martedì 13 novembre 2012

Il Monumento ai Caduti di Pozzuoli











Il Monumento ai Caduti di Pozzuoli
L’altare cerimoniale cittadino

In Italia la prima “ondata monumentale” sorge spontanea subito dopo la vittoriosa battaglia di Vittorio Veneto; poi dal 1919, l’anno immediatamente successivo alla fine della “Grande Guerra”, dappertutto dilaga la necessità di costruire monumenti ai caduti.
Nel 1920, sulla scorta di analoghe iniziative già attuate in Francia ed in altri Paesi coinvolti nella "Prima Guerra Mondiale", si propone  di onorare i caduti italiani, le cui salme non sono identificate, con la creazione di un monumento al milite ignoto. Viene deciso di creare questo mausoleo nel complesso monumentale del Vittoriano in Roma dove, sotto la statua della dea Roma, sarà tumulata la salma di un soldato italiano, selezionata tra quelle dei caduti ignoti. La scelta della salma viene affidata a Maria Bergamas, madre del volontario irredento Antonio Bergamas che è caduto in combattimento senza che il suo corpo sia stato più ritrovato. Il 26 ottobre 1921, nella Basilica di Aquileia, mamma Maria sceglie il corpo di un soldato tra undici altre salme di caduti non identificabili, raccolti in diverse aree del fronte. Maria viene posta di fronte a undici bare allineate, e dopo essere passata davanti alle prime, non riesce a proseguire nella ricognizione e gridando il nome del figlio si accascia al suolo davanti a una bara, che così diviene la prescelta. Il feretro è collocato sull'affusto di un cannone e, accompagnato da reduci feriti e decorati con la Medaglia d'oro al Valore Militare, viene deposto in un carro ferroviario appositamente disegnato. Il viaggio si compie da Aquileia a Roma a velocità moderata in modo che presso ciascuna stazione la popolazione abbia modo di rendere onore al milite. La cerimonia ha il suo epilogo nella capitale; tutte le rappresentanze dei combattenti, delle vedove e delle madri dei caduti, con il Re Vittorio Emanuele III in testa, e le bandiere di tutti i reggimenti muovono incontro al Milite, che da un gruppo di decorati di medaglia d'oro è portato prima nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e poi, il 4 novembre 1921, è posto nel monumento creato nel 1911 per celebrare il cinquantenario dell’Unità Italiana. Da allora, per le numerose cerimonie che vi si svolgono, il mausoleo viene anche chiamato “Altare della Patria”.
Da quel momento ogni cittadina italiana anela ad avere il suo monumento ai caduti. Dinnanzi a centinaia di migliaia di morti, tra soldati e civili, alla distruzione di intere città, i lutti che hanno colpito praticamente ogni famiglia di ogni paese, accadde qualcosa mai successo per i conflitti del passato; inizia il processo di glorificazione della guerra, che presto si trasforma in Mito. Prima del 1914 i mausolei non riportano i nomi dei singoli caduti; i monumenti celebrano il coraggio ed il valore di un battaglione o di un reggimento, o talvolta dell’intero esercito di una nazione, senza che sia presente un elenco con i nomi di tutti i caduti. Con la Prima Guerra Mondiale i monumenti ai caduti cessano di essere anonimi e su di essi iniziano a comparire i nomi dei singoli soldati; il mito della guerra diventa anche un mito democratico. Il singolo non viene onorato per le sue gesta individuali, non come persona in quanto tale, ma come parte di un progetto superiore, di una guerra condotta per glorificare e potenziare la patria. Il valore simbolico di ciò che rappresentano rende unici i monumenti dedicati ai caduti di Guerra e l’ideologia che sta alla base di essi. Essi fanno molto di più che ricordare dei morti; i caduti sono identificati prima come eroi, poi come garanti della fede e del dovere, infine, come guardiani della patria, dell’umanità e della giustizia. Essi non sono mai evocati in quanto semplici morti.
Negli anni 1922-23, con l’avvento del fascismo, questo costume riceve una vera e propria regolamentazione quando il sottosegretario Dario Lupi promuove una campagna di attuazione di parchi e viali della “rimembranza”. La circolare prevede che in ogni località, d’intesa con autorità e scuole, gli alunni debbano essere mobilitati e coinvolti nella cura del parco e delle piante. Particolare non secondario, ogni pianta dovrà essere munita di una targhetta con il nome di un deceduto in guerra. Spesso però si preferisce costruire al centro del parco un monumento sulle cui pareti sono scolpiti i nomi dei caduti.
Anche Pozzuoli, come tante altre città italiane, sente la necessità di erigere un mausoleo dove si possano eternare i nomi dei caduti puteolani.
Il concorso viene lanciato tra il 1928 ed 1929 ed il premio viene assegnato allo scultore Santo D’Amico mentre il secondo posto viene assegnato agli scultori Sanarica e Meconio. Ma una commissione (composta dal podestà di Pozzuoli Giovanni de Fraya, dal professore Vincenzo Volpe e dall'architetto Angelo Crippa) per la realizzazione sceglie un altro progetto; quello dello scultore Enzo Puchetti. La commissione, riunita nella sede della Real Accademia di Belle Arti di Napoli, nel motivare la scelta del progetto fa riferimento anche alle tradizioni della terra puteolana dove "l'arte seppe nelle epoche migliori imprimere il suo segno divino anche nelle più semplici e modeste manifestazioni".
Quale luogo per l’erezione del monumento viene scelto lo slargo, esistente presso Porta Napoli, che nella seconda metà dell’ottocento è usato come terminale dell’Omnibus a cavalli proveniente da Napoli. In questo stesso slargo sostano le vetture da nolo che qui attendono i numerosi visitatori attratti dalle antichità flegree e che dal 1883, in sostituzione dell’omnibus, arrivano con la linea tranviaria a vapore che termina la sua corsa poco distante, nell’attuale via Matteotti, nei pressi della chiesa di San Vincenzo. 
Per visitare le antichità c’è un’organizzazione di "ciceroni", sistemata in una baracca di legno nei pressi della Porta; poi, nel 1920, l’ingegnere puteolano Federico Sabino progetta un "casotto" per le guide addossato al muraglione di sostegno della Pretura. Ora, agli inizi degli anni ’30, il tram ha visto spostata la sua stazione in via Cavour; le vetture da piazza sostano nella piazza principale di Pozzuoli; i “ciceroni” son quasi scomparsi perché rari sono i visitatori cui dovrebbero far da guida. Pertanto si decide di demolire il loro casotto, seppur ancor recente, ed utilizzare l’intero spazio a disposizione per la costruzione del monumento ai Caduti della Grande Guerra. Oggi possiamo affermare che scelta migliore non poteva essere effettuata.
Il monumento [fot.1] viene solennemente inaugurato il 28 giugno 1931. Esso si presenta imponente con la parte anteriore distribuita in tre spazi di cui quello centrale, più largo degli altri due, sorregge incastonata una grande lapide di marmo che su cinque righe riporta la scritta:
FORTI NELLA VITA
EPICI SVLLE ALPI E SVL MARE
NELLA STORIA ETERNI
POZZVOLI MADRE
SVPERBA DI ESSI E MEMORE
Vi sono poi altri due frontoni laterali, angolati quel tanto che basti a renderli visibili all’occhio del passante, su cui sono riportati i nominativi di tutti i nostri concittadini caduti nel corso della “Grande Guerra” dal 24 maggio 1915 al 4 novembre 1918. Al di sotto di ogni elenco è scolpita una daga sovrastata da uno scudo stilizzato; sullo scudo di sinistra è riportato, in numeri romani, l’anno di inizio della guerra, il MCMXV; su quello di destra e riportato l’anno di fine guerra, il MCMXVIII. Ognuna delle cinque parti, in cui si scompone la fronte del monumento, è divisa dalle altre da una fascio littorio; notoriamente un fascio di dodici verghe di betulla legate assieme da nastri di cuoio (in latino “fasces”) su cui è infissa un’ascia, originariamente in bronzo. Ai sei angoli esterni del monumento (due sono sul retro e quindi visibili solo aggirando l’opera) l’ascia è scolpita in rilievo e quindi sporgente dalla struttura; viceversa le asce situate sui fasci posti ai due angoli convessi anteriori sono scolpite in bassorilievo.
Sulla sommità si elevano due aquile, con ali spiegate, reggente ognuna uno scudo. L’aquila di sinistra sorregge uno scudo che riporta le sette teste di gallo, simbolo della città di Pozzuoli; l’aquila di destra sorregge uno scudo che riporta un fascio littorio, simbolo temporaneo dello Stato Italiano.
Il monumento, con grande effetto scenografico, sembra ergersi dalle acque che lo circondano e che sgorgano da due fonti poste alle estremità dove altrettante divinità fluviali sono scolpite sdraiate e protese a proteggere amorevolmente le loro falde. Esse rappresentano i due fiumi sacri alla Patria; a sinistra l’Isonzo [fot.2], dolorosamente assopito per il troppo sangue versato in tante cruenti battaglie combattute lungo sue rive; a destra il Piave che, fiero della eroica resistenza, con lo sguardo indica ai combattenti la via della Vittoria [fot.3 di Salvatore Brontolone]. Con queste fonti il nostro monumento ripropone una similitudine con il Vittoriano di Roma alle cui estremità sono poste due fontane che rappresentano il mare Adriatico a sinistra, il mare Tirreno a destra.
Intenso è l’utilizzo di questo monumento nei suoi primi dodici anni di vita; essi coincidono con il periodo di massimo consenso al fascismo e naturalmente non mancano gli anniversari da celebrare; come la Fondazione di Roma; la Fondazione dell’Impero; quello della entrata in guerra; quello della Marcia su Roma; l’anniversario della Vittoria, ed altri ancora. Il monumento diventa il vero Altare cittadino e si carica di significati simbolici impensabili in passato. Nella prima foto, scattata il 4 novembre 1936, notiamo la guardia d’onore composta da marinai e “giovani fascisti”, tra cui mio Padre, primo a sinistra. Il regime ha il pieno possesso di questi luoghi e li trasforma a suo uso e costume, con l’aggiunta di cerimonie e iscrizioni tipiche dell’epoca. Nella foto n. 4, del 24 maggio 1937, sul muraglione di sostegno del Rione Terra si nota una lunga scritta che riporta una frase tratta dal discorso fatto dal Duce il 30 agosto 1936 alle Forze armate e al popolo dell'Irpinia in Avellino, al termine delle grandi manovre [fot.5]. Questa serie di operazioni militari sono guidate dall’erede al trono, S.A.R il Principe Umberto, che dal marzo 1936 comanda il X Corpo d’Armata con sede a Napoli e reparti dislocati in tutta la Campania. Con la caduta del fascismo al monumento vengono troncate le sei scuri sporgenti dai fasci, lasciando inalterate quelle in bassorilievo ed il fascio raffigurato nello scudo retto da un’aquila. Comunque il monumento resta, a Pozzuoli come in ogni altro luogo, un segno tangibile dei massacri della Grande Guerra e spiega almeno in parte come mai essa si sia fissata indelebilmente nella memoria popolare e collettiva di tutte le comunità.
Il Monumento ai  Caduti  di Pozzuoli, ancorché ce ne ricordiamo per poche annuali cerimonie, avrebbe bisogno di urgente restauro; la struttura presenta varie screpolature e le statue raffiguranti l’Isonzo e il Piave si presentano molte degradate. Le due antenne alza bandiera, se pur encomiabili, andrebbero risistemate alquanto defilate per non imbarazzare la prospettiva [fot.6] e poi, cosa più importante, le lapidi laterali, riportanti i nomi dei caduti, non sono più leggibili. Fra qualche anno ricorre il centenario di quella Vittoria che pose fine ad una immensa carneficina e sarà doveroso ricordare e leggere uno ad uno i nomi di quei nostri giovani cittadini che fecero dono della loro vita.
E’ bene ricordare che non sono i grandi generali ad essere “eternati” nel marmo, ma la grande massa che ha subito le privazioni, gli stenti e la tragica morte sotto i colpi del mortaio o delle mitragliatrici.

Giuseppe Peluso - Pozzuoli Magazine del 21 luglio 2012

martedì 23 ottobre 2012

La Famiglia Pecori Giraldi










La Famiglia Pecori Giraldi
Da Firenze a Pozzuoli



I Pecori Giraldi sono una di quelle famiglie che hanno fatto la storia di Firenze; danno il nome a ville, palazzi, piazze e perfino a uno dei lungarni.
Due membri di questa Famiglia, che annovera priori e patrizi di Firenze, conti del Sacro Romano Impero, generali ed ammiragli, pionieri dell’aviazione e dell’industria, parentele con le più nobili Famiglie europee, hanno dato lustro anche alla nostra Pozzuoli.
Capostipite dei Pecori sarebbe un Ildebrandino di Geraldino, soprannominato “Pecora”, che il 26 agosto 1148 acquista un pezzo di terra situata nel pistoiese di proprietà di Baldoro di Martino. Trasferiti a Firenze con Gianni d'Ildebrandino, i Pecori ricavano fortune e importanza con Dino di Gianni, detto Ildebrandino, iscritto ai beccai ed eletto per quattro volte fra i priori fiorentini. Lungo sarebbe il completo elenco genealogico di questa Famiglia per cui saltiamo subito al XIX secolo, [chi desidera il dettagliato elenco dinastico può chiedermelo all’indirizzo: giupel@inwind.it].
La loro dimora nel Mugello [fot.1], riedificata sul luogo di un'antica costruzione dei Giraldi loro parenti, diventa nel 1748 di proprietà del Conte Antonio Pecori ed è lui che aggiunge al proprio cognome quello dei Giraldi. Nel 1979 la Famiglia Pecori Giraldi dona la Villa, circondata da un ampio parco monumentale con alberi secolari, al Comune di Borgo San Lorenzo che la utilizza come museo e come centro congressi.
Guglielmo Pecori Giraldi (1790-1860) combatte in Russia con gli eserciti napoleonici, sposa Carolina Cortesi ed ha i figli Francesco (1823-1894) e Baldassarre, entrambi valenti militari che combattono per i Savoia, distinguendosi nelle guerre per l'indipendenza dell'Italia. Francesco, marito di Maria Genta, ha i figli Guglielmo (1856-1941), Alessandro (1858-1948), Alfredo (1865-1943), Gisella e Galeazzo (1878-1920), tutti capostipiti di rami ancora attivi della famiglia Pecori Giraldi.
Il primogenito di Francesco, Guglielmo [fot.2], nasce a Firenze nel 1856, ancora capitale del Granducato di Toscana. Il 1° novembre 1873, viene inviato alla Scuola militare di fanteria e cavalleria; il 1° ottobre 1874 entra all’Accademia militare di Torino e ne esce nel 1877 col grado di sottotenente. Frequenta la Scuola di guerra nel 1883-1885 e presta poi servizio in diversi reparti di artiglieria. E’ inviato in Eritrea una prima volta nel 1887-1888; ci ritorna nel 1895-1896 ottenendo il comando delle truppe indigene. Il 3 maggio del 1900 diventa colonnello; il 3 gennaio 1907 maggior generale e fa ritorno in Italia. Il 12 luglio 1911 diventa Tenente Generale e partecipa alla Guerra italo turca del 1911-1912 dove comanda una divisione sbarcata in Libia. All’inizio della prima guerra mondiale è al comando del VII Corpo d'armata e poi è a capo della I Armata schierata sul fronte degli Altipiani, sino al termine del conflitto. Il 3 novembre 1918  entra a Trento e fino al 3 luglio 1919 svolge la funzione di governatore civile e militare della Venezia Tridentina. Il 24 febbraio del 1919 riceve dal Re la nomina a Senatore del Regno ed il 25 giugno 1926 è nominato da Mussolini Maresciallo d’Italia. Sposa, in prime nozze, Camilla Sebregondi ed in seconde, nel 1917, Lavinia Ester Maria Morosini; senza discendenza. Nel 1930 riceve l’onorificenza di Cavaliere dell'Ordine Supremo della SS. Annunziata. Muore a Roma il 15 febbraio del 1941 e, per sua volontà, è sepolto all’Ossario del Pasubio insieme ai suoi soldati caduti durante le cruente battaglie della grande guerra.
Il secondogenito di Francesco, Alessandro Pecori Giraldi, nasce nel 1858 a Borgo San Lorenzo. Come da tradizione viene inviato all’Accademia Militare dalla quale ne esce nel 1879 con il grado di sottotenente. Nel frattempo, essendo un appassionato di meccanica e di tecnica, consegue anche una laurea in ingegneria; quindi entra nell’Arma del Genio. Durante l'Esposizione Nazionale di Torino del 1884 sono effettuate diverse ascensioni con i palloni. Ascensioni sia frenate che libere effettuate dal francese Godard ed il tenente del genio Alessandro Pecori Giraldi [fot.3] è incaricato dal Governo di seguire il progresso di questi studi. L'ufficiale accetta l'incarico ed inizia le prime ascensioni, con palloni prima guidati da Godard e poi guidati da lui stesso e con passeggero il fratello Guglielmo, futuro Maresciallo d’Italia, allora semplice tenente di fanteria. Nasce qui l’idea di costituire un reparto aerostatico nell'ambito del Regio Esercito, creato il 1° gennaio 1885 presso il distaccamento di Roma del 3° reggimento Genio Telegrafisti. Alessandro, in possesso del brevetto di pilota di sferico, il primo in assoluto in Italia, diventa comandante di questa sezione. Successivamente la sezione è trasformata in Compagnia Specialisti del Genio al comando dell’ormai Capitano Pecori Giraldi. Questa compagnia, oltre ai compiti specifici aeronautici, assolve altri servizi, come quello fotografico. Dopo la battaglia di Dogali, gennaio 1887, il Governo Italiano decide di inviare in Eritrea un corpo di spedizione e con questo, il 21 dicembre 1887, parte anche la compagnia di Pecori Giraldi che impiega tre aerostati in ascensioni frenate di ricognizione. La compagnia viene successivamente trasformata in Brigata nel 1894, ma il 17 luglio 1893 il conte Alessandro lascia gli aerostati perché destinato alla Direzione del Genio Militare di Napoli.
Intanto il Ministero della Guerra cerca di affiancare un militare, ai tecnici inglesi, presso la Armstrong Mitchell & Co che ha impiantato un importante stabilimento di artiglierie a Pozzuoli. Direttore dello stabilimento è l’ingegnere George Wightwick Rendel al quale viene abbinato il fidato Alessandro che si trasferisce nella nostra cittadina con l’apparente incarico di “collegamento” negli Uffici di Vigilanza che il Regio Esercito, come altresì la Regia Marina, possiede all’interno del cantiere.
Nel frattempo Alessandro sposa Eleonora Von Tautphoens con cui i figli Adriana e Vieri che nascono a Napoli e poi Corso, Francesca, Fiammetta e Oretta che nascono a Pozzuoli dove abitano sulla terrazza della Starza, nel fabbricato destinato al direttore dell’Armstrong [fot.4]. Nel 1900 George Rendel ritorna definitivamente in Inghilterra e lo stabilimento viene affidato ad Alessandro Pecori Giraldi che lo guida nel periodo di massimo sviluppo, fino a raggiungere gli 8.000 dipendenti; attraverso i tempestosi accordi prima con l’Ansaldo di Genova e poi con l’ILVA di Bagnoli. Nel 1917 viene creata l’Associazione Industriali, con l’Armstrong tra i primi soci, così il conte Alessandro diventa anche vice presidente degli industriali di Napoli. Sarà lui a svolgere opera di mediazione tra padronato e maestranze, in particolare durante l’inasprimento delle proteste in atto nel critico periodo del primo dopoguerra. Il 20 gennaio 1913  Sua Maestà il Re lo nomina “Suo Motu Proprio” Commendatore nell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro; altra decorazione poi il 30 maggio 1920  con la nomina a Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia. Alessandro, che nel nome ricorda il nonno materno, muore nel 1948.
Suo figlio terzogenito, Corso Pecori Giraldi, nasce a Pozzuoli il 9 luglio 1899. Tutti gli avi sono stati militari, con le signorie toscane, con gli imperiali germanici, con i Bonaparte, con i Savoia; ma sempre nell’armata di terra. Il giovane Corso è invece affascinato dal mare della cui vista gode dalla sua casa di Pozzuoli e nello stesso tempo è attratto dalla Regia Marina la cui potenza vede giornalmente accrescere proprio nello stabilimento che il Padre ora dirige. Nel 1913 entra in Accademia Navale e ne esce guardiamarina nel 1917. Partecipa alla prima guerra mondiale e negli anni ’20 acquisisce esperienze sul naviglio silurante. Nel 1930 fa parte della delegazione italiana alla Conferenza Navale di Londra per la riduzione degli armamenti e dal 1938 al 1941 ricopre la carica di addetto navale a Berlino. Nel 1940 viene nominato capitano di vascello, grado con il quale comanda l'incrociatore Zara. Successivamente presta  servizio quale Capo di Stato Maggiore presso il Comando della marina germanica in Egeo e quale Comandante delle Forze Navali Italiane nell'Egeo settentrionale. Il 18 febbraio 1942 prende il comando della corazzata Vittorio Veneto. Il 9 settembre 1943, all’armistizio la nave si trova ad essere attaccata dai tedeschi, che affondano la gemella Roma, ed un suo ufficiale di rotta così racconta quei drammatici momenti: “I cannoni antiaerei sparano a ritmo forsennato punteggiando il cielo di nuvolette bianche. La Vittorio Veneto, lanciata alla massima velocità, sotto la guida esperta del Comandante Corso Pecori Giraldi che impartisce gli ordini calmo e tranquillo da un'aletta della plancia comando, evoluisce come una motosilurante. Io, nella sala nautica della sovrastante plancia Ammiraglio, con il cuore in gola, mi sforzo di mettere sulla carta tutte le accostate di quella pazza navigazione. Ma, a tratti, dalle feritoie del torrione scorgo I'enorme nuvola di fumo nero che si alza sul punto dell'affondamento della Roma; in quella nube di morte vedo avvolti tutti quelli che vi erano imbarcati, non potendo sapere chi possa sopravvivere a tale disastro mi sento affranto.” Corso resta al comando della corazzata, che raggiunge il luogo di internamento voluto dagli inglesi, fino al 5 novembre 1943. Dopo il conflitto ricopre vari importanti incarichi, fra cui quello di Sottocapo di Stato Maggiore della Marina; comandante della 3° e poi, nel 1950-1951, della 1° Divisione Navale. In Marina ancora si racconta un particolare abbastanza curioso e simpatico che succede sulla corazzata Andrea Doria, all’epoca ammiraglia della Divisione. “L'ammiraglio Pecori Girardi talvolta scendeva in mensa marinai, prendeva il posto di un marinaio, che andava a pranzo nella sala da pranzo dell'Ammiraglio, e pranzava lì a tavola insieme ai marinai. Sembra che la cosa non dispiacesse all'equipaggio che, pur conservando il dovuto rispetto, cercava di comportarsi come se l'ammiraglio non ci fosse.”
E’ lui che per primo nel 1952 incarica il tenente di Vascello Aldo Massarini di iniziare a studiare la possibile ricostituzione di un reparto di incursori subacquei; poi diventa Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo dell'Adriatico. Il 10 agosto 1955 viene nominato Capo di Stato Maggiore della Marina, massimo scalino per un marinaio, incarico che mantiene fino al 30 aprile 1962. Durante il lungo periodo trascorso al vertice della Forza Armata l'ammiraglio Pecori Giraldi si dedica alla creazione di una flotta efficiente e moderna, al riordinamento dei Comandi e Servizi a terra, allo sviluppo dell'addestramento e al perfezionamento delle armi e dei mezzi. E’ presente, insieme al presidente della Repubblica Giovanni Gronchi [fot.5], alla grandiosa rivista navale che si tiene nelle acque di Gaeta il 14 luglio 1961 in occasione del primo centenario della Unità d’Italia. E’ insignito delle onorificenze di Cavaliere dell'Ordine Militare d'Italia, della Legione al Merito degli Stati Uniti e Commendatore della Legion d'Onore francese. Fra le sue decorazioni di guerra figurano una Croce al Merito di Guerra e una Croce di Bronzo al Valor Militare. Il 31 ottobre 1962, al congedo, è nominato Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Corso sposa, nel 1930, Maria Francesca Frascara, nata a Roma il 24 ottobre 1903 figlia del conte e senatore Giuseppe Frascara e di Donna Clarice Orsini. Dal loro matrimonio nascono i figli Josè, Alvise che sposa Anna Bulgarini, e Piero che sposa Marita Pietromarchi da cui gli unici discendenti Francesco e Ilaria. Muore prematuramente a Freiburg (Germania) il 17 maggio 1964.
Il nuovo incrociatore lanciamissile Vittorio Veneto il 4 novembre 1969 riceve dalla contessa Maria Francesca Frascara vedova dell’Ammiraglio Pecori Giraldi, già comandante della corazzata Vittorio in guerra, la Bandiera di Combattimento. Ricordo poi una lettera della contessa del 1997, diretta ad un giornale, in cui scrive: “Sono ormai giunta all'età di 94 anni, vivo di ricordi, di bellissimi ricordi. Sono vedova dell’ammiraglio Corso Pecori Giraldi. Mi interesserebbe sapere se in un'epoca così babelica si prega ancora con la bellissima ‘preghiera del marinaio’. In navigazione si pregava al tramonto e alla fine della messa della domenica.” Il Direttore Indro Montanelli risponde: “Conosco quella preghiera. Credo che molti marinai la recitino ancora. Se non altro, nei loro cuori.”  
La contessa muore nel 2007, all’età di 104 anni, ultima testimone di una epoca scomparsa per sempre.

Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 7 luglio 2012 

giovedì 20 settembre 2012

La Gru Armstrong di Pozzuoli











La Gru di Pozzuoli
La Settima Meraviglia Armstrong

La Sopraintendenza per i Beni Archeologici e Paesaggistici di Venezia ha curato il progetto di conservazione dell’ultima grande gru idraulica Armstrong esistente al mondo [1]. Essa si è salvata grazie ad un decreto di vincolo imposto dal Ministero per i manufatti archeologici industriali. A Pozzuoli, dove non ci siamo mai fatto mancare niente, avevamo una gru di simile portata, ma più alta e con delle particolarità che l’hanno resa unica. Ma procediamo con ordine.
Sir William George Armstrong, barone, ingegnere, inventore e imprenditore britannico, fondatore dell'impero industriale Armstrong Whitworth & Co, nasce il 26 novembre 1810 a Newcaste upon Tyne, al numero 9 di Pleasant Row, a circa mezzo miglio dal centro cittadino. A quell'epoca la zona è quasi del tutto rurale; suo padre, che si chiama anch'egli William, è un commerciante di grano presso il mercato di Newcastle, città di cui diviene sindaco nel 1850. Armstrong viene educato in scuole private a Newcastle fino all'età di sedici anni, poi viene inviato presso la “Bishop Auckland Grammar School” di Whickam. Mentre è in quest'ultimo istituto, il giovane Armstrong approfitta spesso delle ore libere per visitare i lavori dell'ingegnere William Ramshaw ed in occasione di una di queste visite egli incontra la sua futura moglie Margaret, figlia di Ramshaw, di sei anni più anziana di lui.
Il padre di Armstrong ha pianificato per il figlio una carriera da avvocato e per questo motivo lo invia nella città di Londra, dove completa la sua formazione giuridica, per poi fare ritorno nella città natale nel 1833. Nel 1835 diviene socio dello studio di Armorer Donkin che pertanto assume la ragione sociale di “Lawyers Donkin, Stable and Armstrong”. William lavora per undici anni come avvocato durante i quali, tuttavia, dimostra sempre un notevole interesse per l'ingegneria.
Armstrong è un appassionato pescatore; un giorno, mentre pesca sul River Dee a Dentdale, vede una ruota idraulica in azione fornire energia ad una cava di marmo. Armstrong è colpito dal fatto che venga sprecata una così grande quantità di energia. Al suo rientro a Newcastle progetta un motore rotante alimentato ad acqua che realizza nella fabbrica di High Bridge del suo amico Henry Watson; purtroppo questo motore non suscita molto interesse. Armstrong successivamente sviluppa un motore a pistoni al posto di quello rotante e ritiene che questo nuovo motore sia più adatto a muovere una gru idraulica. Nel 1845 mette in moto un sistema per fornire d’acqua, proveniente da lontane sorgenti, le famiglie di Newcastle. Armstrong è preso da questo progetto a tal punto da proporre alla “Newcastle Corporation” che l'eccesso di pressione dell'acqua nella parte bassa della città venga utilizzata per fornire energia ad una gru appositamente adattata da lui stesso e collocata nell'area del Quayside lungo la banchina nord del River Tyne. Egli sostiene che questa sua gru idraulica possa scaricare le navi più velocemente e più a buon mercato rispetto alle gru convenzionali. La “Newcastle Corporation” accetta il suo suggerimento e l'esperimento ha tanto successo che ben presto altre tre gru idrauliche vengono installate sulla banchina.
Il successo della sua gru spinge Armstrong a considerare di metter su una fabbrica per la loro costruzione; per questo motivo lascia lo studio legale. Il suo collega Donkin lo appoggia nell'avvio dell'impresa e gli fornisce un sostegno finanziario. Nel 1847 l'impresa “W.G. Armstrong & Company” compra 5 acri di terreno lungo il fiume ad Elswick, vicino Newcastle, e inizia a costruire la fabbrica. La nuova società ben presto riceve ordini sia per le gru idrauliche dalle “Northern Railways” di Edimburgo e dal Porto di Liverpool, sia per meccanismi idraulici di apertura delle paratie dei canali. L'azienda comincia presto ad espandersi e nel 1850, con 300 dipendenti, vengono prodotte 45 gru, per salire a 75 due anni dopo ed arrivare ad una media di 100 gru all’anno per il resto del secolo XIX quando i dipendenti sono 3.800. La società ben presto si specializza anche nella costruzione di ponti; uno dei primi ordini è per il ponte di Inverness, completato nel 1855. La prima evoluzione di rilievo nelle sue gru avviene con l’introduzione dell’accumulatore idraulico. Là dove la pressione dell'acqua non è disponibile sul posto l’accumulatore consente di immagazzinare una certa quantità di fluido a pressione costante. Trattasi di un cilindro di ferro in cui scorre un pistone in grado di sostenere un peso notevole. Il pistone si solleva lentamente immagazzinando acqua finché il peso della massa d'acqua è tale da spingerla a forte pressione nelle tubature.
Già nei primi anni ’70 tutti i porti inglesi si dotano di gru con accumulatore idraulico. In quegli stessi anni vengono avviate le ricerche per produrre gru di grande portata a braccio fisso brandeggiabile per soddisfare le più recenti esigenze cantieristiche. Tali gru, dalle portate variabili tra le 100 e le 160 tonnellate, sono caratterizzate da un basamento in muratura di notevole spessore e rigidezza, da una ralla di grande diametro, da un braccio reticolare rigido, da un contrappeso disposto verticalmente alla massima distanza dall’asse della gru e da un meccanismo di sollevamento che utilizza un cilindro idraulico a grande corsa e ad azione diretta. Progetto quest’ultimo dovuto a George Rendel che diventa poi famosissimo ideatore di navi da guerra nonché direttore della filiale Armstrong di Pozzuoli.
Nel corso dell’Ottocento, con la tecnologia dei cannoni cerchiati, la stessa Armstrong passa progressivamente e velocemente dalla costruzione di cannoni da 7 tonnellate a quella dei giganteschi cannoni da 100 tonnellate. Parallelamente ai cannoni si evolvevano anche gli affusti, che diventano sempre più complessi e solidali ad una piattaforma girevole e corazzata.
I luoghi di produzione, ricovero e manutenzione del naviglio, debbono naturalmente adeguarsi ai cambiamenti; pertanto otto tra i più importanti arsenali nel mondo richiedono l’opera delle grandi gru Armstrong.
La prima gru viene installata a La Spezia nel 1876 ed in essa sono presenti tutti gli elementi caratteristici delle grandi gru Armstrong, quali il basamento in muratura, la ralla con corona dentata e rulli per la rotazione, il braccio reticolare in ferro puddellato, il cilindro idraulico di sollevamento. Questa gru è poi smantellata nel 1969. La seconda gru è installata a Bombay nel 1877 e presenta un'importante evoluzione tecnologica, rispetto alle precedenti, costituita dal contrappeso che viene ad essere integrato nel sistema reticolare del braccio e che svolge la funzione di collegamento verticale dei due tiranti superiori con le corrispondenti aste orizzontali della piattaforma. Questa modifica strutturale, che aumenta la compattezza e la rigidità della gru, viene successivamente utilizzata in tutte le gru Armstrong di grande portata. Questa gru risulta smantella dopo la seconda guerra mondiale. La terza gru è installata a Liverpool nel 1881 ed essendo stata smontata durante la grande guerra si sa ben poco di essa. La quarta gru è installata a Malta nel 1883 e rappresenta l’evoluzione e la sintesi delle precedenti esperienze della Armstrong divenendo il modello di riferimento per le successive realizzazioni che non si discostano sostanzialmente nelle caratteristiche generali costruttive. Con una volata di metri 15,70 e un’altezza di 27,3 metri, il braccio della gru di Malta è quello di maggiori dimensioni tra le gru Armstrong di cui si conoscono le caratteristiche. Anche questa gru è smantella subito dopo la seconda guerra mondiale. La quinta gru è installata a Taranto nel 1885, smantellata nel 1992, ed è sostanzialmente identica a quella di Venezia. La sesta gru è per l’appunto quella di Venezia installata nel 1885. Nel suo basamento sono situati i macchinari per il funzionamento idraulico, la ralla di brandeggio costituita da una grande corona dentata del diametro di circa 13 metri ed il braccio reticolare da aste in ferro puddellato. Il contrappeso è un grosso cassone in lamiera alto 8 metri per 3,50 metri, riempito di pietrame e ferro per un peso complessivo di 400 tonnellate, la metà dei quali è necessaria per l’equilibrio della macchina e l’altra metà per controbilanciare le 160 tonnellate di portata. Oltre alla funzione di contrappeso il cassone rappresenta l’elemento di chiusura del braccio reticolare ed è questa una caratteristica delle gru Armstrong più evolute. I sistemi di sollevamento sono due; il cilindro idraulico per carichi fino a 160 tonnellate e il paranco a catena per carichi fino a 40 tonnellate. Il cilindro idraulico del peso di 35 tonnellate, ha una lunghezza di circa 14 metri per un diametro di 90 centimetri; è costituito di quattro parti unite da flange ed è sospeso al braccio con due coppie di bielle. L’altezza di sollevamento del cilindro idraulico è di 18 metri, mentre quella del paranco è di 30 metri. L’altezza complessiva della gru dal piano della banchina è di 36 metri. Questa di Venezia è l’unica gru Armstrong che oggi possiamo ammirare, anche se non tutti i suoi meccanismi sono funzionanti. La settima Gru è quella di Pozzuoli [2] installata nel 1887 e l’ottava quella montata in Giappone nel 1892 andata poi distrutta nel 1945. Sappiamo che la gru di Pozzuoli è tra le cinque più grandi al mondo con una portata di 160 tonnellate e le gru di Bombay, di Liverpool e del Giappone limitano la portata a sole 100 tonnellate.
Il carbone ed i materiali da costruzione arrivano all’Armstrong di Pozzuoli quasi esclusivamente via mare e per la stessa via sono spediti i materiali d’artiglieria ultimati; è quindi essenziale poter disporre subito di idonee attrezzature per il carico e scarico. Un grande pontile in legno si protende in mare per oltre 200 metri ed alla sua estremità, che si allarga raggiungendo i 30 metri per permettere il quadruplicamento dei due binari che lo percorrono, è stata sistemata questa gru dalla forma a “mancina”. Cioè del tipo a biga, a due gambe, con braccio reticolare inclinabile e con sporgenza massima di metri 13,6; quota che raggiunge quando l’estremità inferiore della sua trave a traliccio ha percorso un arco di 30 gradi sull’apposita guida. La sua particolarità e quella di non possedere un basamento che racchiuda la macchina a vapore, i cilindri e gli ingranaggi necessari al suo funzionamento. Il tutto, per giusta distribuzione dei pesi, si ritrova distribuito tra le palafitte, anche al di sotto dell’alto piano di calpestio, e la caldaia si trova poco lontano sul lato del pontile opposto a quello occupato da altre tre piccole gru. Il suo cilindro idraulico ha un diametro di metri 0,76 e la sua corsa è di metri 12. La gru raggiunge l’altezza di 37 che la rende ben visibile anche da lontano, sia dal mare che da ogni angolo della costa flegrea [3]. E’ stata immortalata in centinaia di cartoline e la si nota in migliaia di foto, cosa che con presunzione ci permette di affermare che dal 1887 al 1943 ha rappresentato per Pozzuoli ciò che la Torre Eiffel ha rappresentato per il paesaggio parigino. Questa gru ha sollevato tutti i pezzi di artiglieria costruiti dall’Armstrong tra cui i maggiori che hanno fatto la storia della Regia Marina Italiana. I profondi fondali presenti alla testa del pontile hanno permesso l’attracco delle più grandi unità da guerra e consentito il montaggio di cannoni e grosse torri corazzate [4].
Il primitivo pontile, in particolare il fianco sinistro della testata proprio al di sotto della grande gru, causa i danni provocati dai molluschi “teredo navalis” che scavano nel legno dei pali, è poi parzialmente ricostruito in cemento da una poco esperta ditta italiana. Solo nel 1905 l’impresa britannica dell’ingegnere Mouchel, uno dei precursori del cemento armato, riceve dalla Armstrong di Pozzuoli la sua prima commissione estera che comporta l’allestimento dei nuovi pali in calcestruzzo e la completa ricostruzione del pontile con il definitivo abbandono del legno. Tale manufatto lo si è potuto apprezzare nella sua eleganza fino al recente rifacimento eseguito dalla Nautica Maglietta [5].
Nel settembre del 1943 la nostra gru è presa di mira dai tedeschi in ritirata che provvedono a minarla insieme a tutti i capannoni dell’Ansaldo di cui ora fa parte. Ma la dinamite da sola non è sufficiente a buttar giù la storica gru; pertanto due giorni dopo i guastatori tedeschi, per abbatterla, debbono aggredirla con la fiamma ossidrica. Essa, che con il suo profilo si alzava maestosa al centro della insenatura puteolana, giace ora silenziosa sul fondale di quel mare che dall’alto guardava orgogliosa.

Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 23 giugno 2012

sabato 1 settembre 2012

Un americano a P….ozzuoli








Un americano a P….ozzuoli
Le disavventure di un locomotore

La trazione a corrente continua 650 Volt, alimentata a mezzo della terza rotaia, viene inaugurata nel 1901 dalla Rete Mediterranea, sulla linea Milano – Varese – Porto Ceresio, con l’assistenza tecnica dell’americana General Electric Company di Schenectady. Essa fornisce attrezzature e materiale rotabile per varie metropolitane americane e parigine che utilizzando questo sistema evitano i fastidiosi effetti del fumo nel sottosuolo cittadino.
Americane della General Electric sono pure le prime elettromotrici passeggeri della Rete Mediterranea che, meglio conosciute come le “varesine”, dispongono di due pattini, per lato, per captare la corrente dalla terza rotaia. All’esposizione di Parigi dell’anno 1900 sono presentati al pubblico nove locomotori “Thomson” destinati ad essere utilizzati nel sottosuolo parigino. La General Electric, è in stretta relazione con la Rete Mediterranea per la quale sta svolgendo i lavori di elettrificazione della suddetta linea “varesina” e quindi gli fornisce, quale primo mezzo atto a circolare sui binari elettrificati con la terza rotaia, un locomotore che viene prelevato dalla fornitura del lotto parigino che così si riduce a soli otto esemplari.
La prima foto ritrae questo locomotore appena giunto in Italia, fornito di un grosso fanale e di una enorme campana come quelle che siamo abituati a vedere sulle locomotive protagoniste dei western. I ferrovieri, che affibbiano un soprannome affettuoso ad ogni mezzo di trazione, lo chiamano “Battistino”, e la Rete Mediterranea lo classifica “RM01”.
Il locomotore è il frutto di un progetto di Elihu Thomson, valente elettrotecnico, che fu fondatore con Houston della società loro omonima.
Ha la cassa di lamiera chiodata, con cabina centrale, poggiante su due carrelli ed il tutto concorre a dargli un senso di compattezza. Negli avancorpi sono contenuti il reostato, i serbatoi ed i compressori del freno. Il “controller”, unico per entrambi i sensi di marcia, è al centro della cabina.
I quattro motori, ognuno dei quali equipaggia un asse, sono del tipo GE.55 e generano una potenza di 440kw. L’impianto elettrico viene alimentato dalla corrente prelevata, mediante pattini, dalla parte superiore della terza rotaia.
Nel 1905 avviene la nazionalizzazione di tutte le rete ferroviarie che passano sotto l’amministrazione statale delle Ferrovie dello Stato le quali provvedono a modificare anche il suddetto locomotore. Così, seguendo gli standard italiani, esso perde campana e fanale centrale sostituiti dalla tromba ad aria compressa e dalla fanaleria regolamentare elettrica poggiata sui cofani. Sono applicati i corrimani, le sabbiere ed ampie grate sulle fiancate per una più agevole aerazione delle resistenze del reostato. Inoltre ai vetri delle testate sono montate le vele frangi pioggia che favoriscono una migliore visibilità. Viene riclassificato E420.001 ed è in questa elegante veste che lo vediamo ritratto nella seconda foto.
Intanto le Ferrovie dello Stato ripropongono l’esperimento della terza rotaia per la nuova “Metropolitana di Napoli” sulla tratta Napoli Giantuco – Pozzuoli – Villa Literno che viene inaugurata il 20 settembre 1925. La brevità della linea, il carattere metropolitano dell’esercizio passeggeri, l’estendersi del tracciato per gran parte nel sottosuolo, sono elementi che favoriscono l’elettrificazione della linea con l’allora più economico e semplice sistema disponibile, la terza rotaia, allo stesso modo della linea “varesina” che ha le stesse caratteristiche di traffico.
Il traffico passeggeri è svolto prevalentemente sulla tratta da Napoli a Pozzuoli sulla quale si gusta il viaggiare silenzioso e la mancanza di fumo. A tale scopo sono dirottate su questa linea le elettromotrici passeggeri a comando multiplo tipo E20 e alcune locomotive da traino tipo E321. Queste ultime hanno ormai preso il sopravvento nel traino di convogli sulla linea “varesina” e reso là inutile la presenza del locomotore E420.001 ex RM01. Le Ferrovie hanno addirittura pensato di cederlo alla metropolitana parigina dove ritroverebbe la compagnia dei suoi predetti otto fratelli.
Ma nel 1925 si decide di inviarlo sulla nuova tratta napoletana dove, dai più allegri ferrovieri partenopei, viene soprannominato “l’americano”. Dunque non ritorna a Parigi ma inviato a rappresentare “un americano a …Pozzuoli” sulla nuova linea direttissima. E’ utilizzato principalmente nel traino di carri che trasportano minerali ferrosi destinati agli altiforni di Bagnoli che a mezzo di un raccordo, in parte elettrificato per la terza rotaia, collega le acciaierie con il nodo ferroviario della rete statale. Ma è anche impegnato con tradotte notturne e per il servizio di manovra nel deposito di Napoli Campi Flegrei; spesso lo si vede fermo sul binario merci della stazione “Pozzuoli Solfatara”. Intanto si afferma definitivamente la trazione elettrica, a mezzo filo aereo, a cc 3.000V che inizia ad essere montata anche sulla nostra “direttissima”. Nel 1935 cessa il servizio con materiale a terza rotaia e subentrano le nuove elettromotrice passeggeri E624. Le locomotive E321 da traino sono rinviate sulla Milano – Varese dove si continua ad usare il vecchio sistema. Le vecchie E20 non ritornano al nord, dove ora il materiale passeggeri è costituita dalle nuove E623, pertanto vengono demotorizzate e trasformate in carrozze passeggeri. Per il nostro “americano” si preannuncia un futuro incerto; anche Parigi ha ormai accantonato i suoi gemelli.
Allora avviene un miracolo tutto napoletano. In quello stesso periodo la Ferrovia Cumana ha trasformato la sua linea, fino ad allora a vapore, in elettrica a mezzo filo aereo, però a cc a 1.200V. A tal proposito ha acquistato, quali mezzi di trazione al posto delle vaporiere, nove elettromotrici dalle “Officine Ferroviarie Meridionali”. Queste, con equipaggiamento elettrico fornito dalla “TIBB”, vengono classificate da E1 a E9. Per le manovre ed il traino merci la Cumana ha però bisogno di un locomotore elettrico dalle non molte pretese. Quindi acquista dalle Ferrovie dello Stato, a prezzo di rottame, il nostro “americano” che subito viene modificato per l'alimentazione a corrente continua 1.200V mediante installazione di un convertitore rotante a metadinamismo. Naturalmente vengono smontati i pattini di captazione ed al loro posto viene montata una presa di corrente a pantografo. La fanaleria viene spostata davanti ai cofani e la SEPSA, che nel frattempo è subentrata dalla “Società Anonima per le Ferrovie Napoletane”, lo classifica L2. Ed è in tale nuova veste che possiamo ammirarlo nella terza foto dei primi anni ‘50.
Lo ricordo con nostalgia quando sentivo da lontano il particolare sibilo che emetteva nel suo lento avanzare. Allora correvo velocemente verso il confine posteriore di Villa Maria e mi arrampicavo sulla cinta muraria. Era una gioia vederlo avanzare solitario e, barcollando come una papera, andare verso Arco Felice. Restavo in bilico sul muretto, a volte per ore, ad aspettarlo. Sapevo che doveva far ritorno al deposito di Fuorigrotta oppure all’interscambio di Agnano dove trasferiva, sulla rete statale, il materiale rotabile che aveva prelevato nuovo dalla fabbrica. Inizialmente dallo Stabilimento Meccanico di Pozzuoli e poi dalla subentrata Aerfer.
Spesso in inverno, causa l’instabilità del costone marino della Starza, la linea ferroviaria retrostante Villa Maria era interessata da frane e smottamenti. Il servizio veniva momentaneamente interrotto e poco dopo giungeva il nostro L2, “l’americano”, che spingendo o trainando piccoli carri merci si fermava giusto sotto i miei occhi e far smontare operai ed attrezzature. Allora potevo ammirarlo con calma e neppure i richiami dei miei riuscivano ad allontanarmi da quella scena.
A partire dal 1963, con l'ammodernamento della rete e l'elevazione della tensione originaria dai 1.200V al valore di 3.000V, per il locomotore L2 non risultò economicamente conveniente procedere ad una ulteriore trasformazione. Pertanto con leggerezza, e mancanza di lungimiranza propria della S.E.P.S.A., viene avviato alla demolizione presso lo stabilimento Italsider di Bagnoli sul cui raccordo ferroviario ha prestato servizio per molti anni. In pratica chiude la sua pacifica esistenza in quegli stessi altiforni che per anni ha contribuito ad alimentare.
Sarebbe stato opportuno preservarlo, come hanno fatto i francesi con un loro modello che ora è possibile ammirare in un museo. Andava conservato insieme ad una elettromotrice tipo E1 della prima generazione e qualche vecchia rimorchiata tipo Reggiane del 1913 o tipo FIAT del 1940. Tutto materiale storico che oggi avrebbe fatto bella mostra di se su qualche binario morto della “cumana”; binari questi che certo non mancano alla nostra Ferrovia.




BIBLIOGRAFIA
Alessandro Albè – Le Varesine – Edizioni Elledi
Stefano Garzaro – FS Locomotive Elettriche – Edizioni Elledi


Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 9 giugno 2012

mercoledì 11 luglio 2012

Il Congresso Democratico del Mezzogiorno










Il Congresso Democratico del Mezzogiorno di Pozzuoli
Seconda tappa verso il Fronte Democratico Popolare

Nell’infuocato autunno del 1947, dopo il buon risultato delle elezioni comunali e provinciali svolte il precedente 20 aprile, va preparandosi il “Fronte Democratico Popolare”. Una federazione politica di sinistra, formata principalmente da Partito Comunista Italiano e Partito Socialista Italiano, cui aderiscono anche Alleanza Repubblicana Popolare, Movimento Rurale, Movimento Cristiano per la Pace e Movimento di Unità Socialista. Questo raggruppamento politico, conosciuto anche come "Blocco del Popolo" cerca di non essere, o almeno di non apparire, solo una semplice alleanza da contrapporre alla Democrazia Cristiana per le elezioni politiche del 1948. Esso è alla ricerca della sua legittimazione sulla base di un movimento di massa; pertanto organizza organi di democrazia diretta che dovrebbero, nella intenzione dei promotori, riprendere le gloriose tradizioni dei comitati di liberazione di base.
Tre sono i congressi preliminari in vista dell’assemblea costitutiva del fronte,  che si terrà a Roma il 28 dicembre 1947, ed anche in vista del VI Congresso Nazionale del P.C.I. che si terrà a Milano nel gennaio del 1948.
Il primo è presso la Pirelli, alla Bicocca di Milano il 23 novembre 1947, dove si svolge il “I Congresso delle Commissioni Interne e dei Con­sigli di Gestione”.  
Il secondo è a Pozzuoli dove il 19 di­cembre 1947, in un capannone delle officine ex Ansaldo, si svolge il “I Con­gresso Democratico del Mezzogiorno”.
Il terzo è a Bologna, il 21 dicembre 1947, dove si svolge la “Costituente della Terra”, organizzata sulla base dei “Comitati della Terra”.
Il Congresso Democratico del Mezzogiorno di Pozzuoli [1] è convocato da un comitato d’iniziativa nazionale che raccoglie numerose personalità politiche e culturali tra cui Mario Alicata, Corrado Alvaro, Giorgio Amendola, Francesco De Martino, Renato Guttuso [2], Carlo Muscetta, Giorgio Napolitano, Gabriele Pepe, Manlio Rossi Doria. A Pozzuoli il comitato organizzatore è composto da Domenico Conte, Ilio Daniele, Angelo Di Roberto, Enrico Vellinati, Nicola Fasano, Giovanni Marino, Ciro Musto e un giovanissimo Umberto Lucignano. Alle popolazioni meridionali è lanciato un manifesto con l’indicazione degli obiettivi da conseguire, contro ogni lusinga paternalistica, dando una concreta organizzazione alle forze popolari e prevedendo l’assegnazione delle terre mal coltivate alle cooperative di contadini e la proroga dei contratti agrari. Il Congresso di Pozzuoli vuole dimostrare all’Italia tutta un volto e una dignità nuova del popolo; non più solo miserie e lacrime, ma operai che dalle miserie, dai lutti e dalle distruzioni hanno ricostruito macchine e officine; braccianti e con­tadini che, contro le forze ostili della natura e dei padroni, hanno fecondato terre incolte; intellettuali che si sono legati al popolo e col popolo vogliono combattere la battaglia del Mezzogiorno.
Attorno al problema della terra, a quello della difesa e del potenziamento delle industrie del Mezzogiorno, attorno ai problemi della vita economica, scolastica, igienica, il con­gresso di Pozzuoli chiama tutti i democratici del Mezzogiorno ad un’azione unitaria e concreta.
Il Congresso si presenta come la più imponente rassegna di forze meridionali fin qui tenutasi; operai, tecnici, contadini, partigiani, politici e personalità della cultura. Tra i primi arrivano le delegazioni di contadine di Bologna e di Torino; un gruppo di partigiani da Modena, con fazzolettoni rossi al collo; una lunga autocolonna di solidarietà, carica di doni, partita il mercoledì da Milano. I dipendenti Breda hanno inviato aratri, zappe e vanghe; quelli della Motta panettoni per i bambini poveri; la Isotta Fraschini 1.700 chili di riso; la Moto Meccanica un martello pneumatico; la Sefar 25 apparecchi radio; la Filotecnica 100 termometri; scatolame dalla Franco Tosi; 200 quintali di concime dalla Commissione Interna delle industrie di Terni, destinati alle cooperative agricole del Mezzogiorno; due milioni di lire dalle sottoscrizioni, sempre a favore delle popolazioni meridionali.
Centinaia e centinaia di lettere e telegrammi da Enti, Partiti, Organizzazioni, Sindaci; rappresentanti del Sindacato Direttivo Universitario Nazionale; una Delegazione di ragazze romane di tutte le categorie sociali; una Delegazione giovanile iugoslava.
Tutti gli operari degli stabilimenti Ansaldo di Pozzuoli hanno lavorato per addobbare la grande sala che ospita il congresso e tutta la città si è prodigata per preparare l’alloggio ai partecipanti dopo aver tappezzato le strade di striscioni di benvenuto. Sono infatti 7.000 i delegati di tutte le regioni meridionali che partecipano a questa solenne e grandiosa rassegna dove pongono in una prospettiva nazionale la questione del riscatto del Mezzogiorno.
ll Congresso è cominciato quando il primo contadino, delegato dei contadini del suo paese, di Sicilia o di Puglia o di Basilicata o di Calabria, è salito sul predellino del treno diretto a Napoli ed è partito per la grande assemblea del popolo meridionale, o quando si è mosso a piedi dalla lontana Calabria o dalla stessa Campania senza soldi, col pane avvolto in un fazzoletto, per raggiungere i suoi compagni riuniti.
La mattina del giorno 19, quando è ancora buio, i primi delegati infreddoliti da una notte in treno o in camion hanno bussato alla porta dell'Ansaldo. Alle otto la lunga sala del congresso è piena di canti dei braccianti siciliani e pugliesi, delle tabacchine di Lecce, delle mondine di Bologna, degli operai di Taranto, di Milano e di Torino. Venuti questi ultimi dalle città del nord a portare di persona alla seduta la solidarietà ed il sostegno delle loro popolazioni.
Alle nove il grande palco della presidenza si affolla. Sono presenti i comunisti Giorgio Amendola, Girolamo Li Causi, Velio Spano, Emilio Sereni, i socialisti Luigi Cacciatore, Francesco Cerabona, Luigi Renato Sansone, ecc..
Presenti sono tutti i membri del Comitato di iniziativa del Congresso e del Comitato esecutivo; e poi il prof. Floriano del Secolo, vecchio maestro del giornalismo democratico meridionale e i rappresentanti del mondo della cultura, tra i quali Renato Guttuso, Carlo Levi [3], Alfonso Gatto, Carlo Muscetta, Francesco Jovine, Alfonso Gatto, ecc..
Poco dopo, accolti da una grande manifestazione di entusiasmo, arrivano Lelio Basso, Giuseppe di Vittorio, Rodolfo Morandi, Fausto Gullo, Giacomo Mancini. E poi Vera Lombardi [4], Franco Castaldi, Tommaso Fiore…
Il primo a prendere la parola, a nome del comitato di iniziativa, è Floriano del Secolo che pronuncia un breve discorso di saluto a tutti i congressisti; tra l’altro dice: “I contadini della Basilicata ed i braccianti delle Pugile e della Sicilia non si sono mossi per venire ad ascoltare promesse di un governo distaccato dalle masse, o impegni di ceti dominanti, ma per misurare la propria forza ed in nome di  questa operare perché si inizi una grande battaglia di rinnovamento del Mezzogiorno.”
Inizia poi il dibattito e la prima relazione al Congresso è pronunciata da Emilio Sereni il quale pronuncia: “Se politica significa, come significa, lotta di popolo per realizzare le sue aspirazioni, questo è un Congresso politico. Il primo che il popolo del Mezzogiorno ricorda e dal quale partirà un movimento politico che trasformi la faccia del Mezzogiorno.”
Lo stesso spirito è nelle parole di Luigi Cacciatore, che pronuncia la seconda relazione: Giuseppe Di Vittorio [5] porta il saluto e la solidarietà della C.G.I.L.; Girolamo Li Causi, di Termini Imerese, nel suo discorso sottolinea la portata che dovrà assumere per la Sicilia il grande “Congresso del Lavoratori della Terra” convocato a Palermo per i primi di gennaio. Un particolare significato ha l'intervento del prof. Tommaso Fiore, vecchio combattente meridionalista e affezionato amico di Guido Dorso la cui vedova ha telegrafato augurando il pieno successo della manifestazione. Con uguale affetto sono accolte le parole di Francesco lovine che porta l'adesione degli scrittori e degli intellettuali che si schierano a fianco del popolo meridionale.
Grandi manifestazioni di entusiasmo salutano Luigi Longo quando sale alla tribuna per portare il saluto caloroso e l’adesione più piena del Partito Comunista e gli abbracci particolarmente vigorosi dei combattenti della libertà. Dopo di lui Lelio Basso porta il saluto e l'adesione del Partito Socialista. Si succedono quindi alla tribuna i delegati di tutte le regioni del Mezzogiorno e del Nord, tutti animati dallo stesso spirito di unità e di lotta.
Alla conclusione il Congresso da mandato al Comitato d’Iniziativa di organizzare un “Fronte per il Mezzogiorno” al quale aderiscono non solo i partiti della sinistra, ma anche repubblicani e azionisti. Predispone liste unitarie in vista delle successive elezioni politiche del 18 aprile 1948, impone una mobilitazione generale e fa più forte il quadro delle rivendicazioni, in particolare quelle relative alla distribuzione delle terre, alle bonifiche, alla riforma dei contratti agrari, alla difesa dell’industria nell’Italia meridionale, all’assistenza creditizia delle piccole aziende.
Dopo le ore 18.00, quando l’assise è sciolta, i delegati sfilano per le strade di Pozzuoli, di Bagnoli, di Fuorigrotta, di Napoli, accompagnati dal saluto delle popolazioni scese nelle strade. Passano i rappresentanti delle Camere di Lavoro provinciali e comunali, dei Consigli di Gestione, dei Sindacati e Commissioni Interne di fabbrica, delle Leghe Contadine, delle Cooperative Agricole, delle Amministrazioni Comunali, delle Deputazioni Provinciali, delle Associazioni dei Combattenti e dei reduci, dell’Associazione dei Mutilati e Invalidi, dei Sinistrati e dei Perseguitati Politici Antifascisti, delle Vedove di Guerra, degli Ordini Professionali dei Medici degli Ingegneri e Avvocati, delle Associazioni Universitarie.
Seme di questo Congresso è il “Fronte per il Mezzogiorno” che si ritrova a Napoli, il 27 aprile 1949, dove assume una iniziativa estremamente rilevante. Quella di convocare, in ogni regione, centinaia di assemblee popolari durante le quali saranno redatti i “quaderni di rivendicazioni”, in cui si riversano le richieste e le necessità delle comunità, denunciando le condizioni di povertà e di arretratezza della vita di larghi strati della popolazione meridionale.
Certo è che il Congresso di Pozzuoli resta nella memoria collettiva di Montescaglioso, piccolo, suggestivo e storico paesino della Basilicata, uno dei tanti della cui gente Carlo Levi ne descrive le condizione e la mentalità tipica della campagna meridionale: “Per i contadini lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi.”
Alle elezioni del 1946  il comune di Montescaglioso è conquistato dal Partito Comunista Italiano, caso più unico che raro, in quanto gran parte del Mezzogiorno conservatore vede la schiacciante vincita della Democrazia Cristiana. Al Congresso di Pozzuoli, nei capannoni dell’Ansaldo, i delegati lucani sono 537, cinquanta dei quali cittadini di Montescaglioso. I contadini di questo paese ritornano da Pozzuoli pieni di speranze e decisi a dare il colpo decisivo al sistema latifondistico. Vedono che l’iniziativa politica non è serve alle sinistre unite a vincere le elezioni politiche del 1948 ma costituisce la premessa per dar vita, immediatamente dopo la sconfitta, ai "Comitati per la Terra". Le rivendicazioni dei contadini di Montescaglioso cominciano così ad assumere quella concretezza che si sarebbe palesata nel mese di dicembre del 1949 quando cambiando strategia passano dalle occupazioni simboliche ad occupazioni vere e proprie con l’obiettivo di prendere il possesso dei terreni; per questo subiscono la violenta repressione della Polizia.
Questo è ciò che ricorda Montescaglioso, ma non so cosa di questo congresso resta nella memoria collettiva di Pozzuoli; un evento che certamente segna una tappa fondamentale nella politica nazionale. Speriamo che lo si ricordi degnamente nel futuro “Waterfront”, unitamente ai capannoni che lo hanno ospitato, ai macchinari, ai manufatti, a tutti gli uomini che hanno fatto grande questo Paese.

Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 28 maggio 2012