lunedì 14 maggio 2012

Uno Zeppelin su Napoli

                                       











Uno Zeppelin su Napoli

Il Dirigibile L.59 bombarda i Campi Flegrei

 

In un precedente articolo ho accennato al primo e unico bombardamento subito da Napoli durante la Grande Guerra ad opera di un dirigibile tedesco. Qualche incuriosito lettore ha chiesto maggiori informazioni pertanto, anche in considerazione del sorvolo di Territorio Flegreo,  ritengo opportuno riportare una pagina di storia molto interessante ma poco conosciuta.
Nel corso del 1917 l’Alto Comando tedesco matura l’idea di portare soccorsi al lontano Tanganika dove ancora resiste, benché circondato da truppe dell’Intesa, l’esercito coloniale del generale Paul von Lettow - Vorbeck. Si ritiene che il mezzo idoneo non possa essere né un sommergibile né una nave dato che von Lettow è già stato costretto ad abbandonare l'ultimo lembo dell'Africa orientale tedesca e a ripiegare oltre il fiume Rovuma all'interno della colonia portoghese del Mozambico e non si sa se le coste della colonia germanica siano ancora libere o conquistate dalle forze britanniche. Quindi si punta sul mezzo aereo e precisamente sul “più pesante dell'aria”, capace di un'autonomia molto maggiore di quella degli aeroplani; per non parlare del problema relativo al trasporto dei materiali che solo un grande dirigibile può risolvere in maniera adeguata.
In Germania fin dal 1908 la ditta Luftschiffbau Zeppelin GmbH, del conte Ferdinand von Zeppelin, sta sviluppando un tipo di dirigibile rigido che entro il 1938 sarà prodotto in un totale di 119 aeronavi. La scelta cade sul dirigibile LZ.104 [1], che ha appena effettuato il volo di prova il giorno 10 ottobre 1917, designato L.59  dalla Imperiale Marina Tedesca cui appartiene. La società Zeppelin numera i suoi dirigibili LZ 1/2/..., dove LZ sta per "Luftschiff (aeronave) Zeppelin"; la Marina Tedesca li numera semplicemente L 1/2/....; e l'esercito tedesco li chiama Z I/II/.../XI/XII.
Si tratta di una grande aeronave, lunga 196 metri, che in vista del lunghissimo volo sui cieli africani viene sottoposta ad imponenti lavori di ingrandimento. Gli sono aggiunti ben 30 metri di lunghezza, portandola a 225 metri, con un diametro di 24 metri, di modo che il suo volume interno si accresce a 68.500 metri cubi. Diviene così il più grande dirigibile che si sia mai visto al mondo, sino a quel momento. Viene studiata la maniera di ottimizzare il trasporto del materiale destinato alle truppe di von Lettow. Una parte dell'involucro avrebbe potuto essere impiegata, una volta giunto il dirigibile a destinazione, come telo da tenda e per la confezione di abiti; mentre persino i palloni contenenti il gas potranno trasformarsi in sacchi impermeabili per dormire. I motori sarebbero stati impiegati per alimentare la dinamo della stazione radio che lo stesso dirigibile trasporta; il telaio di alluminio, smontato, avrebbe fornito la struttura per le barelle da campo, per l'impalcatura delle baracche, e perfino per costruire una antenna radio.
Il peso complessivo dell'aeronave è di 79.500 kg dei quali 27.600 sono dati dal peso della struttura e i restanti 52.000 dal materiale trasportato. Essa è azionata da cinque motori di 240 cavalli ciascuno, che le permettono di raggiungere una velocità massima di circa 100 km all'ora, anche se praticamente la velocità media non supera i 70 km all'ora. Infine, vi è a bordo una stazione radio Telefunken della potenza di 800 watt. Il carico comprende, fra l'altro, 312.000 cartucce per fucile, 30 mitragliatrici con 9 canne di ricambio, 230 nastri e 54 casse di cartucce, 4 fucili automatici con 5.000 cartucce, 61 sacchi di medicinali e materiale di medicazione, posta, utensili, pezzi di ricambio per la radiotelegrafia, vestiario, viveri.  Il peso della benzina è di 22.000 kg, quello dell'olio di 1.500 kg; altri 9.200 kg sono il carico d'acqua, più 400 kg di acqua potabile. L'equipaggio è formato da 22 persone; lo comanda un ufficiale di grande esperienza, Ludwig Bockholt, affiancato dal tenente Grussendorf.
In vista della missione si trasferisce a Jambol, in Bulgaria alleata degli Imperi Centrali, che è anche la base aerea più meridionale d'Europa. Il viaggio di trasferimento  del L.59 dal cantiere di Staaken, presso Spandau, inizia il mattino del 3 novembre 1917 e raggiunge Jambol, dopo un volo di 28 ore, a mezzogiorno del 4 novembre. La partenza per l’Africa deve essere rimandata più volte a causa delle sfavorevoli condizioni del tempo. Dopo un primo tentativo fallito, il 13 novembre, il dirigibile si leva per la seconda volta il giorno 16; ma, incappato in un violento temporale e fatto oggetto al fuoco della fanteria turca, loro alleata ma ignara della sua nazionalità, decide di rientrare alla base dopo 32 ore di volo e quasi 1.500 km complessivi.
Finalmente, il 21 novembre alle cinque del mattino, ha luogo la partenza definitiva. La località di atterraggio prefissata avrebbe dovuto essere l'altipiano del Makonda, ove si trovano le truppe di von Lettow; una distanza di oltre 6.700 km, che fa apparire l'impresa come qualche cosa di sbalorditivo, se non addirittura di temerario. Dopo aver sorvolato le coste occidentali dell'Asia Minore, Rodi e le altre isole del Dodecaneso, la grande aeronave taglia il Mediterraneo orientale e all'altezza di Sollum, in Cirenaica, si inoltra nel deserto del Sahara. Il dirigibile si dirige verso la valle del Nilo, tenendosi a una quota fra i 700 e i 1.000 metri, e prosegue al di sopra del Sudan, fin quando l'equipaggio può vedere la biforcazione del Nilo Bianco e del Nilo Azzurro, all'altezza di Khartoum.
Il più è fatto, e l'impresa finora compiuta può già ritenersi assolutamente eccezionale, per i mezzi dell'epoca. Ma la leggenda racconta che in campo avversario funziona una specie di telegrafia senza fili, e cioè il tamburo africano; tutti coloro che combattono in Africa sanno per bocca dei neri che un grande uccello europeo è in viaggio per aiutare Lettow. Certamente questa notizia misteriosa viene accolta con dubbio da una parte e dall'altra, da nemici ed amici; ma poi i britannici fanno circolare la falsa notizia che von Lettow è stato definitivamente sconfitto. Giunge allora un radiotelegramma dal Comando di Berlino che, sulla base della errata informazione, ordina al dirigibile di sospendere l'operazione e di rientrare. E’ una decisione affrettata; proprio in quelle ore von Lettow, attraversato il fiume Rovuma, sta per riportare una delle sue più belle vittorie, sconfiggendo le truppe portoghesi e impadronendosi di molto materiale bellico.
Invertita così la rotta, il dirigibile L.59 risale la valle del Nilo, riattraversa i cieli del Sahara, del Mediterraneo e dell'Asia Minore e, in perfetta efficienza anche se con l'equipaggio stanco e infreddolito, atterra a Jambol, donde è partito, alle otto del mattino del 25 novembre. Ha volato ininterrottamente, senza scalo, per 95 ore coprendo una distanza complessiva di 6.757 km alla velocità media di 71 km orari. Al momento dell'atterraggio l'aeronave ha a bordo ancora carburante per altre 64 ore di volo. La grande impresa dello Zeppelin resta avvolta in una cortina di riserbo, tanto che solo dopo la guerra il pubblico tedesco e mondiale viene portato a conoscenza del suo volo sopra la valle del Nilo e del tentativo di inviare il dirigibile in soccorso dell'esercito coloniale del generale Paul von Lettow-Vorbeck.
Il 10 marzo 1918 questo stesso dirigibile parte, sempre da Jambol, con l’intento di bombardare la città di Napoli. Dopo aver attraversato la Serbia e l’Albania, con un volo ad alta quota e sfruttando il buio, raggiunge prima l’Adriatico, poi la costa pugliese ed infine si dirige sulla città partenopea riducendo al minimo i motori e mantenendosi a una quota di 4.800 metri. L’alto potenziale bellico, trasporta un carico di 6.400 kg di bombe, dovrebbe colpire il porto di Napoli e le installazioni industriali della zona flegrea a nord della città; sia le acciaierie di Bagnoli che l’Armstrong di Pozzuoli. Ma le bombe sono frettolosamente sganciate prima sulla zona di S. Erasmo ai Granili, dove si contano 5 morti e 40 feriti e successivamente sulla zona di Posillipo dove provocano 11 morti e 35 feriti. Solo in ultimo, prima di riprendere indisturbato la via del ritorno, sono colpiti e lievemente danneggiati gli stabilimenti di Bagnoli [2]. Nonostante Napoli disponga di una postazione contraerea permanente installata a difesa del Porto e della zona industriale non c’è nessuna reazione, sia per l’attacco inaspettato e sia perché l’operazione è svolta nel buio totale. La città' è talmente colta di sorpresa dall'attacco che il Prefetto manda le Guardie e l'Esercito a presidiare i quartieri pensando che siano attentati, frutto di una rivolta popolare. Dopo si pensa all’azione di bombardamento di una squadriglia di aerei e solo più tardi cittadini e comandi militari vengono a sapere la verità. Vero è che il dirigibile è stato avvistato a Termoli dalla contraerea ma, per un guasto alle linee telefoniche, è impossibile dare l'allarme alla caccia, e poi nessuno si aspetta una impresa del genere, così lontana dal fronte, e nessuno ha sentore di un possibile attacco da una base situata in Bulgaria lontana oltre 1.000 km.
Per questo motivo i comandanti della difesa aerea di Foggia, Termoli e Napoli sono rimossi e, quale conseguenza del bombardamento, a protezione di Napoli viene schierata a Pozzuoli una squadriglia di caccia idrovolanti, tipo F.B.A., con sede nel lago di Lucrino dove è la locale “Industrie Aviatorie Meridionale” ad interessarsi della loro manutenzione.
Questa rappresaglia ha notevole eco nei Paesi dell’Impero centrale ed i loro giornali osannano l’impresa del dirigibile che ha colpito, ferendola, la più grande e più popolosa città italiana. Secondo fonte tedesca, il dirigibile ha bombardato con successo il porto militare e la centrale del gas come pure l'acciaieria e il porto di Bagnoli. Non riferisce dei colpiti quartieri civili e del mancato attacco all’Armstrong di Pozzuoli; continua riferendo che è stato un attacco ad alta quota, rimanendo ben al di sopra dei 10.000 piedi. Il quotidiano di Napoli, “Il Mattino”, il giorno dopo dedica più della metà della prima pagina al raid [3]. Il giornale dice che il bombardamento ha avuto inizio alle ore uno del mattino ed è durato circa 40 minuti; in tutto sono state sganciate circa 20 bombe e nessuna ha colpito un obiettivo militare. Tutte sono cadute a nord del porto, nel centro della città, uccidendo 16 civili e ferendone più di 40; non fa menzione della puntata contro l'acciaieria di Bagnoli. La maggior parte della copertina poi è retorica sulla barbarie dei nemici dell’Italia, Germania e Austria, ed aggiunge Napoli all’elenco delle eroiche città martiri come Londra, Parigi e Venezia, ognuna delle quali ha dovuto sopportare le crudeltà teutoniche.
Le bombe sganciate feriscono Napoli ma non la prostrano né mettono in ginocchio l’Italia. Immediate e veementi sono le reazioni e tra queste quella del sommo poeta d’Annunzio che da simile avvenimento trae spunto per realizzare il suo sogno; sorvolare Vienna con una squadra aerea. Egli non sgancia bombe ma lancia milioni di volantini tricolori su tutte le principali vie della città. Su ognuno vi è scritto “Viennesi. Imparate a conoscere gli Italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori, i tre colori della libertà.”
Poco tempo dopo la Croce Rossa Italiana emette un chiudilettera commemorativo “Pro Napoli” a ricordo dell’onta barbarica contro la città partenopea ed il cui valore da 5 centesimi va a beneficio delle vittime di quella tragica notte [4].
La carriera del L.59 si conclude bruscamente, e nel modo più tragico, meno di un mese dopo  quell'impresa, il 7 aprile 1918. Nel corso di una progettata incursione sull'isola di Malta esso esplode in volo sullo stretto di Otranto nell'Adriatico, per ragioni sconosciute. Si dice che, avendolo scambiato per un dirigibile britannico, sia stato colpito dal "fuoco amico" di un U-boat tedesco, o che sia stato abbattuto dal fuoco nemico. Probabilmente è solo un incidente tecnico che incendia il gas altamente infiammabile contenuto nei sacchi. Ad ogni modo, precipita in fiamme, con l'intero equipaggio, nelle acque del Mediterraneo, che divengono la sua tomba.

Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 14 aprile 2012

martedì 8 maggio 2012

Che festa la mia Pasqua











Che festa la mia Pasqua
Tradizioni alla Starza

Da sempre il mondo contadino festeggia la fine dell’inverno ed il risveglio primaverile della natura; così nel Territorio di Villa Maria alla Starza dove la Pasqua degli anni ’50 esalta questo passaggio. Pasqua si annuncia con fioritura, profumi, sensazioni, opportunità; tutto ha inizio la domenica prima, quella delle palme, l’ultima di quaresima.
Per questa particolare festa aiuto i nipoti dei coloni a preparare semplici croci, fatte intrecciando foglie di palme, che poi portiamo in Chiesa. Don Michele le benedice durante la Santa Messa quando ritiriamo anche i ramoscelli di ulivo, una delle poche piante non presenti nel giardino. La palma benedetta è usata quale buon auspicio ed abitualmente viene posizionata dietro le porte del “casone”, del “cellajo”, delle stalle e di altri ambienti.
Pasqua è anche purificazione e, per una comunità semplice e rurale come la nostra, significa candore. Si comandano grandi pulizie casalinghe e questo ci da l’opportunità di eliminare oggetti superflui portati all’interno nel corso del lungo inverno. Praticamente si provvede ad effettuare una vera e propria raccolta differenziata ed ecologica. Il legname viene riposto sotto una tettoia nelle vicinanze del forno; il ferro addossato ad un vialetto dove barre e “buatte” restano preda di erba e ruggine, dando forma a strane figure, in attesa di un eventuale riutilizzo [1]; la carta viene portata nel “cellajo” dove può servire da imballaggio sotto le “spaselle”; i residui alimentari, oggi definiti umido, vengono portati in una apposta buca incavata nel giardino, lontano dal fabbricato; infine quel poco che resta viene deposto nel secchio dell'immondizia che di sera è portato sul pianerottolo fuori della porta di casa. Questa immondizia, che di mattina è ritirata dal netturbino che si fa tutte le scale con un sacco sporco sulle spalle, mancante dell’organico non puzza ed il nostro androne non ne risente, diversamente da tutti gli altri che ho occasione di frequentare. Di solito sono io che porto alla buca l’immondizia da riciclare quale fertilizzante. Per raggiungere questa cavità percorro degli stretti sentieri che attraversano delle piane, coltivate a patate, passando vicino ad un'altra fossa, quella dei conigli. Ogni volta non rinuncio a sporgermi sul suo orlo per osservare, e “sfrocoliare” con bastoni occasionali, i timidi quadrupedi che l’abitano. Abbandonerò questa abitudine un giorno che, con più ardore, mi sporgo eccessivamente cadendo nella fossa; gli spaventati conigli si rifugiano nelle buche che solitamente scavano sul fondo della cavità ma io ancora più spaventato inizio a gridare e sono recuperato, per me dopo una eternità, dai coloni accorsi alle grida.
Le grandi pulizie effettuate nel “casone” dei coltivatori sono sbrigative e dopo una rapida ramazzata si bagna “u‘ ntrassuolo” con poca acqua, raccolta dalla cisterna del cortile, e lasciata cadere dolcemente da un bacile. Tra le loro poche suppellettili ricordo sul comò due campane di vetro che coprono altrettanti ignoti santi, realizzati con la stessa tecnica dei pastori drappeggiati, e poi una grande cornice che, dietro un vetro, custodisce la foto delle Loro Altezze Reali il Principe Umberto e la Principessa Maria Josè il giorno delle nozze. Sono belli e imponenti i principi e Umberto sembra quello azzurro sullo scenario di una favola.
Esco dal Territorio solo per andare a scuola e lungo il percorso incontro carrette e carri, carichi di botti, “sporte” o “spaselle”, tirati da cavalli e somari che sporcano pesantemente le strade. Gli spazzini sono armati di apposite palette atte a staccare e raccogliere così intensa necessità. Per vederli all’opera sbircio fuori dal massiccio cancello e lungo la strada non di rado riconosco avanzare e lanciare richiami una donna che porta, ben in vista, un grosso uovo di cioccolata. Non lo vende, o meglio non lo vende direttamente; vende novanta numeri tra cui il fortunato primo estratto che Sabato Santo uscirà sulla ruota di Napoli. La donna grossa e vociante è ben conosciuta e le sue lotterie sono settimanali, abbinate ad avvenimenti sacri e profani del calendario. Parla molto, alcuni dicono essere una maliarda, i più la conoscono come la “giucessa”.
Il giovedì sera si recuperano i vassoi in cui si è seminato e fatto germogliare il grano e aggravati del loro peso si esce per raggiungere l’altare della Chiesa che per la celebrazione viene con essi addobbato. Così esposti diventano motivo di competizione per avere il merito del vaso più bello. Poi si torna a Villa Maria allungando l’andirivieni per partecipare allo “struscio”.
Altra occasione d’uscita è recarsi alla bottega di “donna Emilia a’ quartaiola”, gran bazar alimentare. La proprietaria è sempre dietro il grosso bancone ed il nipote, Santino, in giro per il negozio a prendere, staccare, misurare, pesare. Ha un fisico atletico associato ad un distinto portamento da vero “gentlman” e, sicuro della sua prestanza, fa la corte a tutte le signorine ed è galante con tutte le signore. Nel contempo è attento a tutto ciò che la zia gli ordina ed è altrettanto attento al marciapiede dove sono allineati in bella vista i sacchi pieni di legumi tra cui ceci abbrustoliti e “sciuscelle” molto ricercati da bande di scugnizzi divenuti improvvisati predoni. La “puteka” ha pane, pasta, farina e zucchero che sono venduti sfusi; legumi, formaggi e salumi venduti a peso così come pure tonno ed acciughe; poi l’olio per il cui acquisto è necessario portare un contenitore in cui viene versato solo dopo essere stato misurato in recipienti di giusta capacità.
Donna Emilia, in anticipo su tempi, ha di già inventato un unico certificato che funziona da Carta di Credito e da Carta Fedeltà. Trattasi di un libricino, con copertina nera, che racchiude piccoli foglietti sui quali la bottegaia, analfabeta ma da “nobel” in aritmetica, annota la somma della spesa giornaliera che poi viene saldata ogni settimana, quindicina o mese adattandosi elasticamente alla instabile retribuzione del debitore. Lei con dolcezza e risolutezza ricorda a tutti le scadenze e spesso, senza malizia, pronuncia: “Chi magna a Natale e pava a Pasca, fa 'nu buono Natale e 'na mala Pasca”.
Frutta e verdura li si raccoglie nel giardino dove si allevano anche i polli che, con l’allungarsi delle giornate, già tardano a ritirarsi nell’apposito recinto creato per loro in un sottoscala. Il latte lo si compra  direttamente nel fondo da Vittorio “o vaccaro”, ed il vino che si consuma giornalmente è un ottimo “aglianico” produzione “Starza”. Per Pasqua poi i coloni concedono, come da clausola contrattuale insieme a polli ed uova, il secondo e ultimo barile del Per' e Palumme”; rosso come la passione che ci si appresta a celebrare. Mio Padre, come a Natale, si concede il lusso di acquistare le bottigliette con le “essenze” per preparare i liquori da fare in casa; per la Pasqua si limita al solo rosolio. Ma la settimana di Pasqua è un supplizio per i golosi; si fanno pizze piene, pastiere, casatelli; arrivano uova di Pasqua e altro, ma non si può assaggiare nulla di ciò; assolutamente nulla fino alla mezzanotte del sabato. Nella spaziosa e calda cucina, accanto al focolare in muratura, le mani impastano e ammassano farina con la partecipazione di noi bambini; attenti ad ogni passaggio e con me impegnato, allora come oggi, nel tagliare e posizionare le strisce della pastiera.
Prodotto tipico è il “casatiello” il cui nome deriva da “cacio”; il formaggio di pecora che simboleggia l’agnello pasquale, la vittima sacrificale. Le uova crude che affondiamo sul “casatiello” rappresentano il simbolo del seme, della vita, e le due strisce che le coprono ricordano la croce di Cristo. Infine i casatielli sono a ciambella, vuoti al centro, a forma della corona di spine di Gesù. In casa se ne fanno più di uno ed ogni bimbo ha il suo fatto apposta più piccolo, ma con egual numero delle ricercate uova che nel forno prendono il caratteristico buon sapore. Fatto bene è un prodotto costoso e pesante; non per niente si dice “che casatiello” di una persona pedante e indigesta. Altro dolciume pasquale è il “casatiello dolce” per la cui preparazione c’è bisogno del “criscito”, una pasta fermentata acida, e di una particolare preparazione per permetterne la crescita al caldo, generalmente sotto coperte o materassi. Naturalmente suscita curiosità ed è forte la tentazione di misurarne la crescita; di nascosto lo si va a scoprire attirandosi “allucche’” e “strille” da parte dei genitori.
Finalmente arriva il venerdì, giorno in cui la “Rosina” solitamente accende il forno; questa volta per più lungo tempo, non solo per il pane settimanale. Tutti noi bambini portiamo giù pastiere, pizze, casatielli, e li poniamo allineati sul muretto, non molto alto, che separa il forno dal casotto dei maiali [2]. Quest’ultimo è costituito da una bassa e coperta costruzione, dove i due maiali riposano di notte, ed un anteriore piccolo spazio pieno di melma, escrementi ed avanzi di ogni genere da cui esala un odore particolarmente penetrante. I ruoti, nel pieno rispetto della natura, sono scoperti e tenuti d’occhio da noi piccoli che ce li indichiamo l’un l’altro per ricordarne la proprietà ed esaltarne la bontà. E’ bello vedere Rosina impegnata con i lunghi attrezzi che servono di volta in volta ad immettere legna, a rivoltare la brace, a posizionare i ruoti; e quando dalla ardente bocca del forno ne tira fuori alcuni, con la lunga pala di legno, si diffonde nell'aria un messaggio di calore e benessere che crea tragici languori di fame. Ma bisogna digiunare, Gesù è a terra e necessita affrettarsi per partecipare alla “Via Crucis”.
Finalmente giunge il Sabato Santo, dopo la penna bianca viene tirato a terra anche il fantoccio della Quaresima ed il tutto viene bruciato così come nelle Chiese brucia il Sacro Fuoco, preludio allo scioglimento della Gloria.
Il giorno di Pasqua, dopo la Santa Messa, riprendiamo i salami dalla cantina dove sono stati riposti l’ultimo di carnevale e, insieme ai dolci, li disponiamo sul tavolo imbandito attorno al quale è raccolta tutta la Famiglia. Allora la persona più anziana benedice tutto e tutti attingendo l’acqua santa con un ramoscello d’ulivo. Solo allora grandi e bambini possono mangiare, lo fanno con gioia ed appetito tenendo d’occhio papà che solo dopo aver terminato il primo piatto si accorge delle letterine da noi riposte sotto di esso. Le letterine, fatte preparare a scuola dalla maestra e scritte da noi ragazzi con paroline buone, vengono lette orgogliosamente dal papà e ascoltate con emozione da tutti i familiari. Il momento più bello è quando papà ci ricompensa con dei soldini; che festa la mia Pasqua!
Il giorno dopo, Lunedì di Pasquetta, tutti noi piccoli di Villa Maria siamo pronti a trascorrere una giornata all’aria aperta in parziale autonomia. Con cesti pieni di ogni ben di Dio percorriamo il lungo viale che, fiancheggiato da aranci e mandarini con i tronchi spruzzati di bianca calce, sembra condurre verso il meraviglioso mondo del Mago di Oz [3]. Nel passeggiare anche noi incontriamo spaventapasseri e figure di latta, ma in fondo non c’è la Città di Smeraldo, c’è un’area che su tre lati è circondata da panchine rivestite di bianco marmo. Al centro troviamo un tondo e marmoreo tavolo e dai quattro angoli partono delle strutture metalliche che vanno a congiungersi in alto, all’epicentro dell’ambiente. A copertura del groviglio non ci sono fiori ma intrecciati rami di viti; di quell’uva della qualità che chiamiamo “a cornicella”. Pomposamente definiamo “Hermitage” questo ambiente, ma esso altro non è che un neoclassico gazebo, coetaneo dell’ottocentesco casino di campagna, smantellato per la realizzazione del mercato ortofrutticolo all’ingrosso e la sua area trasformata in luogo di decenza [4]. In questo spazio ci fermiamo a giocare, a pranzare, a riposare e ci spostiamo per due soli motivi. Raggiungere un vicino “fussatiello” in cui sono piantate le fave ormai pronte e raggiungere, ogni venti minuti, il muro della confinante ferrovia cumana. E’ immensa la gioia quando sentiamo il treno arrivare, il vociare e cantare dei suoi allegri passeggeri diretti alla scampagnata; poi la meraviglia di quelli che, troppo esposti ai finestrini, perdono, con il nostro aiuto, i loro caratteristi berrettini tanto simili a quelli di Coppi e Bartali.
Che gioia riattraversare il giardino della Starza con in testa questi trofei.

Giuseppe Peluso - Pozzuoli Magazine del 31 marzo 2012

lunedì 16 aprile 2012

Passeggiata Ottocentesca














SETTIMA PASSEGGIATA

L’attuale empio progetto di una discarica in zona “castagnaro” contrasta vivamente con la bellezza di questi luoghi che sempre sono stati meritevoli di venerazione. A tal proposito mi pregio riportare la sconosciuta pagina del diario di una ottocentesca escursione in questi siti.
Nel 1888 il Ministro della Pubblica Istruzione ingiunse che gli alunni dei Regi Licei dovessero, nei giorni di vacanza, esercitarsi in passeggiate ginnastiche per le quali è riconosciuta l’utilità e per lo sviluppo delle forze fisiche e per le cognizioni che acquistano i giovani specialmente di Archeologia e di Scienze Naturali. In omaggio a tale provvida disposizione del Ministro, durante l'anno scolastico 1888-89, gli alunni del Regio Liceo Antonio Genovesi di Napoli ebbero a compiere parecchie gite sempre guidati dal Preside o da altri Professori. Di tutte queste escursioni furono fatte minute relazioni dagli alunni medesimi, per cura del Prof. Vincenzo Campanile.
Oggi trascrivo la loro settima passeggiata, interessante per la descrizione che se ne fa sia del Gruppo del Gauro sia della Piana di Quarto, non senza aggiungere che per il Preside, Dott. Angelo Ferrari, l’ordine e la disciplina, anche in questa passeggiata, furono pienamente mantenuti, e non ebbe a deplorarsi inconveniente alcuno.



Settima Passeggiata - Domenica 10 Febbraio 1889.“La gita, che troverete da me descritta, o colleghi, sono sicuro, che vi riuscirà poco dilettevole, e perché avete innanzi letto descrizioni fatte da giovani bravi, e perché il cattivo tempo non ci permise di ammirare quei quadri, che ci aspettavamo. Pur tuttavia, facendo a fidanza con la vostra indulgenza, mi accingo a scrivere, nella speranza di gettare un po' di luce negli animi di coloro, che non hanno ancora compreso l'importanza dell'alpinismo, ed i vantaggi fisici e morali, che la nobile passione arreca.
Alle 6 e 3/4 del mattino era stabilita la nostra posta in Piazza del Plebiscito, per prendere il tram a vapore in partenza alle 7 e 10 minuti per Pozzuoli. La sera precedente il tempo cominciò a mostrarsi brutto, quasi in segno di minaccia, per farci desistere dalla risoluzione presa. Andai a letto, con la speranza di trovare all'indomani tempo migliore. La notte piovve dirottamente. Alle 5 e 3/4 il mio orologio a sveglia mi avvisava ch'era tempo di alzarmi. Il mio primo pensiero fu di correre al balcone, ma il tempo era pessimo, la pioggia veniva giù a catinelle. Mi vestii in fretta, mi armai del mio “alpenstok” e corsi alla Piazza Plebiscito. Trovai il Prof. Campanile, che dirigeva la gita, i due figli di lui Adolfo ed Arturo, Giuseppe Giordano e Francesco Cirillo. Il cattivo tempo aveva fatto disertare gli altri. La pioggia era cessata; ed il largo S. Ferdinando, a quell’ora così mattutina, era deserto. Solo di tratto in tratto si vedeva correre qualche vettura da nolo, ma spariva subito, come il lampo. Alle 7 e 10 il tramway si mise in moto, e la pioggia ricominciò con più costanza di prima. Pareva, che il fato congiurasse contro la nostra passeggiata. Alle 8, giungemmo a Pozzuoli e, provvedutici della colazione, c’incamminammo subito per la via Campana, la quale, traversando il piano di Quarto, conduce a Qualiano e poscia a Giugliano. Appena usciti dalla città, come se non fosse bastata la pioggia, si aggiunse anche la neve, ed un penetrante venticello di tramontana si faceva sentire fin nelle ossa. Tutte queste difficoltà non ci sgomentarono, e seguimmo allegri la nostra via. Lo spettacolo della neve è raro tra noi, e quando ci è dato di ammirarlo, ci riesce sempre piacevolissimo. In campagna poi desta entusiasmo. Dopo ½ d'ora di cammino, lasciammo la via carrozzabile, e c'inoltrammo in un viottolo fangoso, ove appena si poteva camminare per uno. In mezz'ora, seguitando sempre la nevicata, giungemmo al cratere di un vulcano spento, denominato il Campiglione. Le terre di Pozzuoli sono quasi tutte vulcaniche, ed anche oggi ne abbiamo prove abbastanza valide per dimostrarlo. Noi ci trovavamo appunto nel cratere di un antico vulcano, come ho detto di sopra. Esso ha la forma di un tronco di cono; la circonferenza superiore più grande della inferiore è divisa in due archi da una sella dirimpetto alla porta d'entrata per mezzo della quale vien distinta la parete destra col nome di Monte Corbara (m.315) e l'altra a sinistra con quello di Monte Barbaro (m.320). La pioggia intanto era finita, e solo rimaneva qualche bianca nube sull'orizzonte e un poco di nebbia, che copriva le pianure. Ci avviammo per un ripido sentiero a destra, che si svolge nella parte interna del cratere, ma, non potendo vedere il panorama esterno, deviammo dopo 15 minuti per una gola, e guadagnammo un bellissimo viottolo, dal quale, ci diceva il Prof. Campanile, con tempo sereno si scorge una veduta estesissima. Il cattivo tempo cessato un pochino, ci permise di ammirare poche montagne, tutte coperte di neve e le colline, che si alternavano a larghi tratti di pianure, coperte da nebbie. Il piano di Quarto, estesissimo, si spiegava ai nostri piedi. Indi continuammo il cammino, e man mano che salivamo , allargandosi la visuale, il panorama si faceva sempre più bello. Un fremito di gioia e d‘impazienza, un desiderio vivissimo di visitare quelle contrade, alle quali la natura era stata prodiga di tante bellezze occupava tutti noi; ed avremmo preferito le mille volte di ascendere su quelle montuose cime, anziché fare quella piccola passeggiata. E noi ci beammo di questa veduta, finché entrati in un boschetto la perdemmo, ed in cambio dovemmo pensare ad afferrarci a qualche tronco di albero per non sdrucciolare, a saltare siepi per rintracciare un sentiero. Dopo tre quarti d'ora di questa bellissima ginnastica, senza che ce ne fossimo accorti, fummo sull'altura. Un altro breve tratto ci separava dalla vetta più alta, la quale fu raggiunta di corsa da tutti. Quivi trovammo una vecchia casa disabitata. Sebbene ci fossimo pervenuti ad un' altezza abbastanza modesta, pure il panorama era bellissimo. I nostri polmoni respiravano aria più pura, i nostri occhi spaziavano in un vasto orizzonte, noi ci sentivamo beati. Di fronte avevamo il mare ampio, mugghiante, le isole di Procida e d'Ischia col suo Epomeo, a destra il golfo di Gaeta, le cui acque lambivano il bosco di Licola; a settentrione le catene delle Mainarde e del Matese furono per un momento osservate; ad oriente il Vesuvio, S. Angelo a tre pizzi e la collina dei Camaldoli. A poca distanza da noi erano i laghi del Fusaro, di Licola e di Patria ed il Mare Morto; e poi il Monte di Procida, la collina di Cuma e quella di Capo Miseno. Assisi dietro un muro di quella vecchia casa, ammirammo per circa un'ora il bellissimo orizzonte. Alle 12 e ½ cominciammo la discesa pel versante settentrionale. Per comodo sentiero, il quale scende dolcemente fra belle campagne, in poco più di mezz'ora, ci trovammo nella via Campana, sul piano di Quarto, e poscia alla Montagna Spaccata, il punto più alto della strada. Questo luogo è cosi denominato per essere una gola, fra due colline. All'uscita, anziché seguire la strada, che conduce a Pozzuoli, volgemmo a sinistra per un'altra via che sale dolcemente attraverso basse colline, coperte di scarsa vegetazione. Costeggiando gli Astroni, dopo un'ora e quarto toccammo Soccavo; poi, saliti ad Antignano, alle 15 fummo di ritorno in Napoli.” - Michele Taglienti - Alunno della 3° liceale



Giuseppe Peluso - Quarto Magazine del Marzo 2012

martedì 10 aprile 2012

Terza Passeggiata












Passeggiata Flegrea degli alunni del
Regio Liceo Antonio Genovesi
Da sempre i Campi Flegrei sono meta di studiosi o di semplici curiosi. Le meraviglie del passato e della natura sono state sempre una forte attrattiva in particolare nel settecento e nell’ottocento, sulla scia del “Grand Tour”.
Nel 1888 il Ministro della Pubblica Istruzione ingiunse che gli alunni dei Regi Licei dovessero, nei giorni di vacanza, esercitarsi in passeggiate ginnastiche per le quali è riconosciuta l’utilità e per lo sviluppo delle forze fisiche e per le cognizioni che acquistano i giovani specialmente di Archeologia e di Scienze Naturali. In omaggio a tale provvida disposizione del Ministro, durante l'anno scolastico 1888-89, gli alunni del Regio Liceo Antonio Genovesi di Napoli ebbero a compiere parecchie gite sempre guidati dal Preside o da altri Professori. Di tutte queste escursioni furono fatte minute relazioni dagli alunni medesimi, per cura del Professor Vincenzo Campanile.
Oggi trascrivo al completo la loro interessante terza passeggiata effettuata alla scoperta del Territorio Flegreo. Trattasi anche della prima testimonianza scritta quali utenti del servizio tranviario a vapore. Dalla relazione affiora qualche inesattezza sulla destinazione di qualche monumento e sulla precisa collocazione cronologica di qualche personaggio, ma il tutto non svaluta la genuina partecipazione e il gran desiderio d’apprendere che visivamente affiora da quei ragazzi per i quali il loro Preside, Dottor Angelo Ferrari, aggiunse che l’ordine e la disciplina, anche in questa passeggiata, furono pienamente mantenuti, e non ebbe a deplorarsi inconveniente alcuno.



Terza Passeggiata - Domenica 16 Dicembre 1888.
Alle 8 e 20 la numerosa comitiva di 75 alunni del Liceo, guidata dai Professori Campanile ed Orefice prendeva posto in due vetture del tramway a vapore alla Torretta, ed alle 8 e ½ moveva alla volta di Pozzuoli. Attraversiamo il nuovo tunnel, parallelo quasi all'antica grotta, e, percorsa la pianura di Fuorigrotta, arriviamo ai Bagnoli. Di rincontro a quella spiaggia, Nisida, “ocellus insularum”, a guisa di piramide, emerge dalle onde; i suoi clivi sono boscosi, qua e là sparsi di qualche villa biancheggiante. Dopo 40 minuti di corsa arriviamo a Pozzuoli, città di sedici mila abitanti, piena di ricordi. Se la sua costruzione è poco simmetrica, essa è sita, in compenso, in una posizione topografica splendida, nella insenatura di un piccolo golfo, che ricorda, in certo modo, quello di Napoli, chiuso ad oriente dalla penisola di Bagnoli, ad occidente dalla costiera cumana.
Il nostro ottimo Professor Barone ci raggiunse colà con una vettura.
In prima visitammo il tempio di Serapide [1]. Impropriamente a questo monumento , oramai in gran parte diruto, si diede tal nome; esso invece era un bagno pubblico, chiamato Serapeo, da una statua di Serapide, che trovavasi nell'atrio. L' edifizio è circolare, ricinto da un colonnato, di cui alcune colonne sono intere, altre spezzate, altre prostrate al suolo. Quasi nel mezzo del circolo si elevano quattro superbe colonne di cipollino, che forse formavano parte del vestibolo. Da queste i naturalisti ricevono una pruova evidente dell'abbassamento e sollevamento della costa, giacche nel mezzo di ognuna di esse si rinviene una zona tutta bucherellata, ed i fori com'è stato provato, non rappresentano altroché le abitazioni scavate dagl'industri molluschi litofagi, allorché tempio e colonne lentamente si sommersero nelle acque. Rileggemmo, quivi, tanto per rinfrescar la memoria, la bella lezione, che a questo proposito ci aveva spiegata il Professor Freda. Il Professore Barone ci dette altre opportune notizie in materia di archeologia, e poscia riprendemmo la strada, fiancheggiata d'ambo i lati dalle costruzioni del cantiere Armstrong [2]. Il sole cominciava a mostrarsi in tutto il suo splendore ed a noi cresceva l'allegria; si camminava in ordine, ma c'era invece il desiderio di saltare. Appare non lontano il Monte Nuovo, una delle più belle promesse della gita; avanziamo il passo, comparisce più vicino; ancora un poco, e siamo alla base. Questo monte è sorto per effetto di una violenta eruzione, avvenuta nella notte del 30 Settembre 1538. Ora il vulcano è spento, ma il monte è rimasto; e sul pendio, accanto a qualche pianta annosa, crescono anche verdi cespugli. L'ascensione è un poco faticosa, ma breve. Ci arrampicammo agli sterpi, ed appoggiandoci a qualche alberello divelto nelle siepi della pianura, che faceva l'ufficio di “Alpenstock”, raggiungemmo la sommità. Dinanzi, ad oriente e a mezzogiorno ci stava il mare mugghiante; d'ambo i lati ne circondavano le colline, le strade biancheggianti attraversavano in tutt'i i sensi i verdeggianti prati. Dalla parte opposta al mare, verso settentrione ed occidente, la prima cosa, che ti si offriva allo sguardo, era l'antico cratere del Monte Nuovo, immenso, e poscia in lontananza altri prati, altre colline. Si rimane scossi a considerare, come da quel luogo, ove ora emana tanta soavità campestre, un tempo eruppero fuoco, fiamme, lava. Sul monte facemmo una refezioncella (n'era tempo!), e poi i più volentierosi giù di corsa nel cratere. Qual piacere a diguazzare li in fondo fra l'erbe irrorate di brina! Per un pezzo percorremmo per lungo e per largo il breve piano e poscia, invitati dal Professor Campanile, che ci diede l'esempio, prendemmo l'erta di petto, e con un poco di fatica riguadagnammo la sommità, e di qui nuovamente la strada.
Si prosegue; ecco il lago di Lucrino [3], famoso per le ostriche, a destra della via ed a poca distanza dal mare. Si va oltre; la strada segue ora dritta, ora tortuosa, ma costeggiata sempre dal mare a sinistra, e fiancheggiata da collinette a destra, e qua e là appariscono ruderi di antiche ville romane. Io andava ricostruendo nella mente la strada in quell' epoca. Doveva essere assai bella! Quelle ville marmoree dovevano parere una schiera di ninfe, tenentesi per mano, che stessero per tuffarsi fra le bianche spume del mare. Oggi lo spettacolo è men bello, ma pure ti riempie di meraviglia.
Passammo per i cosi detti bagni o stufe di Nerone; poco dopo arrivammo al Fusaro; ci fecero entrare nella villetta per osservare meglio il lago, cinto da ogni parte da una fitta boscaglia, che si riflette tutta nelle acque [4].
Ci rimettemmo in cammino verso l'Arco Felice. In un dato punto della strada il Professor Campanile invita i giovani a salire su Cuma; molti lo seguimmo per una viottola angusta, ed in breve fummo sulla collina. In questo sito sorgeva un tempo il palazzo degli imperatori romani; i romani avevano finissimo il senso del bello, specie in quel tempo dei primi Cesari; ed il punto è veramente splendido. Ad oriente Pozzuoli col suo piccolo porto; a mezzodì, il mare immenso; ad occidente il lago di Licola, dalle acque argentine, ed il bosco fitto e rettangolare; a settentrione poi un numero infinito di collinette, che or s'abbassano or s'alzano, ed attraversano in tutt'i sensi la regione; ed in fondo tra due colli il solenne e monumentale Arco Felice, d'onde apparivano agli occhi di Cesare, che aspettava su di una loggia del palazzo, le risplendenti vittoriose legioni, che agitavano nelle destre rami d'alloro e levavano inni di gioia. Il Professor Campanile, opportunamente, fece delle osservazioni sul luogo e sull'importanza, che un dì ebbe, ed io vorrei esser poeta per poter mettere in versi quel tumulto di pensieri, che alle sue parole s'affacciarono alla mente di ognuno.
Ridiscesi, con una piccola deviazione, ci rechiamo a vedere la grotta della Pace, che metteva in comunicazione il palazzo di Cesare col lago di Averno. Si stupisce nel considerare come quella tanto vasta e nel tempo stesso regolare e simmetrica grotta si sia potuto fare a colpi di scalpello. E a me parea sentir rintronare la volta di essa dai misurati passi di un drappello di pretoriani dall'armi corruscanti, che scortano Cesare pensoso sulle sorti del mondo. La luce della grotta vien data da certi fìnestroni. Usciti all'aperto ci rimettiamo, con maggior lena, in cammino; passiamo sotto l'Arco Felice [5]; ed abbiamo l'agio di ammirare quella solida e colossale costruzione; e poco dopo siamo in vista del lago d'Averno. Il lago, giù in fondo, è ricinto da una fila di colline, ch'è interrotta solo verso sud, lasciando vedere una larga zona di mare, le cui onde scintillavano come tante pagliuzze d'oro sotto i raggi obliqui del sole. Quella fascia di mare allontanandosi si dileguava soavamente dentro vapori di viola e d'oro. Il lago, invece, immobile, da sembrare quasi un ampio stagno, presentava una tinta cupa, che tetramente si fondeva col verde scuro dei colli circostanti. La postura del luogo, quei colori stranamente confusi, davano al sito una solenne aria di severità. E tale dovette sembrare ai nostri padri latini, poiché immaginarono che di là le anime muovessero per andare all'Averno.
A questo punto il Professor Barone, rimontato in vettura, ci lascia con nostro grande rammarico, e noi proseguiamo. Nuovi panorami si mostrano quivi alla vista non ancora sazia. Alle 5 facciamo ritorno a Pozzuoli, dopo aver percorso circa 25 chilometri. Eravamo tutti contenti, la nostra mente si era arricchita di tante cognizioni. Alle 5 e ½ prendiamo posto nel Tramway, che ci riporta a Napoli.
Filippo Perrone - Alunno della 3° liceale.



Giuseppe Peluso - Pozzuoli Magazine del 17 marzo 2012

mercoledì 21 marzo 2012

Una Quaresima puteolana








Una Quaresima puteolana
a Villa Maria alla Starza

La mia lunga infanzia inizia direttamente a Villa Maria dove vengo alla luce nel freddo gennaio del 1947 e dove, poco dopo, mi impartisce il battesimo l’indimenticabile Don Vincenzino Abete. Nascita, iniziazione e seguenti anniversari nel grande appartamento di Famiglia che fu dei nonni, situato al secondo piano della Villa in stile Liberty in via Miliscola.
Ben presto mi portano nel cortile e nelle prime foto, in questo scenario, sono a cavalcioni di una mucca, che fu mia nutrice, tenuta ben stretta dall’allora giovane allevatore. Appena muovo i primi passi inizio a frequentare e giocare con i nipoti dei vecchi coloni che coltivano l’allora esteso territorio non ancora rimpiccolito dagli ultimi espropri come quelli del 1953, subito per la realizzazione del Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso, e del 1987, subito per permettere il raddoppio della Ferrovia Cumana.
Quella che in passato era una estesa masseria conosciuta come “Territorio alla Starza”, ha di già patito negli ultimi 250 anni pesanti decurtazioni con i seguenti espropri:
Nel 1750 circa per la sistemazione dell’Alveo Campano.
Nel 1786 per la costruzione, voluta da Ferdinando IV, della nuova strada, che taglia in due la proprietà, essendo invasa dal mare la vecchia strada costiera.
Nel 1794 per la cessione alla Università di Pozzuoli della parte paludosa rimasta separata dal Territorio principale.
Nel 1885 per la costruenda Ferrovia Cumana.
Nel 1890 per l’adattamento della provinciale in previsione del prolungamento della linea tranviaria fino a Baia.
A tutti questi aggiungiamo l’attuale progettata trasformazione della Villa in stazione per la Ferrovia Cumana. Programma accettabile se fosse attuato e non solo sbandierato a livello propagatore da amministratori comunali, regionali e societari; progetto che da dieci anni blocca proprietari e fabbricato. Credo che nessun Territorio abbia subito tanti espropri, negli ultimi documentati tre secoli, e nessuno dei suoi possessori ha mai effettuato speculazioni su quello che era un ampio e verde polmone al centro della città. Vendendo o lottizzando avrebbero oggi evitato facili mire espropriative; ma torniamo a noi.
In quel 1947 nella Villa ci sono tre appartamenti abitati dai fratelli Antonio, Enrico e Carmine Peluso con le rispettive Famiglie. Mio zio Antonio ha tre figlie, ma solo l’ultima, Rita, è mia coetanea con cui poter giocare. Mio zio Enrico ha cinque figli e solo gli ultimi due, Gianfranco e Lidia, son quasi della mia età; solo nel 1951 arriva anche il piccolo Guido che diventa la mascotte di tutto il podere. Mio Padre, oltre me, ha mia sorella Maria Rosaria più piccola di solo un anno.
Due altri civili appartamenti sono abitati il primo dalla Famiglia Molino il cui Padre, inizialmente pescatore, nel 1955 diviene operaio poiché assunto dal dirimpettaio cantiere “Trione Ferroleghe”. E’ questa la famiglia ideale per i frequentatori del cortile; ha ben cinque figli e si gioca con tutti, dalla più grande al più piccolo. Il secondo appartamento è abitato da due nuclei di origine toscana, i Bertini e i Petrucciani; tutti occupati presso il Grand Hotel Londra di Napoli; sono gli unici residenti che non hanno bimbi piccoli con cui poter giocare.
Al piano terra abitano nell’antico “Casone” i coloni, ovvero Menichiello (Domenico) Biclungo con sua moglie Rosina e sua figlia Brigidina, che per la sua età possiamo lecitamente definire “zitella”. I coloni non sempre sono soli perché vengono a trovarli, e spesso restano li a dormire, tre loro nipoti orfane di un figlio dello stesso Biclungo. Queste tre ragazze, Antonietta, Tina ed Enzina, saranno affiatate compagne di gioco per molte stagioni.
Sempre al piano terra, vicino al “cellajo”, esiste un altro piccolo locale, anticamente adibito ad “uso cavallini”, in cui vive un altro figlio del Biclungo con i suoi figli poco più grandi di me; tutti aiutano i nonni nella coltivazione del Territorio. Infine nei casamenti rustici distaccati, le cosiddette “stallucce”, vive, come nei Sassi di Carlo Levi, la famiglia del vaccaro Vittorio Perrotta, quello visto nella prima foto, che è circondato da una moltitudine di figli scaglionati nelle varie età. Oggi possiedono un importante caseificio a Varcaturo.
La vita del cortile risente delle recenti sofferenze della guerra senza poter ancora assaporare i benefici dell’imminente boom; la filastrocca che maggiormente stornelliamo così recita: “l’apparecchio americano, vott‘ i bombe e se ne va’; se ne va’…..”. Per fortuna non ricordo il prosieguo. Rari i giocattoli, molti i semplici giochi di gruppo, tante le opportunità di apprendere, infinite le tradizioni da rispettare.
Tra queste la “Quaresima”. Così chiamavamo la bambola di pezza somigliante ad una strega che veniva appesa il mercoledì delle Ceneri all’arcata centrale nel cortile di Villa Maria. Un'usanza antica, arcaica, che aveva una originaria funzione pagana legata al culto dionisiaco. Era un fantoccio di donna vestito di bianco e di nero, i colori del lutto, e in basso al di sotto del lungo vestito una patata trattenuta da un fil di ferro che scendeva dalla struttura in legno del pupazzo. In questa patata si infilavano in cerchio sette penne di gallina, sei nere ed una bianca. La patata rappresentava il sesso femminile e le sette penne l’interdizione temporanea ad ogni rapporto nel periodo di astinenza. Un antico calendario simbolico, magico, rituale. Carnevale e Quaresima, infatti, per la cultura popolare sono fratello e sorella ma anche marito e moglie, e con la morte di Carnevale il martedì grasso iniziano, in attesa della Pasqua, le sette settimane di Quaresima. Ogni domenica quaresimale, dopo aver partecipato alla Santa Messa e prima del pranzo, da questa simbolica bambola rituale, veniva estirpata una penna nera. L'ultima penna, quella bianca, veniva sfilata dalla patata la notte del Sabato Santo ad indicare la fine dell'astinenza e del tempo quaresimale. Durante le sette settimane non si potevano mangiare dolci, non ci si doveva pettinare i capelli, non si spazzava il pavimento, non si mangiava carne, non si dovevano aggiustare i letti, non si doveva cucire e non si doveva cucinare in modo troppo elaborato; mio Padre aggiungeva di suo che non bisognava tagliarsi le unghie.
Ma io ero piccino ed il significato di tutte queste simbologie l’ho saputo solo ora chiedendo e leggendo qualche cosa sull’argomento. Per me era solo un gioco cui, finalmente, partecipavo insieme agli adulti.
C’era necessità di adoperare una lunga scala per raggiungere il chiodo al centro dell’arco ed appendere il feticcio. Anche il più grande treppiede era insufficiente e si usava una speciale scala di legno, quella stretta che i contadini utilizzano per penetrare in alto tra il fogliame degli alberi, in particolare sui fichi. Questa operazione veniva eseguita, nei miei primi anni, da Mimì ed in seguito da Gennaro, entrambi nipoti dei coloni Biclungo. Ero troppo piccolo ma guardavo ammirato e con invidia chi compiva quell’atto, per me ardimentoso, sotto l’attento sguardo degli abitanti della Villa ed anche del vicinato. Sognavo il giorno che sarei salito a sfiorare quel trofeo.
L’operazione si ripeteva ogni domenica, il giovane contadino salendo si fermava a metà della scala, noi altri in cerchio recitavamo delle preghiere e la vecchia Rosina mormorava delle indecifrabili parole. Non capivo se fossero orazioni o magiche parole da fattucchiera; ancora oggi me ne resta il dubbio. Poi il ragazzo saliva gli altri gradini, toglieva una penna e ridiscendeva al punto in cui prima si era fermato. Di nuovo recita delle preghiere e poi completa discesa a terra. La penna che era stata rimossa dalla patata veniva bruciata in una “buatta” mentre, ancora in cerchio, riprendevano a pregare tutti coloro che aveva partecipato alla funzione.
La bambolina restava poi sola a dondolare al minimo spirare del vento che certo non mancava in quei mesi di febbraio e marzo. Non nascondo che a volte di sera al buio, quel suo lento ciondolare, mi incuteva un sinistro timore; nella mia giovane fantasia l’associavo all’immagine di una strega condannata alla forca. Nelle serate quaresimali evitavo di restare solo nel cortile e quando dovevo attraversarlo scongiuravo di sollevare lo sguardo fin sotto quell’arco dal quale solitamente pendevano innocui “mellune” impagliati e “piennoli” di pomodori.
Finalmente giungeva il Sabato Santo, dopo la penna bianca veniva tirato giù anche il fantoccio ed il tutto veniva bruciato così come nelle Chiese bruciava il Sacro Fuoco Santo, preludio allo scioglimento della Gloria, alla Pasqua, alla fine di ogni astinenza ed all’inizio di un nuovo periodo che si sperava prospero e fecondo.
Per tradizione e scaramanzia la bambolina doveva essere prima allestita ed infine bruciata dalla “signorina” più grande in età facente parte della famiglia che apprestava il sacro rito. Nella patriarcale discendenza di Menichiello la più anziana “zitella” è sempre stata sua figlia Brigida Biclungo e nei miei ricordi che vanno dalla fine degli anni ‘40 agli inizi degli anni ‘60 sempre lei ha avuto l’incarico di preparare la pupa. La memorabile Brigidina è venuta a mancare solo di recente all’età di circa 100 anni in casa dell’artista La Mura dove aveva seguito sua nipote Tina, giovane sposa del Maestro Peppe.
Ah! Quante bamboline avrebbe dovuto preparare se fosse rimasta a Villa Maria. Non so se sarebbe arrivato anche per me l’ardimentosa opportunità di salire ad estirpare le penne, ma certo i miei occhi non avrebbero visto altra “signorina”, oltre Brigida, impegnata nella preparazione della “Quaresima”.

Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 3 marzo 2012

sabato 17 marzo 2012

Quarto in Liburia







Quarto in Liburia




Tempo fa i municipi casertani di Lusciano, Parete, Trentola - Ducenta, San Marcellino, Villa di Briano e Frignano avevano cercato di dar vita ad una associazione di servizi che doveva chiamarsi “Unione dei Comuni Liburia”. Questo primo progetto sembra essere naufragato per il poco interesse mostrato dai politici locali ma poi è stato ripreso nuovamente, questa volta dai soli quattro comuni di San Marcellino, Trentola - Ducenta, Frignano e Villa di Briano, con la denominazione di “Nuova Liburia”.
Anche se compiaciuto, per la pur sempre lodevole iniziativa, ho pensato che un ristretto numero di “semisconosciuti casali” sta appropriandosi di un antico toponimo che inizialmente designava solo i nostri “campi ardenti”.
Il nome Liburia compare per la prima volta nel I secolo d.C. con Plinio il Vecchio che, nella sua opera “Naturalis Historia” scritta tra il 23 ed il 79, indica come “Leboriae Agros” ovvero “Campi Leborini” l’attuale piana di Quarto. La denominazione andò estendendosi progressivamente nel corso dei secoli fino a designare la futura intera provincia di “Terra di Lavoro” che forse, come vedremo, da quel toponimo ha origine. Per il significato del nome Leboria ci sono solo congetture. Secondo la maggior parte delle fonti questo toponimo potrebbe essere derivato dal nome di un'antica popolazione, quella dei Leborini, o Liburi, che abitava questi nostri luoghi. Ma Alberto Perconte Licatese, nella sua opera “Capua Antica”, porta le seguenti altre ipotesi. Riferisce che inizialmente si è pensato ad una relazione col latino “lepus”, lepre. In età più tarda, nel XII secolo, sarebbe stato collegato al latino “labor”, inteso come lavoro agricolo, voce passata in alcune lingue romanze ad indicare il campo seminato. Ma non esclude che il toponimo Leboria sia derivato da una cor¬ruzione dell’aggettivo greco latinizzato Flaegreus, con caduta della consonante iniziale (Legreia – Leguria - Leburia), tanto più che le varianti Liguria e Liburia sono entrambe attestate nel “Pactum” del 786 tra il principe Arechi e il duca di Napoli; il primo documento medievale nel quale detto toponimo risulti dopo secoli di oblio.
Dunque Plinio (Quantum autem universas terras Campus circum Campanus antecedit, tantum ipsum pars ejus, quae Leboriae vocantur, quam Phlegraeum Graeci appellant) fa riferimento ai territori che i Greci conoscono come “Phlegrei”, ed esattamente i campi periferici interni (Quarto, Grotta del Sole, Monterusciello, Monte San Severino) in cui sono insediati solo vici, pagi e villae abitati da popolazioni agricole. In questo stesso agro leborino , in località Torre S. Chiara oppure a Monte S. Severino, altre fonti riferiscono sorgesse il santuario di Hamae. Luogo sacro ai campani, distante tre miglia da Cuma, ove romani ed alleati cumani sconfissero Annibale che, con l’appoggio di Capua, tentava di conquistare Pozzuoli e la stessa Cuma.
Dunque la dicitura Liburia, Leboria, Leboriae o, secondo un'ulteriore variante, Liguriae andava ad indicare e delimitare una sola specifica e fertilissima area della più vasta regione conosciuta come Campania Felix. Territorio questo che, insieme al Latium, avrebbe poi formato la “Regio I” nella suddivisione dell’Italia romana voluta da Augusto.
Con la caduta dell’impero romano il toponimo Liburia cade in disuso e scompare dai documenti almeno fino al VII secolo, lasciando il passo al più comune termine “Campania”. Poi un documento del VIII secolo riporta che nel 715, durante il confuso periodo storico in cui la Campania è sottoposta alla dominazione bizantina lungo la zona costiera e a quella longobarda nell'interno con continui spostamenti di confine, il Duca di Napoli sottrae Cuma ai Longobardi, occupando anche le terre “leboree” che da allora vengono indicate come “liburia ducalis”; cioè appartenenti al ducato di Napoli. Va indebolendosi sempre più il potere dell'Impero Bizantino sulla penisola italica a favore di una maggiore indipendenza acquisita dai suoi vassalli, ed i Duchi di Napoli estendono, a poco a poco, il patrimonio del loro Ducato; la Liburia, limitata inizialmente alla piana di Quarto, e poi estesa a Cuma, si dilata sino a Liternum fissando il confine col territorio del principato longobardo di Capua. I territori di questo principato costituiscono la “liburia capuana” e il corso del fiume Clanio, gli attuali Regi Lagni, ne costituiscono il confine sia con la “liburia ducalis” che con un'altra Liburia, la cosiddetta "liburia atellana". I Territori di quest’ultima vanno da Grumo, confinando quindi con la “liburia ducalis”, al luogo detto “a Quartum” ad occidente, sulla via consolare campana che viene a dividere così la Liburia propriamente detta in due parti, l'una verso il mare sotto la dipendenza di Napoli e l'altra verso oriente appartenente alla giurisdizione di Capua ed ai Longobardi.
Anche per la "liburia atellana" il Clanio, a nord, costituisce il confine naturale con la “liburia capuana”, mentre il bosco di S. Arcangelo, nelle vicinanze di Caivano, la delimita ad est. Il già citato documento del 786, relativo ad un “pactum” siglato da Arechi principe longobardo di Benevento ed il Duca di Napoli, cita il toponimo nella sua versione volgare di Liburia.
Ormai, nel corso dei secoli, i confini del territorio identificato come Leboriae si sono ampliati; la denominazione Liburia viene accostata ad una buona porzione del Ducato di Napoli e va gradualmente a riferirsi ad un'area molto più vasta dell'originale comprendente oltre Napoli e Pozzuoli anche le città di Cuma, Aversa, Capua e Atella.
Non solo, ora anche i Longobardi di Benevento e Salerno iniziano ad associare al toponimo Liburia parte delle loro terre, in particolare le zone confinanti con la Liburia napoletana; in tal modo anche i territori di Nola, di Acerra, di Suessola e di Avella sono, per consuetudine, denominati Laborini. Successivamente, nei documenti si ritrova il toponimo Liburia associato anche ad altri territori del Ducato di Napoli verso Amalfi. Il nome viene poi affiliato anche ad altri territori conquistati o persi dal Ducato di Napoli, incluse le isole; nasce quindi, accanto alla “liburia ducalis”, strettamente detta, una Liburia longobarda a seguito della conquista napoletana dei territori longobardi, e una Liburia salernitana, a seguito della conquista salernitana dei territori napoletani. Poi nel 1036 arrivano i normanni e il Duca di Napoli Sergio IV, per ricompensare Rainulfo Drengot dell’aiuto prestatogli contro Pandolfo di Capua, gli cede in feudo la “Terra di Averze”. L’abile principe normanno fortifica ed amplia il feudo a spese dei confinanti arrivando, con la contea e la nuova diocesi di Aversa, a ridosso delle colline che circondano Pozzuoli. Il nipote Riccardo non esita a fregiarsi del titolo di “Comes Liguriae Campaniae”, avendo in pratica la neonata contea di Aversa gli stessi confini dell’antica Liburia pliniana. A questo punto dalla iniziale piana di Quarto la zona denominata Liburia si è estesa prima ai territori immediatamente circostanti il ducato di Napoli e poi, alla fine dell'XI secolo in epoca normanna, a tutta quella che poi verrà indicata come Terra di Lavoro; denominazione questa che farà cadere in disuso il toponimo Liburia.
Per curiosità si restituiscono, ma non avvalorati da base documentale, i passaggi che secondo Flavio Biondo condussero ai mutamenti toponomastici da Campania a Liburia e da Liburia a Terra di Lavoro. Lo storico indica nella volontà delle popolazioni locali di non essere più chiamati campani nel corso dell’alto medioevo, cosa questa che li portava ad essere identificati con l'antica Capua, nemica di Roma. Pertanto reintrodussero il termine Leborini, e da ciò il territorio sarebbe stato detto Leborio o Terra di Lebore. Quest'ultimo nome, poco orecchiabile, sarebbe stato mutato in “Labor”, Terra di Labore, in latino “Terrae Laboris”.
Nel 1221 Federico II istituisce il “Justitiaratus Molisii et Terre Laboris”, uno dei distretti amministrativi, i giustizierati appunto, in cui sono suddivisi i territori del regno. I distretti di giustizia imperiale sono affidati ad un rappresentante del potere regio, il “Gran Maestro Giustiziere”, attraverso il quale l'autorità del re si sovrappone a quella dei feudatari. Solo nel 1538 il Contado del Molise è separato dalla Terra di Lavoro e suo giustiziere diventa quello della Capitanata. La “Terre Laboris”, corrisponde, a grandi linee, alla odierna provincia di Caserta anche se il toponimo andrebbe attribuito in senso specifico al solo territorio che va dal Massico ai Campi Flegrei.
Nel 1227 Federico II fa edificare una dimora fortificata, il Castello “Belvedere” o “Monteleone”, che domina la conca di Quarto e controlla la via consolare campana. Esso è ubicato al confine tra il ducato di Napoli e quello di Aversa ed alla morte di Federico è incendiato da una sollevazione popolare. Viene fatto ricostruire da Carlo I D'Angiò nel 1275 e si fa obbligo a sessanta famiglie di risiedere nelle vicinanze del castello. Questo fortilizio passa di mano varie volte fino a che nel 1630 vi troviamo, quali feudatari residenti, la Famiglia Pignatelli – Monteleone. Essi dominano sulle terre di San Rocco, Quarto, Grotta del Sole e Monterusciello, pertanto sono in molti a considerare questo feudo, ricadente completamente nella competenza della Diocesi di Pozzuoli, quale ultimo lembo dell’antico agro che ancora venga appellato con la dicitura “Liburia”.



Giuseppe Peluso - Quarto Magazine - Febbraio 2012