giovedì 19 novembre 2015

Campi Flegrei del Mar di Sicilia


I Campi Flegrei non sono unici
Ci sono anche quelli di Calcidica e quelli del Mar di Sicilia

Nel mentre gli autori antichi chiamano Flegri tutti i luoghi che buttano fuoco, quelli medioevali concordano nel dire che la vera Flegra sia situata in Terra di Lavoro. Ovvero in un luogo posto tra Campana e Quarto, con intorno dei Monti chiamati Leucogei per la loro bianchezza cagionata dal fuoco e dallo zolfo [1].

Tra i classici Diodoro Siculo [2], storico greco-siciliota che chiama Flegra anche il Vesuvio, racconta che Ercole partì dal Tevere e, percorrendo le regioni costiere del paese che per noi ora è l’Italia, raggiunse la piana di Cuma.

Il mito narra che qui esistevano uomini di forza superiore chiamati Giganti; famigerati perché non rispettavano alcuna legge. Tale piana era detta Flegrea, ossia “Ardente”, a causa di un monte che in tempi remoti aveva eruttato un fuoco immane; oggi codesto monte, continua Diodoro, è noto col nome di Vesuvio.
Quando i Giganti seppero dell’arrivo di Ercole si raccolsero tutti assieme e si disposero a battaglia contro di lui; ne nacque uno scontro poderoso per la forza e l’ardire dei Giganti, in cui si dice che Ercole, aiutato dagli Dei, alla fine trionfasse eliminandoli quasi tutti.

Polibio, (storico greco antico), continua a menzionare Timeo di Tauromenio, (storico greco-siciliano) [3], pur avendogli in precedenza dato dell’ignorante, riportandone una affermazione con la quale asserisce che tutta la pianura intorno a Capua e Nola si chiamava un tempo Flegrea. Che essa era stata occupata dagli Etruschi e godeva di grande reputazione per la sua fertilità.

Ribadisce poi che era chiamata, come altre, Flegrea con riferimento a Flegra-Pallene in Calcidica [4] dove la mitologia localizza la lotta tra Zeus e i Giganti.


In questo caso è fuori di dubbio che si debba connettere la battaglia dei Giganti e lo stesso toponimo Flegra al punto da indurre a ritenere che i Campi Flegrei siano una sorta di antica menzione di un'unica leggenda.
Infatti Eudossio (vescovo ariano e Patriarca di Antiochia) e Teagene (tiranno di Megara in Grecia) chiamano Flegra pure il Pallene di Tracia; ovvero la penisola dove sorge l’odierna Cassandra, la più occidentale delle tre penisole della Calcidica nel mare Egeo, che fu coinvolta nella lotta fra gli Dei e i Giganti.
Pertanto gli Antichi appellano con il nome Campi Flegrei tutti i luoghi che con tal nome esprimono sia la natura morfologica dei medesimi, per i fenomeni sulfurei e vulcanici, sia la natura mitologica degli stessi, quando riportano leggende di guerre di giganti.

Giacomo Martorelli, docente di greco e studioso delle antichità nel settecento, riconosce di origine Fenicia l’etmologia del nome Flegra: “mira contentio”, ovvero “meravigliosa contesa” e per lui la base è simile all’etimo della voce “Pallene”, “pale mirabilis”, ovvero “portentosa” [5].
Tutto questo rivoluzionerebbe le nostre certezze circa la derivazione greca di “terre ardenti” e confermerebbe quanto affermato da Diodoro in merito alle guerre, sia nella Pallene di Tracia che nei nostri Campi Flegrei, degli Dei contro i giganti invasori di tali fertili luoghi.
Ma la parola “flegrea”, quale derivazione di ardente, ha preso il sopravvento ed in tempi più recenti altre zone vulcaniche hanno di diritto preso possesso di questo appellativo.

I più famosi tra questi sono i “Campi Flegrei del Mar di Sicilia”, noti anche come “Campi Flegrei del Canale di Sicilia” [6].

Una regione vulcanica sottomarina situata nel canale di Sicilia tra la costa italiana, da cui dista 20 miglia nautiche in direzione nord-est, e l'isola di Pantelleria, in direzione sud-ovest; compresa quindi nelle acque territoriali italiane.
Questa regione vulcanica include una depressione a 1000 metri composta da dodici vulcani, tra cui il più famoso è l'Empedocle.
Gli altri vulcani che compongono i “Campi Flegrei del Mar di Sicilia” sono: “Anfitrite”; “Cimotoe”; “Galatea”; “Madrepore”; “Banco Nerita”; “Banco di Pantelleria”; “Pinne”; “Banco Smyt I”; “Banco Smyt II”; “Banco Terribile”; “Tetide”.

La prima eruzione conosciuta dei “Campi Flegrei del Mar di Sicilia” risale alla prima guerra punica verso il 253 a.C. quando i vulcani “Empedocle” e “Pinne” diventano attivi. Bisogna poi attendere il 1632 quando una seconda eruzione è riconosciuta come attività subacquea attribuita ad “Empedocle”.
Dopo un'attività discutibile del 1701 un'altra eruzione di questo vulcano va dal 28 giugno al 11 agosto 1831 quando dà vita all’isola “Ferdinandea”.

Già dal 22 giugno 1831 sono percepite scosse lievi a Sciacca, ma poi il 28 si sente un forte sussulto, accompagnato da cupo boato, e nello stesso giorno due battelli inglesi, navigando tra Sciacca e Pantelleria, subiscono dei colpi allo scafo, come se avessero urtato qualche cosa.

Il 2 luglio, sempre a Sciacca, si comincia a sentire un odore fetido e i pescatori riferiscono d’aver visto, al largo, il mare ribollire.
Due giorni dopo è raccolta, nello stesso braccio di mare, una grande quantità di pesci morti o tramortiti.
Il primo a osservare fumo e vapori è il capitano siciliano Trefiletti che, attirato da una nube e dai rumori, si avvicina con il suo battello "Gustavo" e vede: «l'acqua del mare sollevarsi per una forza meravigliosa e formare una colonna sormontata da fumo, per una altezza di circa 18 metri e un diametro di almeno 30».

I giorni 10 e 11 luglio il principe Pignatelli, avvicinandosi alla zona con una piccola barca, assiste all'eruzione di ceneri e pietre, accompagnata da lampi e fuochi di diversa forma e colore, ma non vede alcuna terra emersa.
La vede invece il 16 luglio Corrao, il comandante del bastimento napoletano "Teresina", che la valuta alta circa 12 piedi (3,6 metri) sul livello del mare.
E’ questa la nuova isola appena emersa che oggi si usa chiamare “Giulia Ferdinandea” unendo i nomi che le hanno dato il vulcanologo francese Constant Prevost e il vulcanologo napoletano Carlo Gemmellaro [7].


Ma l'isola è battezzata in vari modi dai suoi scopritori e "pretendenti" poiché si ritrova al centro di una travagliata disputa territoriale tra la Gran Bretagna, la Francia ed il Regno delle Due Sicilie.

Il 12 agosto corre sul posto il vulcanologo Gemmellaro, suddito del re delle Due Sicilie, che non riesce a sbarcare a causa delle eruzioni in atto. Comunque fornisce una descrizione dettagliata ed i primi disegni dell’isola che ha raggiunto tre miglia di perimetro ed una altezza di circa 60 metri.

Inizialmente l’isola è chiamata “Graham” dal capitano Jenhouse che vi giunge il 2 agosto 1831 e il 24 ne prende formalmente possesso in nome di Sua Maestà Britannica, piantandovi la bandiera inglese [8].


Il 26 settembre, per contrastare l’azione inglese, arriva in vista della nuova isola il geologo Constant Prevost, inviato dalla Francia a bordo della "Flèche", che la chiama “Giulia” (Juillet) perché nata nel mese di luglio.
Come gli inglesi, anche i francesi approdano sull'isola senza chiedere alcun permesso a re Ferdinando II di Borbone nonostante l'isola sia sorta entro acque prossime alle coste siciliane. Anzi i francesi pongono una targa con la seguente iscrizione: "Isola Iulia – i sigg. Constant Prévost, professore di geologia all'Università di Parigi – Edmond Joinville, pittore - 27, 28, 29 settembre 1831".
In segno di possesso viene innalzata sul punto più alto la bandiera francese.

Praticamente l'isola avrebbe goduto, all'epoca, dello stato di “insula in mari nata”; cioè, in quanto emersa dal mare, la prima nazione o persona a mettervi piede avrebbe potuto rivendicarla legittimamente, in questo caso gli Inglesi.
Il fatto che fosse in acque territoriali siciliane però complica la situazione e questi avvenimenti fanno montare una protesta degli abitanti del Regno delle Due Sicilie che, assieme a quelle del capitano Corrao, arrivano anche alla casa borbonica. Si propone di nominare l'isola con nome italiano e si chiedono al re provvedimenti contro il sopruso inglese.

Il re Ferdinando II, constatato l'interesse internazionale che l'isoletta ha suscitato, invia sul posto la corvetta “Etna” al comando dello stesso capitano Corrao il quale, sceso sull'isola, pianta la bandiera borbonica battezzando l'isola "Ferdinandea" in onore del suo sovrano.

Dalla fine dell'eruzione l'isola è soggetta a crolli ed sprofondamenti. Il 7 novembre si nota solo una grande e bassa spiaggia sulla quale si erge una collina alta 20 metri; a dicembre non si vede altro che il frangere delle onde su un basso fondale ed a gennaio 1832 si notano dei picchi solo a due metri di profondità.
A questo punto la storia dell’isola è conclusa; essa, formata da scorie e lapilli, è stata demolita dal moto ondoso e probabilmente anche abbassata da un collasso della camera magmatica. Resta una estesa secca, nota come ”Banco di Graham” (nome adottato dalla Royal Geographical Society di Londra riprendendo quello scelto dal capitano Denhouse), il cui punto più alto si trova ad otto metri dalla superficie [9].
 
Nel 1846, il 12 agosto 1863, nel 1867 e forse anche il 30 settembre 1911, l'isoletta riappare ancora in superficie, per poi scomparire nuovamente dopo pochi giorni. Di essa restano solo i molti nomi avuti in seguito alla disputa internazionale: “Julie”, “Nerita”, “Corrao”, “Hotham”, “Graham”, “Sciacca”, “Ferdinandea”; troppi per una piccola isola spuntata di colpo dal mare e rimasta visibile appena quattro mesi.

Ciò che avvenne in quella lontana estate altro non era che un fenomeno legato al diffuso vulcanesimo di questo tratto di mare. Oltre alle due isole completamente vulcaniche di Pantelleria e Linosa, in questo settore del Mediterraneo, ci sono infatti altri diversi apparati vulcanici sommersi che sono stati attivi in tempi geologici recenti. Per questi motivi questo tratto di mare è stato addirittura chiamato "Campi Flegrei del Mar di Sicilia", a indicarne l'intensa attività vulcanica e post-vulcanica con frequenti emissioni fumaroliche e termali; così come avviene nei nostri Campi Flegrei.

A scanso di equivoci, e visto probabili segnali premonitori di una riemersione dell’isola, i siciliani hanno posto sulla superficie del banco sottomarino una targa in pietra, sulla quale si legge:
«Questo lembo di terra una volta isola Ferdinandea era e sarà sempre del popolo siciliano.»

BIBLIOGRAFIA
AA.VV - Memorie Di Matematica E Fisica – 1799
AA.VV – Isola Ferdinandea – Wikipedia -
Paolo Colantoni –C’era una volta un’isola – luglio 1982

Paolo Colantoni – Rischio vulcanico - ENI – settembre 2011

lunedì 26 ottobre 2015

La Solfatara e i Diavoli che la infestano


La Solfatara, i diavoli che la infestano
e la Commemorazione dei Defunti

Giulio Cesare Capaccio [1] con la famosa guida seicentesca riferisce che nella

Solfatara i Venerabili Padri Cappuccini, che abitano nella vicina Chiesa di S. Gennaro, spesso sono travagliati dai Diavoli.
I fraticelli vanno attestando che più volte nel loro convento sono apparsi demoni e fantasmi e ancora più spesso sono rimasti terrorizzati sentendo ululati che provocano grandissimo spavento.
Anni addietro, continua il Capaccio, il Vescovo di Pozzuoli Leonardo Vairo [2]

gli ha raccontato che ad un giovine pugliese, che studiava in Napoli, essendogli stato rubato ciò che aveva e fattosi tentare dal Diavolo gli promise che se gli avesse fatto ricuperare la roba perduta gli avrebbe fatta “promissione di darglisi in potestà”. Praticamente gli aveva fatto promessa di concedergli l’anima, e di ciò era pronto a farne testimonianza in un contratto scritto col filo del proprio sangue.
Per eseguire quella diabolica volontà se ne venne in questo luogo della Solfatara ove, invocato il Diavolo e cavatosi sangue dal braccio, scrisse la sua promessa. Appena fatto questo nel vedere visioni orribili, con tanti diavoli attorno, cadde in tanta confusione che, fattosi il segno della croce, si ritirò al Convento dei Padri Cappuccini e narrò il tutto al Padre Guardiano.
Questo buon frate volle farne partecipe il Vescovo che aveva avuto incarico da Roma di riconoscere tutti i patti religiosi. Il Vescovo volle avvisarne sua Santità il quale comandò che si cercasse il detto giovane e che fosse condannato nelle galere; cosa che fu fatta e il giovane fu effettivamente castigato con penitenza adeguata al delitto.
Il Capaccio aggiunge che il detto Vescovo gli disse ancora che nel suo bagno Ortodonico aveva avuto relazione da molti che si sentivano pianti e gemiti. Perciò egli faceva quel luogo simile a quello dove fu ritrovata, e liberata, l’anima
del diacono Pascasio dal Vescovo di Capua, San Germano; questo luogo, dove il Santo veniva a curarsi un artrite e chiamava Purgatorio, altro non era che una stufa termale della vicina Agnano [3].

Anche Sigisberto nelle sue “Cronache” chiama questi, ed altri simili luoghi, Purgatori e dice che in Sicilia sono chiamati “Olla Vulcani” (pentole vulcaniche) dagli abitatori. Sigisberto [4] dice che era stato riferito da un Cittadino ad un

 Religioso (che da Gerusalemme era venuto in Sicilia e da lui ricevuto come ospite) che le anime dei morti in quei fuochi pagavano la pena secondo i meriti. Aggiunge poi che in questi luoghi si ascoltavano voci di Demoni e che per mezzo delle elemosine, e delle orazioni dei fedeli, quelle anime erano liberate dalle fiamme.
Sigisberto continua col dire che l’Abate Odilo Cluniacense [5], avendo udito

questo racconto da un certo Peregrino, istituì per tutti i suoi Monasteri che “…siccome nel primo di Novembre si celebra la festività di Tutti i Santi, così nel giorno seguente si facesse memoria di tutti i defunti, il quale rito è fatto solenne in tutta la Chiesa”.
Il Tritemio [6] aggiunge che questo racconto fu riferito da un Eremita ad Ansfrido Monaco.

Pietro Damiano [7] Vescovo Ostiense e Cardinale riferisce aver udito da Umberto Arcivescovo che ritornava dalla Puglia che

“.. in un luogo vicino Pozzuoli era eminente un promontorio tra acque nere e fetide, dalle quali bruttissimi uccelli sorgeano, che dall’ora vespertina del Sabato, fino all’oriente della seconda sera era solito di lasciarli vedere con aspetti umani, andar vagando per il monte, stendere le ali, e col rostro mirarsi le penne, li quali ne mangiar si vedevano, ne potevano essere presi in qualsivoglia maniera, e che veniva dietro a quelli un corvo il quale, essendo udito crocitare, quelli si immergevano nelle acque…”.
Riferisce anche che alcuni solevano dire che quelli erano anime destinate ai supplizi le quali in tutta la settimana erano cruciate e afflitte, ma nel giorno della Domenica, per gloria della Resurrezione del Signore, sentivano refrigerio.
Dice oltre a ciò l’istesso Damiano, che essendo questa opinione ributtata da Desiderio Abbate Cassinese [8],

avendo letto gli scritti suoi e avendo Umberto detto di volerlo dire a quelli che in quel paese abitano, non volle ne affermarlo ne negarlo.
Lo stesso Pier Damiano nell’epitaffio a Damiano Loricato [9],

dice d’aver udito dal medesimo Desiderio, che poi fu papa Vittore III, che
“…un servo di Dio, abitando in luogo solitario su di una rupe scoscesa lungo la Campagna che va a Pozzuoli, una notte recitando i suoi consueti salmi apre la finestra e vede passare per quella via molti uomini neri che sembrano etiopi. Questi portavano grandi sarcine di fieno e chiese loro chi fossero ed in grazia di chi portassero gran provvigioni; per giumenti forse?
Siamo, risposero essi, Spiriti Infernali e non portiamo queste cose in cibo a pecore ma bensì per alimentare i fuochi che bruciano gli uomini poiché aspettiamo Pandolfo il Principe di Capua che è già morto e Giovanni Duca di Napoli che ancora vive…”
E questo testo è anche citato dall’illustre Cardinale Baronio [10] per dimostrare che i due pubblici personaggi erano stati condannati all’inferno.


 NOTE E FOTO

[1] Giulio Cesare Capaccio, nato a Campagna nel 1550 e morto a Napoli nel 1634, teologo, storico e poeta del Regno di Napoli.

[2] Leonardo Vairo, Magliano Vetere 1543 – Pozzuoli 1603, dell’Ordine di San Benedetto, vescovo di Pozzuoli dal 1587. Si adopera moltissimo nella scrupolosa applicazione delle nuove norme emanate dal Concilio di Trento.

[3] San Germano, morto nel 540, è stato vescovo di Capua ed è ricordato per l'episodio della liberazione dal purgatorio del diacono Pascasio. Questo gli si era presentato come il custode della sorgente delle acque termali di Agnano dove Germano era andato a curarsi.

[4] Sigebert di Gembloux, 1030 circa – 1112, monaco benedettino, autore del Chronicon; opera storica che abbraccia il periodo compreso tra il 381 e il 1111. Nel 998, secondo la sua Cronaca, I'abate di Cluny, Sant'Odilone, dispose che in tutti i conventi cluniacensi il 2 novembre, dopo i vespri di Ognissanti, si celebrasse la memoria dei defunti e si pregasse per loro.

[5] Odilone di Cluny (961-1019) fu il quinto abate di Cluny dal 994 sino al 1048. La riforma cluniacense fu un movimento di riforma ecclesiale dell'alto medioevo che ebbe la sua origine nell'abbazia benedettina di Cluny, in Borgogna, e poi s’estese a tutta la Chiesa cattolica.

[6] Giovanni Tritemio, dal latino Johannes Trithemius, pseudonimo di Johann Heidenberg (1462-1516) è stato un esoterista, storico, scrittore, astrologo, umanista e crittografo tedesco.

[7] San Pier Damiani, Ravenna 1007 – Faenza 1072, è stato un teologo, vescovo e cardinale italiano venerato come Santo. Fu grande riformatore e moralizzatore della Chiesa e diceva di considerarsi Petrus ultimus monachorum servus (Pietro, ultimo servo dei monaci).

[8] Desiderio, 1027 – 1087, Abate di Montecassino (1058-1086) all'epoca dell'apogeo del monastero benedettino e poi papa con il nome di Vittore III. Fu tra coloro che in età romanica incarnarono più pienamente la figura dell'abate costruttore e patrono delle arti.

[9] San Domenico Loricato (X sec.), monaco camaldolese originario del Cagliese, fu chiamato dal suo amico e maestro S. Pier Damiani a reggere una nuova comunità eremitica, fondata alle falde del San Vicino. Fu l'eroe della penitenza, una penitenza inaudita, tutta tesa a mortificare il proprio corpo, al


punto da indossare, senza mai toglierla, una specie di camicia di ferro a maglie concatenate, la "lorica", da cui prese il nome.


[10] Cesare Baronio, Sora 1538 – Roma 1607, è stato uno storico, religioso e cardinale. Il suo nome è legato alla redazione dei primi volumi degli “Annales ecclesiastici”.

lunedì 12 ottobre 2015

EXPO MILANO 1906



Esposizione Universale di Milano del 1906

La partecipazione dell’Armstrong di Pozzuoli

Milano, sede della EXPO 2015, non è nuova ad un evento del genere. La città infatti già nel 1906 ospita una grande mostra, riconosciuta come una delle prime Esposizioni Universali [1].

Esposizione, quella del 1906, che vede l’indiretta presenza di Pozzuoli, delle sue maestranze e della sua laboriosità attraverso la partecipazione dell’Armstrong.

Dalla seconda metà dell’ottocento le grandi città sono protagoniste e palcoscenico di esposizioni organizzate con l’intento di far conoscere, al grande pubblico, prodotti e tecnologie della nascente e moderna era industriale.
La prima è Londra che nel 1851 organizza una “Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations” in Hide Park dove è costruita una struttura in ferro denominata Crystal Palace. Seguono altre tra cui Parigi nel  1889  con la sua “Exposition Universelle” e la Torre Eiffel che è ancora là a suo ricordo.
Milano già precedentemente è protagonista di attività fieristica; nel 1881 con “L’Esposizione Nazionale”, un evento importante per la storia di Milano e d’Italia, a soli nove anni dall’unità, e nel 1894 con “Le Esposizioni Riunite” che, seppure con risultati leggermente minori rispetto alla manifestazione del 1881, serve a ravvivare le energie in un momento di crisi per le industrie nazionali.

Promotori e fautori dell’organizzazione dell’Esposizione Internazionale di Milano 1906 sono, nel 1901, la Lega Navale e l’Associazione Lombarda dei Giornalisti, che propongono una grande Mostra sui mezzi di trasporto per acqua. In seguito viene l’idea di associare la realizzazione dell’Esposizione alla data memorabile del completamento del traforo alpino del Sempione. Questo porta ad un ripensamento dell’Expo, che assume un carattere di universalità nel campo del lavoro e un’estensione mondiale nelle partecipazioni.
L'esposizione diventa subito un evento di grande portata e finisce per ospitare anche grandi rappresentanti dell'agricoltura, delle scienze, del sociale, tanto da passare alla storia come la prima Esposizione Universale Italiana. Essa si snoda tra circa 200 padiglioni su una superficie espositiva, compresa tra il Parco del Sempione e la nuova piazza d'Armi, di un milione di mq e vede la presenza di circa 10 milioni di visitatori giunti da ogni parte del mondo. Come quelle di Londra e di Parigi anche questa Esposizione lascia una traccia del suo passaggio con la costruzione dell'Acquario Civico, ancora oggi una delle costruzioni più rappresentative.
L'esposizione di Milano sancisce la rinascita sociale ed economica della città, consacrandola a capitale industriale italiana. 

L’Esposizione è inaugurata a Milano il 28 aprile del 1906 [2] e dura fino all’11 novembre dello stesso anno. Il tema dell’Esposizione è “La scienza, la città e la vita”. Questo titolo è emblematico del fatto che a differenza di tutte le precedenti Esposizioni Universali ottocentesche, che si erano limitate a esibire macchinari e prodotti, ora si mettono, per la prima volta al centro gli uomini, la società, il lavoro, con tutte le possibili evoluzioni non solo tecniche ma anche sociali.
Centinaia gli edifici che ospitano l’Esposizione e che sono stati progettati dai migliori architetti dell’epoca in uno stile moderno; un liberty in una versione non molto rigorosa, e neppure raffinata.
Per l’Esposizione sono costruiti più di 120 tra caffè, buvette e ristoranti. Un esempio di innovazione portata dall’Esposizione è rappresentata dalla presentazione di una nuova tipologia di ristoranti, i self service che nascono grazie ad una intuizione dell’epoca.

Questa esposizione vede la partecipazione della italo inglese Armstrong che nel 1886 ha impiantato a Pozzuoli proprie officine per la costruzione di artiglierie navali.
Nel 1903 questa fabbrica, ancora filiale della casa madre “WG Armstrong Mitchell & Co. Elswick Works”, per combattere e risolvere la concorrenza del gruppo siderurgico guidato dalla “Terni”, fa un accordo con la ditta Ansaldo di Genova. Nasce così la Gio. Ansaldo-Armstrong Whitworth & C. Ltd.  che diventa la più grande industria meccanica italiana specializzata nella produzione bellica; con una capacità di impiego di 16 mila operai.
Con questa ragione sociale la grande fabbrica partecipa all’expo milanese andando ad occupare un bellissimo edificio a lei dedicato; esattamente il 17° padiglione in Piazza d’Armi, progettato dall’architetto Brongi [3-4-5].




Due sono le bocche da fuoco che questo stabilimento espone al naturale; un cannone da 102 mm su affusto navale ed un cannone da 76 mm da campagna, su affusto a deformazione. Presenta, inoltre, una interessante serie di modelli e di disegni, comprendenti un tubo di lancio subacqueo, diversi impianti corazzati, un affusto a scomparsa ed un meccanismo di chiusura per cannone a tiro rapido da 76 mm.
Nel padiglione sono esposte foto, progetti e modelli di tutte le artiglierie in produzione che poi sono riportate nell’opuscolo “Lo Stabilimento Armstrong di Pozzuoli all’Esposizione di Milano – 1906” [6] che il personale di servizio, tra cui molti operai puteolani, distribuisce ai numerosi visitatori e delegazioni internazionali.

Una dettagliata descrizione dei pezzi d’artiglieria esposti la si trova ugualmente nella dispensa “I Materiali d’Artiglieria all’Esposizione Internazionale di Milano del 1906”, che riporta anche le bocche da fuoco esposte da altri fabbricanti, italiani e stranieri.
La stessa Armstrong stampa e distribuisce una cartolina commemorativa dell’avvenimento riportando, sulla stessa, la foto del pezzo da campagna da 76/84 con tutte le sue caratteristiche [7].


I prodotti della Armstrong sono comunque presenti anche nei padiglioni in cui espone la Regia Marina Italiana alla quale è riservato un posto d’onore nella sezione “Trasporti Marittimi e Fluviali”.
L’interessante opuscolo “La Regia Marina Italiana all'Esposizione di Milano 1906” riporta che affinché nessun servizio sfugga all' attenzione del visitatore, il materiale esposto dalla Marina è ordinato nelle seguenti classi:

Cartografia — Costruzioni di terra ferma — Progetti di navi e studi — Costruzione dello scafo ed annessi — Motrici e macchinari — Armi e difese — Impianti elettrici — Segnalazioni — Igiene e servizi sanitari — Istituti, materiale scientifico, pubblicazioni — Mostra retrospettiva.

In particolare nella sezione Armi e Difese  sono descritti e raffigurati i cannoni a retrocarica in servizio e qui si nota che quasi tutti i modelli sono prodotti dall’Armstrong di Pozzuoli.

Partendo dal calibro più basso l’opuscolo riferisce che sulle navi più moderne il cannone da 76 mm. sostituisce i calibri da 37, 47, 57 che non verranno più riprodotti. Aggiunge che parte di questi cannoni da 76 mm. sono forniti dalla Armstrong di Pozzuoli, e parte dalle Officine di S. Vito.
Passa poi a descrivere il cannone da 120 mm. che è l’unico non costruito a Pozzuoli ma aggiunge che queste bocche da fuoco sulle navi moderne non si useranno più..
Viene poi il cannone da 152 mm. e riferisce che questi pezzi, forniti alla Marina in gran parte da Armstrong, costituiscono l'armamento secondario delle nostre navi.
Si passa al cannone da 203 mm. che costituisce l'armamento principale delle ultime nostre navi e sono tutti torniti dalla Ditta Armstrong.
Il cannone da 305 mm. costituisce l'armamento di grosso calibro di tutte le ultime nostre navi e sono stati forniti alla Marina dalla Ditta Armstrong [8].    


Vicino al padiglione Ansaldo-Armstrong troviamo quello della città di San Pier d’Arena, uno dei pochi che non sia in Liberty. Esso ha riferimenti talmente espliciti alla propria attività, ovvero la cantieristica navale principale attività di questa cittadina che nel 1926 sarà annessa dalla vicina Genova, da assumere un effetto terribilmente “kitsch”.

Fa piacere ricordare che questa cittadina in quegli anni è particolarmente legata alla Lega Navale che, come riferito, è tra le prime promotrici della Esposizione Internazionale. Tra l’altro a Sanpierdarena ancora esiste una bella palazzina in stile Liberty/Marine già sede della locale Lega Navale

Giuseppe Peluso - Notiziario CSTN - Lega Navale - Giugno 2015

lunedì 28 settembre 2015

Dal Siluro al Paperino




 I.M.N. - Industria Meccanica Napoletana
Dal siluro al Paperino

Sui relitti del glorioso Silurificio Italiano nel 1948 nasce a Baia una moderna fabbrica che con coraggio affronta lo studio e la produzione di un veicolo popolare a basso prezzo.

Per la storia di questa industria si rimanda al seguente link: http://giuseppe-peluso.blogspot.it/search/label/03%20La%20IMN%20di%20Baia

Qui di seguito una panoramica su depliant, broscure e pagine pubblicitarie dei primi anni cinquanta; tutti disegni rigorosamente in bianco e nero.

Sarebbe opportuno ampliare questa raccolta con materiale e ricordi che certamente sarà gradito a tutti coloro che vorranno mantenere viva la memoria di un passato industriale.