lunedì 4 marzo 2024

Quando a Pozzuoli si costruivano treni

 



Nella Rotonda alla Starza

IL MONUMENTO ALL’INDUSTRIA PUTEOLANA

La “Sala Montata” della “28” puteolana

 

In occasione della inaugurazione del tunnel Tangenziale – Porto, a Pozzuoli, al centro della rotonda stradale di via Nicola Fasano, è stata eretta a monumento una “sala montata” [foto 1].





L’ingegneria ferroviaria definisce “sala” l’insieme costituto da due ruote e dall’asse corrispondente di un veicolo ferroviario; nello specifico è definita “sala motrice” quando essa è utilizzata per trasmettere (a mezzo di bielle e ingranaggi) il moto rotatorio del motore alla ruota, oppure “sala accoppiata” quando è utilizzata per collegare insieme (a mezzo di sole bielle) un gruppo di ruote rendendole tutte motrici [foto 2].



I Cantieri di Pozzuoli, sotto varie denominazioni sociali, hanno costruito migliaia di locomotive elettriche e vagoni ferroviari ma, nella loro lunga esistenza, mai hanno realizzato locomotive a vapore di cui le “sale” sono componente essenziale.

La “sala” esposta non è di costruzione italiana ma americana; nondimeno la monumentazione realizzata in questo piazzale ben rappresenta la storia della industrializzazione puteolana; sia per il luogo scelto, sia per l’oggetto esposto, sia per la vicinanza al commemorativo affresco realizzato dal Maestro Isabettini.

 

Questa “sala” appartiene alle locotender americane tipo S100 ordinate, nel 1942 in 382 esemplari, dal Corpo dei Trasporti dell’Esercito Americano (USATAC).

Le S100 sono piccole motrici da 45 tonnellate con 2 cilindri esterni a semplice espansione, e rodiggio composto da tre assi accoppiati; esse sono particolarmente adatte al ruolo per le quali sono state progettate: la manovra.

Le locotender sono locomotive utilizzate negli scali ferroviari o per piccoli tratti locali, ragion per cui non necessitano di grandi scorte di carbone ed acqua che in genere vediamo trasportate dal caratteristico rimorchietto detto Tender.

Sulle locotender il carbone è posto dietro la cabina di guida in un cassone metallico aperto in alto per un agevole carico e con un'apertura calibrata in basso all'interno della cabina per l'asportazione, mentre la scorta d’acqua è posta in serbatori a fianco della caldaia.

Fin dal 1943 le americane S100 sono destinate sui teatri di guerra in Africa Settentrionale e in Europa; cinque di queste locomotive, numerate dal 1927 al 1931, giungono in Italia nel 1944 e alla fine delle ostilità restano nel Bel Paese.

Nel 1946 le locotender numero 1927, 1929, 1930 e 1931 sono immatricolate dalle Ferrovie dello Stato dove vanno a costituire il Gruppo 831.001/004; invece la numero 1928 è acquisita dagli Stabilimenti Meccanici di Pozzuoli (S.M.P.) che la lasciano marcata con l’originale numero 28 ben visibile sulle fiancate dei serbatoi d’acqua [foto 3].



Piccola e manovriera ben si adatta sulla fitta rete di binari che percorre l’intero Stabilimento i cui confini andavano dalla Calcare del Rione Torre alla stazione della Ferrovia Cumana ad Arco Felice, non disdegnando d’avventurarsi sul lungo pontile che fu dell’Armstrong.

Le sue brillanti prestazioni sono poi molto apprezzate all’interno dei capannoni e le sue ridotte dimensioni si rendono utili sui carri trasbordatori dove riesce ad imbarcarsi unitamente ai veicoli che traina.

La “28”, come familiarmente da tutti riconosciuta, e inizialmente collaborata da una vecchia vaporiera residuata dall’Armstrong; essa resta attiva fino ai primi anni sessanta quando è sostituita con un più moderno locomotore diesel che ha il pregio di non saturare di fumo l’interno delle officine che attraversa.

Non si hanno date precise ma la “28” risulta accantonata alla fine degli anni cinquanta e poi demolita negli anni sessanta, direttamente all’interno del grande complesso industriale.

Fortunatamente, e curiosamente per una motrice così poco rilevante nella storia ferroviaria italiana, questa locomotiva la troviamo riprodotta nella scala “HO” dalla Rivarossi; una importante casa fermodellista a livello mondiale [foto 4].



Essa è catalogata come modello HR2641 e, dopo la descrizione della sua storia nel blog “SCALAENNE” dell’amico Marco Nattan, è ormai conosciuta come “la puteolana” da tutti gli appassionati di Storia Ferroviaria.




PELUSO GIUSEPPE  - FEBBRAIO 2024

Pubblicato sul numero di Marzo del mensile diocesano "Segni dei Tempi"

martedì 16 gennaio 2024

Il Posto di Blocco Costiero di Varcaturo

 Il Posto di Blocco Costiero “Alfredo”
A difesa del quadrivio di Varcaturo

 

Coloro che provenienti da Licola percorrono via Madonna del Pantano noteranno alla loro destra, poco dopo la vicinale Torre degli Incurabili e pima dell’incrocio con via Ripuaria, uno stano manufatto listato con bande trasversali in bianco e nero.

Si trova proprio sul ciglio stradale che in quel tratto manca di marciapiede ma in compenso risulta delimitato a nord da metallico guard rail ed a sud da tufaceo muretto.

E’ composto da un blocco cementizio alto poco più di un metro e mezzo, lungo più di due metri e largo circa un metro; è fornito di fondamenta sotterranee ed al centro, solo lato strada, presenta uno scasso che dall’alto scende fino a poco meno di mezzo metro dal livello stradale [1].

 


Questo manufatto è quanto resta di un Posto di Blocco Costiero approntato nel corso della Seconda Guerra Mondiale dalle truppe italiane impegnate nella difesa della fascia litoranea.

 

Dalla fine dell’anno 1941 lungo tutte le coste italiane si inizia a costruire tutta una serie di strutture utili a respingere o contenere un eventuale sbarco di truppe nemiche.

Queste strutture comprendono:

 

Posti di Osservazione Costiera (P.O.C.), composti da strutture singole spesso di "riciclo", come antiche torri, che vengono riutilizzate per l'avvistamento delle forze nemiche provenienti dal mare. I P.O.C. sono generalmente presidiati da un piccolo gruppo di soldati dotati di armi leggere e dei mezzi necessari per trasmettere l'allarme ai comandi superiori.

 

Caposaldi di Contenimento Costiero (C.C.C.), costruiti direttamente sulla costa, composti da più strutture, in cemento armato, unite tra loro in modo da formare un unico campo trincerato e fortificato che hanno il compito di impedire lo sbarco del nemico. Sono dotati di una grande varietà di armi che comprendono artiglierie antinavi a lunga gittata; artiglierie di medio calibro da utilizzare contro mezzi da sbarco o corazzati; armi automatiche atte a spazzare la spiaggia dopo un eventuale sbarco.

 

Caposaldi di Sbarramento Costiero (C.S.C.), composti da più strutture e postazioni vicine ma non sempre tra loro collegate, che hanno il compito di impedire la penetrazione del nemico verso l'interno del territorio dopo lo sbarco. Spesso sono camuffate come civili abitazioni; sono dotate di armi controcarro e generalmente si trovano lungo importanti snodi stradali e ferroviari.

 

Posti di Blocco Costiero (P.B.C.), composti da semplici ostacoli e strutture che hanno la funzione di rallentare l'eventuale penetrazione del nemico. Sono posti lungo le vie di comunicazione, che dalle coste portano verso l'interno, e dispongono di poche postazioni e centri di fuoco [2].   

 


La struttura di Varcaturo è ciò che resta di un P.B.C. che, come tante suoe similari, è stata realizzata nel punto più importante di una rotabile adiacente e parallela alla costa. Per punti «più importanti» delle rotabili suddette si intendono i punti in cui dalle arterie costiere si staccano quelle che penetrano nell’interno del territorio.

I posti di blocco costieri hanno il compito di sbarrare il passo a nuclei avversari che, essendo per avventura riusciti a sbarcare, tendessero a località, stabilimenti e caserme, o semplicemente a penetrare all’interno del territorio.

Questo di Varcaturo, realizzato all’importante quadrivio dove via Ripuaria, proveniente dall’Agro di Giugliano, incontra via Madonna del Pantano, proveniente dall’Area Flegrea, serve a bloccare chiunque tenti di raggiungere il capoluogo campano e le sue importanti zone industriali. 

I P.B.C. hanno altresì il compito di riconoscere tutti coloro che vi transitano e per questo sono presidiati da nuclei muniti di armi automatiche ed attrezzati con manufatti che obblighino materialmente i veicoli ad arrestarsi.

Principalmente sono costituiti da un grosso manufatto in cemento armato, realizzato per gran parte sulla strada, con la finalità di restringerne la carreggiata; esso possiede muri sfasati a baionetta muniti di feritoie attraverso le quali possano far fuoco mitragliatrici e cannoni anticarro.

Questo sbarramento termina, verso centro strada, con un grosso blocco cementizio munito di scasso su cui poggiare, in caso di necessità, grossi travi in legno, o spezzoni di binario, per sbarrare la strada. Queste travi dall’altro lato poggiano su di un similare blocco di cemento posto nella carreggiata opposta.

Davanti al caposaldo sono piazzati sbarramenti in filo spinato (cavalli di frisia), denti di drago (per bloccare i mezzi corazzati) o perlomeno grossi massi aventi la stessa funzione [3].

 


Di giorno e per il traffico ordinario il varco stradale lasciato a lato del manufatto è chiuso con una barra a braccio mobile [4].

 


Le grosse sbarre antisfondamento sono montate dal tramonto all’alba; di giorno solo in caso di nebbia e di allarme.

Grosse bande in bianco e nero, dipinte sul muro esterno con una inclinazione di 45°, hanno la funzione di rendere visibile l’ostacolo per la normale circolazione stradale.

 

Il personale vigila non solo sulla rotabile, ma in un certo raggio a lato di essa ed esercita le sue funzioni con decisione ed energia; come da disposizioni impartite niente dimestichezza con la popolazione, ma intimazione a distanza, grinta dura e intonazione di comando.

Salvo che non abbia palesemente a che fare con il nemico, il personale dei posti di blocco non apre il fuoco se non dopo le intimazioni regolamentari [5].

 


La “XXXII Brigata Costiera” con sede a Villa Literno ha il compito di vigilare sul tratto di costa che va dalla foce del Garigliano alla foce dell’Alveo di Licola, pertanto ha competenza anche su questo Posto di Blocco che ha denominato “Alfredo” (i posti di blocco dipendenti da questa grande unità hanno nomi di uomini ed iniziano con la lettera “A”).

Nella classificazione dell’epoca risulta costruito lungo l’Alveo dei Camaldoli all’altezza del Ponte di Varcaturo ed il comando vi ha destinato trenta uomini, appartenenti al LXXIX Battaglione a sua volta parte del 16° Reggimento Costiero, che dispongono di due cannoni controcarro e di un mitragliatore, oltre alle armi individuali. Probabilmente questi uomini presidiano pure qualche Casamatta in calcestruzzo (bunker) e postazione circolare infossata (tobruk) delle immediate vicinanze, ad oggi non più visibili.

Poco più a nord, presso il ponte sulla foce del Lago Patria, è stato realizzato un altro Posto di Blocco Costiero denominato “Adriano” [6].

 


Sulla litoranea di Ischitella è quasi completato il Caposaldo di Sbarramento Costiero denominato “Agrigento” (i caposaldi dipendenti dalla “XXXII Brigata Costiera” hanno nomi di città che iniziano con la lettera “A”).

Lungo la costa, verso sud, sono stati realizzati il grande Caposaldo di Sbarramento di Cuma denominato “Brescia” e quello di Torregaveta denominato “Biella”.

All’interno, verso la piana campana, si trovano i Caposaldi di Contenimento di Licola Borgo, Grotta dell’Olmo, Rotonda di Maradona e Qualiano denominati, rispettivamente, “Bari”, “Bolzano”, “Bologna” e “Benevento”; sempre nomi di città ma con iniziale la lettera “B” perché dipendenti dal “Comando Difesa Costiera Porto di Napoli”.

Al quadrivio di Arco Felice troviamo poi il similare grande Posto di Blocco Costiero denominato “Bernardo” [7].

 


Fino a settembre 1943 tutte queste postazioni non sono interessate da operazioni belliche e le truppe italiane dipendenti dal Comando Difesa Costiera sono impegnate solo in continue esercitazioni, come quelle eseguite in provvisorie trincee, scavate nella sabbia del litorale Domizio cui fa da sfondo l’Acropoli di Cuma [8].

 



Il temuto sbarco alleato sarà effettuato a Salerno e questa postazione, come tutte le altre, sarà abbandonata dai reparti italiani in seguito allo sbandamento susseguente all’armistizio dell’otto settembre.

I tedeschi, che stanno ritirandosi dal fronte di Salerno e dall’auto liberatasi città di Napoli, proprio in questa zona allestiscono la loro linea difensiva “Anni” che si stende dalla foce del Lago Patria fin verso la grande pianura campana passando per Qualiano, Marano, Calvizzano, Giugliano, Melito, Grumo, Cardito e Acerra.

La Wehmacht su questa linea, oltre ad appoggiarsi a barriere naturali quali il Lago Patria, il Canale dei Camaldoli, i Regi Lagni, etc, si installa in tutti i caposaldi e le postazioni difensive abbandonate dagli italiani [9].

 


Il quattro ottobre, presso questo Posto di Blocco, è ucciso Giovanni Bovenzi di Cancello Arnone; un soldato tedesco lo spara alla fronte mentre sta recandosi a casa della sorella in Contrada Campanariello.

Il sei sono uccisi a colpi di mitra i fratelli Francesco e Domenico Grasso di Giugliano incappati in una pattuglia tedesca nel mentre cercano di procurarsi dei cavalli per trasportare delle mele da Varcaturo a Qualiano.

E’ intenzione tedesca difendere questo fronte fino al quattro di ottobre per poi ripiegare verso la linea “Viktor” che inizia alla foce del fiume Volturno, raggiunge gli appennini e il corso del fiume Biferno, per arrivare all’Adriatico nei presso di Termoli.

Questa ulteriore linea è da difendere a sua volta almeno fino al 15 ottobre per consentire al grosso delle truppe di attestarsi lungo la più fortificata linea “Gustav” che, partendo dalla foce del Garigliano, attraverso Cassino e gli Appennini, arriva all’Adriatico [10].

 




Partiti i tedeschi arrivano gli alleati che nello stesso autunno, in previsione dell’assalto anfibio ad Anzio, utilizzano questi luoghi per l’addestramento di diverse loro unità in quanto geograficamente simili alle zone di sbarco; per di più vi si trovano anche bunker e postazioni difensive costiere simili a quelle che incontreranno nell’agro pontino.

Inoltre gli alleati, per migliorare la catena dei trasporti diretta al fronte fermo a Cassino, sulla linea Gustav, provvedono ad ampliare e migliorare una stradina che dal bivio sud di Ischitella porta a Parete; ancora oggi questa strada è chiamata “Via degli Americani”.

 

A guerra terminata le strutture in calcestruzzo di tutti i Posti di Blocco sono smantellate in quanto, essendo state realizzate sulla carreggiata delle arterie con l’intento di restringerle, costituiscono un grosso problema per la ripresa della circolazione stradale.

Pertanto in giro si ritrovano, in gran parte ancora integri, molti bunker appartenuti ai vari Caposaldi di Sbarramento ma è raro trovare qualche resto di quelli che furono i Posti di Blocco.

Quello di Varcaturo, anche perché ricadente lateralmente oltre la carreggiata, è ancora al suo posto; muto testimone di una tragedia che ha sconvolto questa pacifica località della “Campania Felix” [11].

 


 

  

REFERENZE

S. Pocock – Campania 1943 – 2009

N. Ronga – I Comuni a Nord di Napoli - 2020

G. Peluso – Il Posto di Blocco Costiero di Arco Felice - 2011

I. Insolvibile – Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia

 

GIUSEPPE PELUSO – GENNAIO 2024

venerdì 15 dicembre 2023

A Cavalcioni di Caronte

 



A CAVALCIONI DI CARONTE

Paese che vai, Elisio che trovi - I reumi di Nerone -

La via per l'altro mondo - Biglietti da visita alla Sibilla 

Caronte senza barba e con l'acetilene

 

Il quotidiano “La Stampa” di giovedì 25 ottobre 1934, riporta un interessante articolo, intitolato “A Cavalcioni di Caronte”, dedicato ad Alessandro Santillo custode della pseudo Grotta della Sibilla e papà dell’indimenticato Carlo Santillo.

 

Pietro Silvio Rivetta, detto Toddi



Il saggio è firmato da Toddi, pseudonimo di Pietro Silvio Rivetta di Solonghello (1886-1952), di origini aristocratiche, giornalista, scrittore, cineasta, e tanto altro ancora.

Toddi conosce ben quattordici lingue, tra cui cinese e giapponese per le quali ottiene una cattedra presso il Regio Istituto Orientale di Napoli.

Dai racconti di una serie di viaggi in Italia effettuati da Toddi dalla fine degli anni 20 ai primi anni 30, viene fuori un libro dal titolo ”Itinerari Bizzarri”, pubblicato nel 1934. Tra i luoghi visitati, per la compilazione della sua Italia insolita e curiosa, non possono mancare i Campi Flegrei.

 

I Campi Elisi

Per colpa — o merito che sia stato — della fiorentina consorte di Enrico IV, i turisti di oggi non possono udir nominare i “Campi Elisi” senza pensare ai maestosi viali parigini. Da quando, nel 1616, Maria de Medici fece piantare il triplice “Cours la Reine” là dov'era un'impaludata propaggine della Senna, e ancor più da quando il mondo elegante del secondo impero predilesse quel quartiere e ne fece la capitale della capitale della Francia, gli “Champs Elysées” hanno usurpato e deformato il titolo al soggiorno dei beati greco-romani.

Soltanto al margine estremo del golfo subvesuviano, dove i ricordi classici si addensano più fitti, le familiari indicazioni greco-latine ritrovano il loro vero aspetto e la loro topografia precisa. Questo meraviglioso golfo partenopeo è saturo di ellenismo e, ancor più, di romanità; è racchiuso tra questo Promunturium Misenum ove arse il rogo funebre del trombettiere di Enea, e Punta della Campanella, che era il Promunturium Minervae perchè vi sorgeva il tempio della dea; o v’è ancora la Torre Minerva con la stazione radiotelegrafica.

Qui gli augusti nomi imperiali hanno chiaro recapito; se pronunzi quello di Tiberio a un vetturino o ad un agente municipale di Pozzuoli o di Bacoli, l’interrogato, con un sorriso amabile e un po' commiserante, ti fa comprendere che hai sbagliato indirizzo. Per trovare Tiberio bisogna andare al Molo Beverello di Napoli e imbarcarsi per Capri, ove Tiberio è tuttora legittimamente domiciliato.

 

sabato 30 settembre 2023

La Mansio di Quarto

 


E’ un Tempio? No, non è un Tempio!

E’ una Taberna? No, non è una Taberna!

E’ una Mansio? No, non credo sia una Mansio!


I più importanti resti archeologici romani son quelli rimasti sempre in vista, attraverso il medioevo, l’età moderna e quella contemporanea.

I competenti li han sempre visitati; anfiteatri, teatri, fori, templi, mausolei, descrivendone gli usi cui erano adibiti o dedicati.

Ma il popolo, e tutti coloro che nei secoli bui hanno vissuto lontano dal sapere, osservandoli ha con frequenza stabilito che fossero luoghi di culto; di conseguenza gli “eruditi” a questi templi hanno anche affibbiato un titolo, spesso scelto perché vicini a qualche particolare che ricordasse una certa divinità.

 

I Campi Flegrei, data la passata grandezza, son pieni di questi esempi; ed alcune intitolazioni risalgono a tempi lontani, come attestato sin dai primi scritti in volgare.

Per l’uomo medioevale, stretto tra la miseria, l’ignoranza e la religione, gli unici importanti edifici, sia pubblici che privati, che vedevano altro non potevano essere che santuari dedicati al Culto.

Impensabile per loro che i predecessori, di cui non capivano ed apprezzavano il grado di civiltà, possano aver costruiti edifici utilizzati come Terme, Calcidico, Foro, o altro.

Questi contadini e pescatori consideravano che tutti questi grandiosi edifici fossero Templi, dedicati alle infinite divinità romane, così come i moderni dedicati a San Gennaro, San Procolo, San Sossio o San Celso che vedevano alzarsi attorno a loro.

 

Tanto per citarne solo alcuni, tra i più famosi nei Campi Flegrei, i Templi di Mercurio, di Diana e di Venere; essi altro non sono che grandiose Sale Termali, inconcepibile per chi poco curava il proprio corpo e poco sapeva degli imperiali ozi baiani.

Sulle rive del vicino Lago di Averso insiste un’altra grandiosa Sala Termale (il quarto trullo per Petrarca e contemporanei) e questo, data la vicinanza al creduto ingresso agli inferi, non poteva non essere dedicato ad Apollo, il Dio dell’Oltretomba.

Nella stessa Pozzuoli sono stati erroneamente definiti tali i grandiosi resti delle Terme di Nettuno; in particolare l’ambiente principale, il Calcidium, destinato al passeggio dei frequentatori. Anche in questo caso la sua funzione originale era impensabile per i più moderni puteolani. Le sue rovine erano talmente grandi, e visibili da lontano, che i letterati pensarono fosse quel Tempio di Nettuno sotto i cui portici Cicerone, stando a Baia, vedeva passeggiare il suo confidente Avieno.

Sempre a Pozzuoli è il Tempio di Diana; in pratica una fontana monumentale in cui furono rinvenuti bassorilievi marmorei che raffiguravano cani e cervi e un frammento marmoreo su cui sembra fosse inciso il nome della dea cacciatrice.

Giusta invece la definizione di Tempio per il principale edificio sacro che, mantenendo la sua originale funzione, continuava a svettare sull’alto della Rupe tufacea.

Infine l’ultima scoperta nel 1750, quel mercato monumentale anch’esso confuso per tempio, consacrato a Serapide, una divinità egiziana.

 

Una certa analogia di catalogazione la si riscontra nei più recenti rilevamenti di ruderi, ridotti al solo livello stradale, attribuendo loro la funzione di Taberne.

Questa mansione mercatale la si sta affibbiando, con disinvolta facilità, anche a strutture conosciute da molto tempo e il cui unico peccato è l’essere poste al piano terra, di alti edifici non più esistenti; alcuni pur lontani dalla viabilità.

Vero è che di Taberne doveva esserne piena la Puteoli cosmopolita (sempre accogliente verso i portatori di ricchezza, novità e religioni), e vero è che per Taberna si intendeva non solo il luogo di somministrazione di cibo o di riposo ma anche il luogo dedicato a qualsiasi attività commerciale, ad attività artigianale e pure attività amministrative a contatto con il pubblico.

Ma è pur vero che non tutti i locali posti al piano terra fossero Taberne; la gran parte serviva da abitazioni, come in seguito lo saranno i vasci con accesso diretto dalla strada; molti servivano quale deposito delle enormi quantità di legname richiesto dai focolari domestici; oppure erano adibiti a scuderie per muli e cavalli, destinati ad essere cavalcati o al traino dei carri; molti altri servivano da stalle per bovini e ovini che in numero elevato vivevano in città.

Dopotutto fino a tutti gli anni sessanta i paesini arroccati nei nostri appennini erano così, nel percorre le loro stradine notavi che, tranne qualche cantina e drogheria, tutti i locali posti al piano terra erano occupati da animali; no da Taberne.

 

Tutto questo preambolo è servito ad esporre una personale supposizione in merito alla definizione di Mansio del magnifico edificio esistente da sempre a Quarto Flegreo.

Non ricordiamo chi per primo gli abbia affibbiato questa destinazione d’uso, certo è che non la riportano come tale né il Dubois nel suo libro del 1907 né il Chianese nel suo del 1938, né Maiuri che si interessò a vicini reperti archeologici, e neppure Caputo, Camodeca e Giglio nel loro saggio del 2013.

Questo bellissimo manufatto si sviluppa su due piani, ognuno dei quali costituito da quattro ambienti comunicanti, separati da archi in laterizio aventi funzione di rinforzo della copertura a volta. Ognuno degli ambienti è illuminato da due lucernari a bocca di lupo contrapposti sulle pareti Nord e Sud; le stanze terminali sono dotate di aperture anche sulle pareti laterali Est ed Ovest.

La parte inferiore dell’edificio, ora adibito a stalla, non ha subito modifiche di rilievo se si eccettua la separazione, mediante tramezzo, della stanza più ad Est.

La parte superiore, attualmente abitata, è stata suddivisa in più parti da tramezzi.

 

Wikipedia ci dice che la Mansio era una stazione di sosta lungo una strada Romana gestita dal Governo centrale e messa a disposizione di dignitari, ufficiali, o chi viaggiasse per ragioni di stato, come i semplici portatori di dispacci.

Insomma il loro scopo era garantire un’adeguata ospitalità ai viandanti di servizio e, spesso, era messa a disposizione dello stesso imperatore se in viaggio.

Facile dedurre che una Mansio, per assolvere il suo compito, doveva essere fornita di ambienti destinati a dormitorio per ospiti e operatori, di cucine e refettori dove consumare i pasti, scuderie per ricovero dei cavalli sia dei viandanti che quelli da dare in cambio, locali con funzione di deposito per alimenti e foraggi, ampi spazi esterni per la sosta di carri merci e carrozze passeggeri.

I conosciuti ruderi di alcune Mansio, ritrovati lungo le consolari imperiali, ci dicono che in genere, avendo anche spazio a sufficienza tutto intorno, queste costruzioni si espandevano orizzontalmente e non in altezza; dopotutto non necessitavano di piani rialzati ed il servizio offerto era più rapido ed utile se svolto a livello stradale.

 

Ora cosa, della struttura di Quarto, ci porta a riconoscerla come una Mansio e cosa invece la accomuna ad una qualsiasi fattoria di campagna?

Conosciuta da sempre come “Masseria Crisci”, alquanto vasta come altre similari in questo stesso Territorio, fu probabilmente sopraelevata dal suo “padrone” al di sopra dei locali rustici affinché potesse servire anche come luogo di “ozio”, oltre che per meglio seguire l’opera dei fattori nei momenti essenziali di un Podere.

La stessa evoluzione edile la riscontriamo, fino a tempi recenti, con la sopraelevazione di ambienti padronali al di sopra delle preesistenti masserie; come era Villa Maria alla Starza, Villa Spinelli o come le esistenti Villa Cordiglia, Villa Cardito, ed altre ancora.

 

Volendo credere che l’edificio di Quarto sia una Mansio, con forte immaginazione e giusto per seguire le mode archeologiche, viene allora da chiedersi perché sia stata costruita in quel luogo.

Generalmente queste stazioni sono erette lungo le strade consolari a distanza di mezza giornata di viaggio tra loro in modo che, partendo di buon mattino, sia possibile usufruire dei suoi servizi durante la pausa pranzo o la pausa notturna.

In questo caso la Mansio di Quarto non avrebbe avuto necessità di esistere in quanto la Pozzuoli romana si trova a solo mezz’ora di strada e Capua, l’altro capolinea della Consolare Campana, sarebbe facilmente raggiungibile in mezza giornata di viaggio.

Quale sarebbe stata la necessità di fermarsi a Quarto?

Rapportata al tempo d’oggi sarebbe come imboccare la Tangenziale ad Arco Felice e, prima d’iniziare un lungo viaggio, fermarsi a prendere un caffè all’Area di Servizio “Antica Campana”.

 

Resta l’ipotesi che questa di Quarto non sia una Mansio intermedia ma una terminale, ovvero la meta finale per coloro che dovevano raggiungere Pozzuoli per poi imbarcarsi per l’Oriente o per dignitari designati a risiedere in questa città.

Ma allora perché costruirla a Quarto e non nella stessa Pozzuoli in modo che i viandanti possano più facilmente raggiungere a piedi qualunque centro di potere, luogo termale, di svago, o punto d’imbarco?

Solo in tempi recenti le barriere autostradali sono state spostate a Caserta Sud, a Nola, a San Giorgio a Cremano; son trascorsi pochi anni da quando erano ubicate sul retro di piazza Garibaldi dove garages multipiano e capienti alberghi ospitavano auto e viaggiatori che, una volta rifrescatosi dopo il lungo viaggio, si immergevano nella cosmopolita vita notturna di un movimentato Suburbio.

 

 PELUSO GIUSEPPE – SETTEMBRE 2023


mercoledì 12 luglio 2023

Le Carrozze FIAT della Ferrovia Cumana

 



LE CARROZZE F.I.A.T. DELLA FERROVIA CUMANA

Sfumature di Colori, di Storie e di Ricordi

 

Nel dicembre del 1938, col fine di riammodernare strutture e materiale rotabile, è costituita la “Società per l’Esercizio di Pubblici Servizi Anonima” (S.E.P.S.A) che nel 1940 subentra alla primitiva compagnia belga “Società per le Ferrovie Napoletane” (S.F.N.).

Si consideri che malgrado l’elettrificazione e la conseguente immissione in servizio di nuovo materiale da trazione, ovvero le nove elettromotrici serie E.1 - E.9 del 1927, quello rimorchiato è rimasto invariato dai tempi dell’apertura. Risale al 1913 l’ultima consegna di quattordici carrozze acquistate dalle “Officine Meccaniche Reggiane”.

La preoccupante deficienza sia dei mezzi di trazione che delle rimorchiate influisce seriamente sull’efficienza del servizio. Pertanto il Governo, in considerazione dell'opera offerta dalla Ferrovia Cumana con il trasporto delle maestranze presso gli strategici cantieri ILVA di Bagnoli, Ansaldo di Pozzuoli, e Siluruficio di Baia, autorizza la S.E.P.S.A. ad acquistare nuovo materiale rotabile.

Nel 1940 è presa in considerazione un progetto della “F.I.A.T. - Materiale Ferroviario” che propone sei convogli, ognuno dei quali composto da una elettromotrice e due rimorchiate. Le elettromotrici, bidirezionali, avrebbero avuto un comparto centrale riservato alla I° classe e due comparti laterali riservati alla II° classe; le rimorchiate avrebbero avuto tre comparti, tutti riservati alla III° classe [1].



Ben presto, anche per l’appena scoppiata guerra, necessita rinunciare a questa proposta e la commessa è dirottata sulle sole e più economiche rimorchiate; di cui si ordinano diciotto esemplari.

Queste carrozze hanno una lunghezza di 19640 mm, altezza di 3660 mm e una larghezza di 2900 mm., massa di 19.500 kg., boccole di strisciamento, diametro delle ruote di 850 mm, interperno di 12540 mm, carrelli Commonwealth dal passo rigido di due metri.

L‘accesso avviene a mezzo di due vestiboli centrali ognuno dei quali è fornito di porte a soffietto su entrambi i lati; pertanto troviamo due porte per ogni fiancata in modo che la rimorchiata viene ad essere divisa in tre comparti [2].

 


Sono queste le prime carrozze della Ferrovia Cumana a non essere dotate di vestiboli di estremità, come le precedenti tipo “belghe” a terrazzini scoperti o tipo “Reggiane” a terrazzini coperti.

I vestiboli centrali permettono, ai passeggeri, di dirigersi verso quattro vani di ingresso anziché i soli due possibili dai vestiboli di estremità, e questo, unito alla mancanza di porte interne, si rivela molto utile sulle affollate linee urbane con brevi ma numerose fermate.

Ma le elettromotrici in servizio non sono fornite di comando elettropneumatico per l’apertura e la chiusura delle porte a soffietto, pertanto è necessario acquistare i relativi meccanismi e piazzarli nelle cabine di tutte le motrici.

 

Dai vestiboli si entra nei comparti che si percorrono a mezzo di corridoio centrale; su ogni lato del corridoio troviamo, in corrispondenza di ogni finestrino, un modulo con quattro sedute disposte frontalmente, due più due.

Le diciotto rimorchiate, conosciute come C.101 – C.118, possono trasportare 80 passeggeri di terza classe; ovvero 24 nel primo compartimento che presenta tre finestrini per ogni fiancata, 32 nel più grande compartimento centrale che presenta quattro finestrini per ogni fiancata, altri 24 nel terzo compartimento anch’esso munito di tre finestrini per ogni fiancata.

In verità quattro delle diciotto rimorchiate sono numerate AC.102, AC.106, AC.111 e AC.116 in quanto il loro compartimento centrale, della stessa lunghezza delle altre quattordici vetture, presenta solo tre finestrini per lato ed accoglie con più spazio e comodità solo tre moduli,con sedili imbottiti, per un totale di 24 passeggeri di prima classe; fermo restando gli altri 48 passeggeri di terza classe accolti dai compartimenti di estremità [3].

 


Ad ognuna delle estremità della carrozza, bombata ed aerodinamicamente pura, è presente una porta intercomunicante che permetterebbe il passaggio, del solo personale ferroviario, da un vagone all’altro. A tale scopo esternamente è presente una passerella ribaltabile e due mancorrenti di sicurezza, ma in pratica queste porte resteranno sempre chiuse e non risulta che siano state utilizzate; il conduttore approfitta delle fermate per passare da una rimorchiata all’altra [4].

 


In una delle estremità interne, nelle vicinanze dell’intercomunicante, ricordo la presenza di un grosso volante che azionava il freno di stazionamento.

Adoravo viaggiare in fondo all’ultima vettura del convoglio; dai finestrini della testata di coda godevo di più ampia visuale e ogni volta che si entrava in una galleria, come narra pure l’amico Geppino Basciano, lo svanire della luce mi estraniava dal mondo, ormai scomparso dallo scenario.

Allora in quei momenti del viaggio, per non perdere contatto con la realtà, mi appoggiavo al luccicante volante del freno che mi dava sicurezza e contiguità.

 

La FIAT consegnò queste rimorchiate nella elegante livrea da poco adottata dalle “Ferrovie dello Stato” (F.S.).

Colore castano per il sottocassa, fino all’altezza dei respingenti; colore isabella per cassa e tetto a loro volta divise, alla base dei finestrini, da una stretta modanatura colore castano.

Inizialmente i convogli sono composti da Elettromotrice e tre Carrozze FIAT, di cui una mista prima/terza classe, ma gli oltre 60.000 kg. sono un peso eccessivo per le motrici; inoltre la loro lunghezza complessiva crea problemi in alcune stazioni [5].

 


Pertanto si decide di limitare a due le carrozze FIAT per ogni convoglio ed è questa la composizione classica ben impressa nelle foto e nei ricordi degli utenti.

Solo negli orari di punta è agganciata di rinforzo una vecchia rimorchiata delle Officine Reggiane che di solito, quando non impegnate nei turni di servizio, stazionano presso il piazzale della stazione di Torregaveta [6].


 

Per anni le rimorchiate FIAT svolgono un intenso lavoro giornaliero provvedendo con la loro capienza, 80 persone sedute e circa 110 in piedi, a soddisfare gli intensi flussi di lavoratori, studenti e vacanzieri; ma ben presto vengono fuori difetti e limiti.

Innanzitutto si rende necessario eliminare le porte pneumatiche che sin dall’inizio presentano problemi di funzionamento cui non si può ovviare; si dimostrano poco pratiche ed in certi casi addirittura pericolose.

Si decide quindi di bloccarle e, pur lasciandole inizialmente al loro posto, sostituirle con cancelletti di colore nero, dell’altezza di cm. 70, posti sull’ultimo predellino del vestibolo.

Cancelletti apribili da qualsiasi passeggero, anche prima che il treno sia fermo, e questo sarà causa di diverse disgrazie [7].

 


Abbiamo visto come dai vestiboli fosse possibile introdursi velocemente nei compartimenti dai larghi vani ma, in inverno, la mancanza di porte interne tra i tre scompartimenti, provoca un sensibile calo di temperatura ad ogni fermata.

Pertanto sono realizzate delle porte, seppure adattate, che contribuiscono a peggiorare la movimentazione e l’estetica interna.

Si rende necessario cambiare i respingenti che per altezza, e distanza, non corrispondono a quelli delle elettromotrici che debbono trainarle, ed infine sono modificati tutti i vetri dei finestrini che, per eliminare i difetti, sono ora dotati, in alto, ciascuno di due prese manuali [8].



Tutte queste modifiche comportano molti oneri che, sommati al costo complessivo per l’acquisto delle vetture, fanno lievitare di molto la spesa preventivata.

Si ha la sensazione che queste carrozze siano più adatte per una ferrovia che possa sviluppare grandi velocità per lunghi tratti e non per la Cumana che in meno di venti chilometri di linea effettua dalle sedici alle venti fermate; a seconda delle esigenze stagionali.

Probabilmente sarebbe stato più giusta l’idea iniziale di comprare anche qualche elettromotrice a scapito di mezza dozzina, o più, di rimorchiate.

Comunque queste carrozze continuano a viaggiare su questi binari e nel 1956, a seguito dell’abolizione della terza classe in tutte le amministrazioni ferroviarie europee, vengono riclassificate B.101 – B.118, con promozione alla seconda classe senza modificare le originali sedute di terza.

Pertanto i passeggeri sono ora 80 di seconda classe per quattordici vetture e 72, ovvero 24 di prima e 48 di seconda, per le quattro che inizialmente erano miste di prima e terza classe.

Alcune fonti riportano che nel 1956 sia stata abolita anche la prima classe, ma nei miei ricordi di fine anni cinquanta, e non vorrei sbagliare, ci sono ancora viaggi furtivi in prima classe e questo sarebbe avvalorato dalla foto n. 3, scattata dopo la riclassificazione del 1956, in cui la vettura n. 116 sulle fiancate riporta la classe prima per il compartimento centrale e classe seconda per i compartimenti laterali.

Dalla stessa foto notiamo che la livrea non è più quella originale ma quella ministeriale all’epoca prescritta per tutte le ferrovie locali in regime di concessione.

Ovvero una prima fascia, dal sottocassa fino alla modanatura alla base dei finestrini, in colore rosso ed una seconda fascia, dalla base dei finestrini fino a tutto il tetto, di colore crema. Tale livrea è possibile notarla in una foto di Luigi Iorio che riprende una carrozza ceduta alla Ferrovia Aretina, non modificata ed abbandonata [9 - foto L. Iorio].

 


Nel 1962 per la Ferrovia Cumana entrano in servizio le undici Elettromotrici serie ET.100 che, oltre a funzionare con la nuova alimentazione a 3.000V, evitano le complesse manovre di reversibilità ai due capolinea.

Pertanto sono radiate sia le motrici E.1 - E.9 sia le carrozze che esse trainano, comprese le FIAT che, rimaste in servizio poco più di venti anni, risultano essere i rotabili meno sfruttati dalla nostra ferrovia.

Proprio per questa ancora “giovane” età la SEPSA si trova a disporre di materiale rimorchiato in condizioni abbastanza valide da poter essere posto in vendita; pertanto alcune delle FIAT non sono demolite e partono verso altre linee ferroviarie che, per quanto riguarda il materiale rotabile, versano in condizione peggiore della Ferrovia Cumana.

 

Tra queste “La Ferroviaria Italiana” (L.F.I.), meglio conosciuta come Ferrovia Aretina, che acquista le due elettromotrici E.4 ed E.5, e ben otto di queste carrozze.

Nello specifico si tratta delle sei di seconda classe (ex terza) B.108, B.109, B.110, B.112, B.113, B.114 e di due carrozze miste di prima e seconda classe (ex miste prima e terza) AB.106, AB.111.

Di tutto questo materiale la Ferrovia Aretina rimette in servizio solo due carrozze, la AB.106 e la B.108; tutti gli altri rotabili, comprese le elettromotrici, resteranno per anni a marcire sui binari di vari piazzali [10].


 

Le modifiche cui sono sottoposte le carrozze interessate riguardano principalmente le testate che vedono la parziale attivazione dell’intercomunicante per poter permettere un più sicuro passaggio, sempre del solo personale, tra varie vetture nei lunghi convogli delle Ferrovie Aretine, e la chiusura dei due finestrini posti ai lati di ogni frontale [11].



Le testate conservano la loro caratteristica linea bombata nel mentre i finestrini, posti alle estremità di ogni fiancata, sono resi simili a tutti gli altri perdendo il caratteristico angolo alto curvo [12].

 


Ad entrambe le carrozze vengono montate nuove porte a libro, come avevano all’atto della costruzione, e anche per questo sono ora munite di un accoppiatore di cavi passanti, a più poli, che permette l’allaccio di vari servizi e il telecomando da cabina pilota [13].

 


Le due carrozze trasformate ricevono la nuova marcatura eABiz.121 e eBiz.122; per i non pratici di sigle ferroviarie riporto il loro significato:

(e) carrozza intermedia passante per treni reversibili;

(A) carrozza con posti di prima classe;

(B) carrozza con posti di seconda classe;

(i) carrozza con intercomunicanti senza mantici;

(z) carrozza a carrelli;

(121) numero di matricola assegnato dalla compagnia.

 

Diversa e più traumatica la storia per le tre carrozze acquistate, nello stesso anno 1963, dalle “Ferrovie del Gargano”.

Si tratta delle matricole B.105, B.117 e della mista AB.116 che, dopo trasformazione, ricevono dalla nuova società le sigle Biz.101, Biz.102, ABiz.103 (14 - foto di S. Paolino].


 

La modifica più vistosa riguarda l’abolizione dei vestiboli centrali; essi sono spostati alle due estremità con le relative scalette e porte a battente munite di finestrino.

Le testate, una volta bombate, sono rese piatte e mantengono l’intercomunicante, ancora non praticabile dai passeggeri; criticabile esteticamente la sagoma dello spiovente che raccorda il tettuccio con il nuovo frontale [15].


 

L’interno viene ad essere composto da un unico salone, con porte che lo separano dagli ampi vestiboli, e con corridoio centrale.

I moduli di quattro posti (a due a due frontali) sono in corrispondenza di ciascun finestrino, del nuovo e più pratico tipo “Klein”, che sono dieci per ogni fiancata.

Un totale quindi di 80 posti di seconda classe anche se la tabella ufficiale ne riporta 81 (contando forse qualche strapuntino); naturalmente la carrozza marcata ABiz.103 ha quattro moduli riservati alla prima classe e pertanto può trasportare 16 passeggeri in prima e 65 in seconda classe.

Come le “aretine” pure queste carrozze sono fornite di presa multipolo per servizi di telecomando e, a seguito di tutte le modifiche apportate, vedono aumentare la loro massa ad oltre 21.000 Kg.

Nel complesso sono irriconoscibili ai vecchi utenti della Ferrovia Cumana, complice anche la loro nuova livrea, e solo una foto, che ne riprende una ormai radiata e abbandonata, mi ricorda la sua panciuta fiancata [16].



Sia le carrozze della Ferrovia del Gargano che quelle della Ferrovia Aretina prestano servizio fino a tutti gli anni novanta ed alcune di loro, seppure ferme ed abbandonate, sono rimaste visibili fino ai primi anni del nuovo millennio, ad oltre sessanta anni dalla loro entrata in servizio [17].

 



RIFERIMENTI

Andrea Cozzolino – Dare e Avere delle Ferrovie Complementari Campane

CRAL SEPSA – Storia della Ferrovia Cumana

EAV – Storia Ferrovia Cumana

Hansjürg Rohrer – Rotabili delle Ferrovie Secondarie Italiane

Cocchi & Muratori – Ferrovie Secondarie Italiane

 

GIUSEPPE PELUSO – luglio 2023