La Morgana avvistata
nel Lago d’Averno
Una Fata tra scienza
e fantasia
«Quante
volte la bellissima Fata sarà apparsa sulle memorabili acque dell’Averno senza
che a lei si volgesse sguardo mortale?
E
se pur qualcuno la vide, nella sua incantevole fastosità, seppe esporre e
dichiarare la genesi di quella fuggevole figliuola della luce?
Nessun
ricordo è pervenuto sino a noi, e di questo silenzio non andremo meravigliati.
Molte
dotte osservazioni e sagaci ricerche ed utili scoperte, attinenti alle scienze
sperimentali, andarono del tutto smarrite per colpevole modestia o per
infingardaggine dei nostri avi.»
A parlare in tal maniera è il Marchese Don Giuseppe
Ruffo già Direttore della Reale Segreteria e Ministero di Stato di Casa Reale; autore
di diverse memorie ed amico di puteolani quali Monsignor Carlo Maria Rosini, il
canonico Andrea De Jorio, il principe di Cordiglia e il principe di Cardito.
Unitamente al vescovo Rosini, si prodiga
nell’intento d’ottenere i finanziamenti atti a prosciugare il recinto del
Tempio di Serapide, evitando il ristagno delle acque sospettate di contribuire
all’aria malsana della zona.
Allo storico De Jorio dona una copia del suo
trattato “Sopra la Fata Morgana del Lago di Averno”, oggetto del presente
scritto.
Nel 1833 il marchese Ruffo sente altamente
l'obbligo di contribuire ai dotti lavori della Reale Accademia delle Scienze di
Napoli, di cui è socio ordinario.
Da tempo è questo un suo desiderio ma, suo
malgrado, il suo animo è stato, per due lunghi lustri, rivolto tutto alla sua
carica governativa; solo da poco ha trovato il tempo di dedicarsi pienamente
alle scientifiche discipline che in precedenza ha seguito quanto appena gli
bastasse per non perderne l'uso.
Don Giuseppe Ruffo trascorre gran parte del
giornaliero riposo in uno chalet “poggiato” sopra una amena collinetta tra
Pozzuoli e Montenuovo. Questo suo “casino di delizie” è di fronte alla nuova
strada carrozzabile, che mena a Miliscola attraverso Baia e Bacoli, fatta
costruire nel 1785 per comando di Sua Maestà il Re di Napoli Ferdinando IV per
ovviare all’inconveniente della vecchia litoranea sommersa dal mare.
Alla fin fine la calma della vita privata è
succeduta alle commozioni della pubblica; e già si rallegra dei frutti di
quell'ozio, il quale tutt'altro suona che pigrizia.
Alla Reale Accademia, riunita in pubblico
consesso nella tornata del 2 dicembre 1833 [1], Don Giuseppe presenta, e ne
attira l’attenzione, un bellissimo fenomeno, noto ma raro; quello della “Fata
Morgana”, non decifrato del tutto, che gli è avventurosamente capitato di ammirare,
nella mattinata del precedente 31 marzo, sul vicino lago d’Averno dove si è
recato con la speranza di cacciare uccelli acquatici.
«La
notte del trenta marzo [scrive il nostro chiarissimo Accademico] i venti australi predominano nella
Puteolana regione. Ricoverato nella beata solitudine, sotto il rustico tetto
del mio Casino, io ne udivo con rispettoso raccoglimento il mugghio, che
sembrava la voce minaccevole della natura sdegnata.
Ma
a poco a poco si quietarono, e serena l'aurora spuntò dall'Olibano; solo
qualche rada e scherzosa nuvola, fuggendo, ne velava il roseo sorgere.
Dalla
mia loggia ora il mio sguardo si innamorava di quel placido e puro lume ed ora,
girandolo intorno intorno, lo nutriva delle incantevoli scene di Pozzuoli,
Miseno, Baia, Montenuovo, e del Gauro, un tempo folto di viti ed or selvaggio e
ben chiamato Barbaro.
Commosso
esclamai: Aurora, arsero un tempo questi campi di vivo ed immenso fuoco tu
mescevi la tua limpida luce a quella luce sanguigna. Raffreddata la loro
superficie, tu vedesti la razza umana fermarvisi, e moltiplicare rapidamente, favorita
dalla soavità del cielo e dalla fertilità del terreno. Tu qui splendesti su
fronti greche e romane; né la tua luce immortale invidiò quella caduca delle loro
armi vincitrici e della fastosa loro grandezza.
Tu
qui fosti testimone di poche antiche virtù, di sozze orgie e di molte illustri
scelleratezze. Sotto i tuoi raggi Goti e Saraceni inondarono queste contrade,
come torrente devastatore; e le opere colossali degli avi si trasformarono in
mucchi d'infrante pietre.
Aurora,
tu non muti giammai; e qui la sola bellezza della natura non cangiò del pari;
ma bellezza divenuta infida e crudele, che sparge co' suoi aliti avvelenati la
morte in mezzo all'estive delizie.
Aurora,
tu forse rivedrai questi morbiferi laghi restituiti alla primiera salubrità; queste
colline coronate di pampinosi tralci; queste pianure pingui di frutta e biade,
e seminate di abituri pieni di contadini robusti, industriosi e felici.
Tu
forse rivedrai questi ondosi specchi solcati da mille navigli carichi di
preziose merci patrie e pellegrine; ma forse allora i miei occhi, che di te or
si beano, e forse tutta la generazione che va non sentiranno mai più il tuo
vivifico tocco!
Ma
la Morgana, o Signori, è una fata poetica, la quale fastidisce subito le
digressioni bisbetiche e sentimentali. Ella imperiosa mi sussurra agli orecchi
di trasportarvi di volo sul lago di Averno e mi toglie di accennarvi la mia
salita all'amenissimo Montenuovo, eruttato tre secoli addietro in men di tre
dì, o di parlarvi di quel profondo e largo cratere che tutto apresi alla vista,
e che somiglia l'interno di liscio caldaio.
Ubbidiamola
alla cieca e senza interporre scortese indugiamento.
Il
sole erasi poco dilungato dall'orizzonte, e ben quattro ore e mezzo restavagli
a toccare il cerchio di meriggio, quando io scalpitava le arene del Cannito, in
compagnia del colto giovine D. Michele Palazzolo.
Noi,
perciocchè venuti dal Lucrino eravamo rivolti a tramontana, vaghezza di
cacciare acquatici uccelli ci conduceva all'Averno; ma quale ci prese
maraviglia non più trovando il lago là dove dovea pur essere! [2]
Sulle
prime temei che il mio visivo senso si fosse ad un tratto scemato; ma
sospingendo gli occhi per i circostanti oggetti, questi mi si offrivano quali
io gli aveva cento e cento volte veduto. Perchè avvisandomi trattarsi di
un'ottica illusione, veloce mi corse alla mente ed al labbro la Fata Morgana;
voce che l'estasi ruppe al mio compagno e lo sbalordimento.
Che
addivennero adunque le antiche ed immobili acque dell'Averno?
Elle
si erano trasmutate in prati di fresca verdura, in alberi belli e diritti, in
colline dolcemente chinate; e tutto ciò notante in leggiera nube di minuta
polvere di argento. Null'aura intanto spirava nella bassa regione del lago,
mentre al contrario nella superna gruppi di nuvoloni moveansi in giro, ora
tignendosi in bianco, ed ora di colore filiginoso, con istantaneo cambiamento e
leggiadrissimo contrapposto.
Immoto
io contemplava la visione, temendo che si dileguasse; ma la Fata, per così
dire, erasi addormita sul lago.
Sbramata
quindi una mezz'ora all'incirca la curiosa mia voglia, mi diedi a conoscere ne'
particolari lo stupendo fenomeno. Mi accostai quasi a toccar con mano il lago;
e repente la parte a me più propinqua si disascose in lunga striscia, che
l'occidentale ripa congiungeva all'altra di levante. Lucida e spianata era
l'onda come terso specchio, e poichè nella successiva durava il magico
rappresentamento, ed alcun che di confuso si frapponeva tra i limiti del vero e
dell'ingannevole, ponte pareami quella striscia di massiccio argento sospeso
arditamente sull'abisso; ponte degno della maestà della natura, ove riflessi si
effigiavano al vivo, quantunque volti a ritroso, i venerandi ruderi del tempio
di Apollo, i vicini poggi ed il lontanissimo romitaggio sopra Monte Santangelo.
Volevasi
un altro esperimento, nè lo trasandai. Mossi da mezzodì a settentrione, tenendo
la via occidentale del lago, e l'apparizione svanì, come legge naturale
chiedeva, da che i miei occhi s' incontrarono negli abbaglianti raggi del sole.
Si
che mi dipartii dall'incantato luogo, quale uomo che dubiti se vide desto o
sognando. Innanzi che io entri colle speculazioni della fisica nella materia,
giova, o Signori, al pieno suo intendimento, richiamare alla vostra memoria la
più sorprendente, la più celebre Morgana dell'universo, la quale alle Due
Sicilie si appartiene; quella che presentandosi di tempo in tempo ed
all'improvviso nel canale di Messina, colpisce e diletta l'abitatore della
Calabria, colà dove natura fu de suoi tesori larghissima donatrice.»
Al tempo dei barbari uno dei re conquistatori
arriva in Calabria e si trova davanti un’isola meravigliosa con al centro una
montagna che emana fumo e fuoco.
Sta meditando su come fare per raggiungerla e
conquistarla, quando gli appare una bellissima donna [3] che gli dice:
“Vedo che guardi quella meravigliosa isola e
ne ammiri le distese di aranci e ulivi, i dolci declivi ed il suo magico
vulcano. Io posso donartela se la vuoi.”
E’ agosto, il mare è tranquillo e neppure un
alito di vento turba la pace e la serenità del luogo; l’aria è tersa e limpida
e davanti agli occhi del re barbaro accade uno strano fenomeno: la Sicilia è
vicinissima, si possono vedere chiaramente gli alberi da frutto, il monte che
vomita fuoco e perfino gli uomini che scaricano merci dalle navi.
Il re barbaro si butta in acqua sicuro di
poterla raggiungere con pochi passi.
Mentre il re barbaro affoga, la fata Morgana
sorride.
Ancora oggi nello stretto di Messina, ed in
pochi altri luoghi a motivo di particolari condizioni atmosferiche, si verifica
questo strano fenomeno di rifrazione ottica per cui, nelle giornate particolarmente
terse di agosto e settembre, la Sicilia sembra vicinissima alla Calabria e se
ne possono distinguere distintamente
campi, case e colline [4].
La fata Morgana, nome di origine bretone che significa
“fata delle acque”, è un personaggio legato alla mitologia
celtica ed è raffigurata come fluttuante e sospesa sulla superficie di fiumi e
laghi [5].
La leggenda narra che, dopo aver condotto suo
fratello Re Artù ai piedi dell’Etna, si trasferisce sullo stretto di Messina e
qui manifesti ai marinai l’illusione di fantastici castelli galleggianti, che
sembrano materializzarsi agli occhi di chi assiste al miraggio, per poi
portarli alla deriva.
L’immagine
dei “miraggi” ottici, tanto rari quanto affascinanti, rispondono a precise
leggi fisiche e si vedono come sospesi nell’aria; questo è il motivo per cui a
questo fenomeno è dato lo stesso nome della fata che fluttua sulle acque, come
in un leggiadro ballo, al fine di rapire gli uomini per farne suoi amanti.
Il marchese don Giuseppe Ruffo, per
sdebitarsi della cortesia mostrata dagli altri accademici, così termina il suo
saggio:
«Meglio
pregherò a mani giunte la Morgana dell'Averno a largheggiare con voi
degl'innocenti suoi incantesimi, se ma; qualche bel mattino di Aprile vi
attirasse su quella deliziosa piaggia. E se nell'estasi della vostra sorpresa
vi sovverete che un vostro collega fu il primo a vederla e ragionarne, io
chiamerò aurea, vostra mercè, la mediocrità di questo accademico saggio.»
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Giuseppe Peluso