe borbonica, perversi tutti sin dall'infanzia.
Le femmine nulle, infingarde, sensuali, superstiziose e bigotte. 
Continua affermando che su di loro influirono gli svergognati esempi dei genitori.
Inizia poi a narrare quelli che secondo lui sono i fatti più tristi della malvagia vita dei principi, elencandoli per ordine di età.

-      Carlo Ferdinando, Principe di Capua, apertamente geloso del Re che ha soltanto un anno più di lui, è già un precoce donnaiolo. Di lui l’autore dice che fin dall’infanzia è dominato dall’ira col fratello con il quale ha continui dissidi. Manesco e ardito più volte lo percuote; poi racconta altri dettagli raccapriccianti. Comunque Giovanni La Cecilia fa confusione e confonde le storie di Carlo e del fratello Leopoldo.
-      Leopoldo, Conte di Siracusa, come i fratelli è dominato da istinti crudeli. Giovine in Sicilia si dilettava di gettare monete d'oro e d'argento in vasche d'acqua bollente e d'invitare i più poveri fanciulli di Palermo a pescarle nel fondo con le nude braccia. Anche lui un libertino e l’autore narra di una sua illecita tresca che ebbe con una dama di nobile lignaggio. Poi un mattino il di lei marito fu trovato impiccato nella propria stanza mentre la casta sposa aveva in quella notte riscaldato il talamo di sua altezza il Conte di Siracusa.
-      Antonio Pasquale, Conte di Lecce, oggetto di queste righe e di cui si racconterà.
-      Luigi, Conte di Aquila, superstizioso e infingardo; in appresso tenterà di farsi nominare reggente al posto di suo nipote Fraceschiello, ovvero l’ultimo Re di Napoli Francesco II.
-      Francesco di Paola, Conte di Trapani, superstizioso e avverso ai liberi ordini come il fratello Luigi.

Di questi due ultimi giovani fratelli del re, conti dell'Aquila e di Trapani, null’altro può l’autore dire poiché sulla loro educazione veglia Re Ferdinando II, che ispira ad essi la propria concupiscenza, e non li fa libertini e carnefici come gli altri germani. 
Il narratore non inasprisce la figura di Ferdinando II solo perché in prime nozze ha sposato una Savoia, Maria Cristina che sarà "beatizzata".

Le principesse ancora nubili che vivono a corte, Maria Carolina e Teresa Cristina, sono modeste, seppure frivole; ben diverse dalle loro energiche sorelle sposate:
-    Luisa Carlotta, passata alla storia per due sonori schiaffi dati ad un ministro spagnolo che stava cercando di recuperare un documento da lei preso con l’inganno e volutamente buttato nel caminetto;
- Maria Cristina che, rimasta vedova di Ferdinando VII morto nel 1833, sposa segretamente un ex-sergente della guardia reale che così passa dalle scuderie all’augusto talamo;
-  Maria Amalia che in questo periodo spesso è a Napoli per il perdurare in Spagna della lotta di successione che la vede coinvolta in intrighi dinastici e politici. 

Ma quella che più lascia a desidera è la loro genitrice, la Regina Madre Maria Isabella [5]

vedova di Francesco I che tiene una condotta tutt’altro che edificante. Nei primi anni di vedovanza ha un debole per i bei funzionari più giovani di lei ed è circondata da ammiratori e, secondo voci di corte, amanti.
Nel 1835, Maria Isabella inizia una turbolenta relazione con il barone Peter von Schmuckher, un ufficiale austriaco sposato. Alla morte della moglie di Schmuckher Maria Isabella, che probabilmente ha generato dei figli con lui oltre gli undici legali avuti con il defunto marito, ha intenzione di sposarlo ma l'ambizioso barone rivendica il titolo e i privilegi di un amante reale come condizione per convolare a nozze. Per evitare ulteriori minacciati scandali Re Ferdinando II sarà costretto ad espellere l’amante della madre dal Regno.
Siccome Maria Isabella è determinata a risposarsi, suo figlio, il re Ferdinando II, le consegna un elenco con i nomi dei giovani nobili del regno tra cui scegliere. Alla fine la regina madre sceglie il conte Francesco del Balzo che ha sedici anni meno di lei. Ora, quella che il popolo definisce la casta Isabella, si è ritirata a Capodimonte con il giovane e intraprendente sposino; naturalmente non ha né la forza né la volontà di seguire l’ancor giovane prole.

Tra questi il principe Antonio che, sempre secondo lo scritto di Giovanni La Cecilia, è un personaggio lascivo che ama circondarsi di schiere di individui abietti. Tanto è violenta e vile la sua conduzione di vita da ricordare un antico feudatario con i suoi “bravi” di manzoniana memoria.
Antonio utilizza la Casina Vanvitelliana del Fusaro quale luogo d’incontri clandestini con le sue numerose amanti altolocate, ma vive in una casa acquistata in campagna nei dintorni di Giugliano.
Seguito da sgherri e da feroci mastini, gira per mercati e fiere comprando al prezzo che impone tutte le bestie bovine o vendendo come vuole le sue mandrie. Non rispetta nulla ed a chi si oppone alle sue prepotenze riserva le intimidazioni dei suoi sgherri o l’attacco dei suoi cani mastini.
Spesso di notte invia i suoi uomini a trafugare le bestie dei vicini e le fa condurre nelle sue proprietà. Al mattino chiede somme di danaro per i presunti danni provocati dalle bestie alle sue colture; danni che valuta in centinaia di scudi che pretende dai disgraziati contadini pena la sottrazione di ogni bene.

A questo unisce la sua sfrenata voglia sessuale; non vi è donna sposata o nubile, vecchia o giovane che si sottragga ai suoi oltraggi e quando adocchia una femmina dà ordine ai suoi scherani di portarla a lui.
Fra tante vittime è capitata pure l'unica figlia di agiati ed onesti coniugi; il genitore riconosce nei rapitori della ragazza gli uomini di don Antonio e pensando che avessero compiuto il ratto senza che il nobile avesse sentore dell’accaduto, piangente ed affannato, corre alla casa di costui. Si prostra ai suoi piedi, piange ed invoca il suo intervento per la restituzione della fanciulla. La reazione del nobile è atroce; dopo averlo schernito dà ordine ai i suoi cani di attaccarlo. Il pover’uomo è sbranato. Pochi giorni dopo due feretri sono portati alla sepoltura; quello del genitore e quello della figliuola, l'uno morto sbranato dai mastini, l'altra per le violenze patite [6].

La notizia dell’accaduto giunge fino al palazzo reale e desta sdegno nei ministri del re. Don Antonio è richiamato nella reggia e rinchiuso per molti giorni nelle sue stanze; fa seguito la cattura dei suoi sgherri e il loro confinamento in lontane isole della Sicilia. Scontata la leggera pena, e rimesso nella libertà di muoversi, torna a vivere a Giugliano; non tardando a compiere altre bravate.
Una mattina mentre si avvia verso la reggia incontra una lunga e numerosa fila di penitenti bianchi lungo la discesa di Capodichino. Questi accompagnano alla sepoltura il cadavere d'un defunto confratello. Subito nella mente di don Antonio scatta la molla della violenza; frustando il cavallo della sua carrozza, tenta di far paura agli uomini che seguono il feretro, ma gli va male. Quelli, fingendo di non conoscerlo e usando come armi le grosse candele di cera lo riempiono di botte, tra le risa ed i fischi della gente del posto che, in aggiunta, prende a bersagliarlo con i sassi. Don Antonio riesce a scappare sparando sulla folla, raggiungendo la reggia, chiedendo, al Re, la punizione per gli autori del pestaggio nel quale è incappato.

Pur di porre un freno alle bravate del fratello Re Ferdinando II pensa di farlo sposare con la loro famosa ma discussa sorellastra, Carolina Ferdinanda Luisa, Duchessa di Berry [7].

Carolina è rimasta vedova del marito, che è stato assassinato nel 1820; nel 1830 una rivoluzione rovescia il suocero Carlo X ed espella tutti i Borbone dalla Francia; due anni dopo lei rientra clandestinamente in Francia per tentare di restaurare sul trono suo figlio Enrico di Borbone.
E’ arrestata e nel corso della prigionia le nasce una figlia, Anna Maria presto morta; evidentemente non dal defunto marito ma, come accertato in seguito, generata con un capo della rivolta.

La tentata sortita controrivoluzionarie ed il parto clandestino provocano molto rumore nelle corti europee; la questione è molto delicata in quanto la duchessa ha agito come vedova del figlio di Carlo X e madre dell'erede al trono.
Proprio per coprire tutto questo si progetta il matrimonio con il Conte di Lecce che comunque non si farà, e chissà se per volontà del principe Antonio o per volontà di Carolina che sposa un nobile siciliano, il duca Ettore Lucchesi Palli che, per salvarla, dichiara essere stata sua la bambina partorita in clandestinità.
Giovanni La Cecilia, malvagiamente e facendo nuovamente confusione, adombra che Carolina abbia avuto anche un figlio dall’ebreo convertito Simone Deutz che in effetti fu il delatore che la fece arrestare.

Qui si innesca però altra diceria, questa volta non dovuta al La Cecilia, ma riportata e nello stesso tempo negata dallo storico puteolano Angelo D’Ambrosio.
Nel narrare la vita di Pietro Ignazio Marolda [8],

che fu Vescovo di Pozzuoli dal 1837 al 1842, D’Ambrosio parla della sua improvvisa morte provocata da un infarto e non da altre cause come alcuni sospettarono e come scrisse Luigi Martuscelli.
“Sulla di lui morte che parve a molti strana e misteriosa corsero mille voci, tra le quali la più accreditata fu che fosse avvenuta per un calcio che gli tirò sull’inguine il Principe Antonio, fratello di Re Ferdinando II per rabbuffi che n’ebbe poiché seppe delle tante capestrie e dissolutezze da lui commesse in Pozzuoli, nella supposizione che il re ne fosse stato informato dal povero vecchio, contro di cui infellonì villanamente e barbaramente a quel modo.”

Infine arriviamo al fatto che ci interessa e che mette fine alla tumultuosa vita del conte; così come narrato da Giovanni La Cecilia e ben descritto da Antonio Pio Iannone in un suo articolo.

In Giugliano abita la potente e numerosa famiglia Taglialatela e che robusti e maneschi sono gli uomini quanto leggiadre le donne. La giovane moglie di un Taglialatela piace al conte che, come suo solito senza riguardo ne contegno alcuno, invia pubblici messaggi alla donna. Prende abitudine di gironzolare attorno la casa di questa senza disdegnare atteggiamenti lascivi e sconci posti in essere nella pubblica via.
Ovviamente la cosa giunge all’orecchio del marito, del padre e dei fratelli che, non potendo sopportare l’offesa, escogitano un piano per porvi fine. Decidono di attirare in casa il conte ed insegnargli a comportarsi meglio mediante una bella lezione.
La donna, opportunamente addestrata, fa finta di accondiscendere alle richieste del conte e, affacciata alla finestra della casa, risponde con gesti affettuosi alle avance sconce di questo.
Quando si rende conto di averlo fatto cuocere a puntino lo avvicina e gli dice di raggiungerla quella notte stessa. Una donna di servizio, opportunamente addestrata, lo avrebbe condotto in una stanza segreta dove, lontano da ogni sguardo, avrebbero potuto consumare ogni passione d’amore.

Il conte non sta nella pelle sin quando, a notte fonda, non raggiunge il cancello del giardino di casa Taglialatela dove un piccolo lume fa intravedere una mano che fa segno di entrare. Scorge la serva che, dopo averlo omaggiato con un inchino, fa segno di seguirla. Un lungo cammino ed una ripida scala conducono il Borbone in quello che agognava divenisse il suo nido di sfrenatezze sessuali per quella notte. Ma la sorpresa non è quella lieta di un comodo letto ed una fanciulla consenziente bensì quella di trovarsi di fronte a quattro uomini armati di grossi e nodosi bastoni [9].

Questi nel buio fingono di non riconoscerlo e lui, preso in trappola, non ha il coraggio di rivelarsi; prima lo percuotono a morte e poi lo scaraventano fuori dalla finestra.
Ha appena la forza di rampare e chiedere l’aiuto di alcuni contadini, che si recano nei campi; avvertite le autorità è trasportato nella Casina del Fusaro, lontano dal luogo del misfatto. Vivrà solo pochi giorni.

Il delitto è messo a tacere per evitare scandali ed ufficialmente si dice che il principe ha versato per qualche tempo in precarie condizioni di salute, causa ripetuti attacchi di paralisi, dall’ultimo dei quali era ancora convalescente quando è stato colpito da febbre tifoide. In realtà tutti a corte e nella città sanno che è stato ucciso dalle sonore e meritate percosse.
Molti appartenenti alla famiglia Taglialatela sono costretti ad andare in esilio altri vengono imprigionati e condannati; tutti sono stati vittime della depravata indole del conte di Lecce.


Il nostro autore anti Borbonico conclude asserendo che: "Napoli ricordò sempre che la mano di rustici sudditi fece sentire il suo peso ad uno dei divini; la gente del popolo spense almeno uno della scellerata prosapia dei Borboni venuta al mondo quale un tremendo flagello, una terribile bufera schiantatrice di città e di regni."


BIBLIOGRAFIA
AA.VV – I Borboni di Spagna e Napoli – Mondadori (1972)
Ambrasi D. e D’Ambrosio A. – La Diocesi e i Vescovi di Pozzuoli (1990)
Guccione Monroy M. - La campagna di Vandea e la duchessa di Berry (1955)
La Cecilia G. – Storie segrete delle Famiglie Reali (1859)
Iannone A. Pio – Quando i Taglialatela uccisero a bastonate il figlio del Re di Napoli (2016)



GIUSEPPE PELUSO – MAGGIO 2020