venerdì 25 novembre 2016

Morgana del Lago d'Averno


La Morgana avvistata nel Lago d’Averno
Una Fata tra scienza e fantasia

«Quante volte la bellissima Fata sarà apparsa sulle memorabili acque dell’Averno senza che a lei si volgesse sguardo mortale?
E se pur qualcuno la vide, nella sua incantevole fastosità, seppe esporre e dichiarare la genesi di quella fuggevole figliuola della luce?
Nessun ricordo è pervenuto sino a noi, e di questo silenzio non andremo meravigliati.
Molte dotte osservazioni e sagaci ricerche ed utili scoperte, attinenti alle scienze sperimentali, andarono del tutto smarrite per colpevole modestia o per infingardaggine dei nostri avi.»

A parlare in tal maniera è il Marchese Don Giuseppe Ruffo già Direttore della Reale Segreteria e Ministero di Stato di Casa Reale; autore di diverse memorie ed amico di puteolani quali Monsignor Carlo Maria Rosini, il canonico Andrea De Jorio, il principe di Cordiglia e il principe di Cardito.
Unitamente al vescovo Rosini, si prodiga nell’intento d’ottenere i finanziamenti atti a prosciugare il recinto del Tempio di Serapide, evitando il ristagno delle acque sospettate di contribuire all’aria malsana della zona.
Allo storico De Jorio dona una copia del suo trattato “Sopra la Fata Morgana del Lago di Averno”, oggetto del presente scritto.

Nel 1833 il marchese Ruffo sente altamente l'obbligo di contribuire ai dotti lavori della Reale Accademia delle Scienze di Napoli, di cui è socio ordinario.
Da tempo è questo un suo desiderio ma, suo malgrado, il suo animo è stato, per due lunghi lustri, rivolto tutto alla sua carica governativa; solo da poco ha trovato il tempo di dedicarsi pienamente alle scientifiche discipline che in precedenza ha seguito quanto appena gli bastasse per non perderne l'uso.

Don Giuseppe Ruffo trascorre gran parte del giornaliero riposo in uno chalet “poggiato” sopra una amena collinetta tra Pozzuoli e Montenuovo. Questo suo “casino di delizie” è di fronte alla nuova strada carrozzabile, che mena a Miliscola attraverso Baia e Bacoli, fatta costruire nel 1785 per comando di Sua Maestà il Re di Napoli Ferdinando IV per ovviare all’inconveniente della vecchia litoranea sommersa dal mare.

Alla fin fine la calma della vita privata è succeduta alle commozioni della pubblica; e già si rallegra dei frutti di quell'ozio, il quale tutt'altro suona che pigrizia.
Alla Reale Accademia, riunita in pubblico consesso nella tornata del 2 dicembre 1833 [1], Don Giuseppe presenta, e ne attira l’attenzione, un bellissimo fenomeno, noto ma raro; quello della “Fata Morgana”, non decifrato del tutto, che gli è avventurosamente capitato di ammirare, nella mattinata del precedente 31 marzo, sul vicino lago d’Averno dove si è recato con la speranza di cacciare uccelli acquatici.


«La notte del trenta marzo [scrive il nostro chiarissimo Accademico] i venti australi predominano nella Puteolana regione. Ricoverato nella beata solitudine, sotto il rustico tetto del mio Casino, io ne udivo con rispettoso raccoglimento il mugghio, che sembrava la voce minaccevole della natura sdegnata.
Ma a poco a poco si quietarono, e serena l'aurora spuntò dall'Olibano; solo qualche rada e scherzosa nuvola, fuggendo, ne velava il roseo sorgere.
Dalla mia loggia ora il mio sguardo si innamorava di quel placido e puro lume ed ora, girandolo intorno intorno, lo nutriva delle incantevoli scene di Pozzuoli, Miseno, Baia, Montenuovo, e del Gauro, un tempo folto di viti ed or selvaggio e ben chiamato Barbaro.

Commosso esclamai: Aurora, arsero un tempo questi campi di vivo ed immenso fuoco tu mescevi la tua limpida luce a quella luce sanguigna. Raffreddata la loro superficie, tu vedesti la razza umana fermarvisi, e moltiplicare rapidamente, favorita dalla soavità del cielo e dalla fertilità del terreno. Tu qui splendesti su fronti greche e romane; né la tua luce immortale invidiò quella caduca delle loro armi vincitrici e della fastosa loro grandezza.
Tu qui fosti testimone di poche antiche virtù, di sozze orgie e di molte illustri scelleratezze. Sotto i tuoi raggi Goti e Saraceni inondarono queste contrade, come torrente devastatore; e le opere colossali degli avi si trasformarono in mucchi d'infrante pietre.
Aurora, tu non muti giammai; e qui la sola bellezza della natura non cangiò del pari; ma bellezza divenuta infida e crudele, che sparge co' suoi aliti avvelenati la morte in mezzo all'estive delizie.
Aurora, tu forse rivedrai questi morbiferi laghi restituiti alla primiera salubrità; queste colline coronate di pampinosi tralci; queste pianure pingui di frutta e biade, e seminate di abituri pieni di contadini robusti, industriosi e felici.
Tu forse rivedrai questi ondosi specchi solcati da mille navigli carichi di preziose merci patrie e pellegrine; ma forse allora i miei occhi, che di te or si beano, e forse tutta la generazione che va non sentiranno mai più il tuo vivifico tocco!
Ma la Morgana, o Signori, è una fata poetica, la quale fastidisce subito le digressioni bisbetiche e sentimentali. Ella imperiosa mi sussurra agli orecchi di trasportarvi di volo sul lago di Averno e mi toglie di accennarvi la mia salita all'amenissimo Montenuovo, eruttato tre secoli addietro in men di tre dì, o di parlarvi di quel profondo e largo cratere che tutto apresi alla vista, e che somiglia l'interno di liscio caldaio.
Ubbidiamola alla cieca e senza interporre scortese indugiamento.

Il sole erasi poco dilungato dall'orizzonte, e ben quattro ore e mezzo restavagli a toccare il cerchio di meriggio, quando io scalpitava le arene del Cannito, in compagnia del colto giovine D. Michele Palazzolo.
Noi, perciocchè venuti dal Lucrino eravamo rivolti a tramontana, vaghezza di cacciare acquatici uccelli ci conduceva all'Averno; ma quale ci prese maraviglia non più trovando il lago là dove dovea pur essere! [2]

Sulle prime temei che il mio visivo senso si fosse ad un tratto scemato; ma sospingendo gli occhi per i circostanti oggetti, questi mi si offrivano quali io gli aveva cento e cento volte veduto. Perchè avvisandomi trattarsi di un'ottica illusione, veloce mi corse alla mente ed al labbro la Fata Morgana; voce che l'estasi ruppe al mio compagno e lo sbalordimento.
Che addivennero adunque le antiche ed immobili acque dell'Averno?

Elle si erano trasmutate in prati di fresca verdura, in alberi belli e diritti, in colline dolcemente chinate; e tutto ciò notante in leggiera nube di minuta polvere di argento. Null'aura intanto spirava nella bassa regione del lago, mentre al contrario nella superna gruppi di nuvoloni moveansi in giro, ora tignendosi in bianco, ed ora di colore filiginoso, con istantaneo cambiamento e leggiadrissimo contrapposto.
Immoto io contemplava la visione, temendo che si dileguasse; ma la Fata, per così dire, erasi addormita sul lago.
Sbramata quindi una mezz'ora all'incirca la curiosa mia voglia, mi diedi a conoscere ne' particolari lo stupendo fenomeno. Mi accostai quasi a toccar con mano il lago; e repente la parte a me più propinqua si disascose in lunga striscia, che l'occidentale ripa congiungeva all'altra di levante. Lucida e spianata era l'onda come terso specchio, e poichè nella successiva durava il magico rappresentamento, ed alcun che di confuso si frapponeva tra i limiti del vero e dell'ingannevole, ponte pareami quella striscia di massiccio argento sospeso arditamente sull'abisso; ponte degno della maestà della natura, ove riflessi si effigiavano al vivo, quantunque volti a ritroso, i venerandi ruderi del tempio di Apollo, i vicini poggi ed il lontanissimo romitaggio sopra Monte Santangelo.
Volevasi un altro esperimento, nè lo trasandai. Mossi da mezzodì a settentrione, tenendo la via occidentale del lago, e l'apparizione svanì, come legge naturale chiedeva, da che i miei occhi s' incontrarono negli abbaglianti raggi del sole.

Si che mi dipartii dall'incantato luogo, quale uomo che dubiti se vide desto o sognando. Innanzi che io entri colle speculazioni della fisica nella materia, giova, o Signori, al pieno suo intendimento, richiamare alla vostra memoria la più sorprendente, la più celebre Morgana dell'universo, la quale alle Due Sicilie si appartiene; quella che presentandosi di tempo in tempo ed all'improvviso nel canale di Messina, colpisce e diletta l'abitatore della Calabria, colà dove natura fu de suoi tesori larghissima donatrice.»

Al tempo dei barbari uno dei re conquistatori arriva in Calabria e si trova davanti un’isola meravigliosa con al centro una montagna che emana fumo e fuoco.
Sta meditando su come fare per raggiungerla e conquistarla, quando gli appare una bellissima donna [3] che gli dice:

“Vedo che guardi quella meravigliosa isola e ne ammiri le distese di aranci e ulivi, i dolci declivi ed il suo magico vulcano. Io posso donartela se la vuoi.”

E’ agosto, il mare è tranquillo e neppure un alito di vento turba la pace e la serenità del luogo; l’aria è tersa e limpida e davanti agli occhi del re barbaro accade uno strano fenomeno: la Sicilia è vicinissima, si possono vedere chiaramente gli alberi da frutto, il monte che vomita fuoco e perfino gli uomini che scaricano merci dalle navi.
Il re barbaro si butta in acqua sicuro di poterla raggiungere con pochi passi.
Mentre il re barbaro affoga, la fata Morgana sorride.

Ancora oggi nello stretto di Messina, ed in pochi altri luoghi a motivo di particolari condizioni atmosferiche, si verifica questo strano fenomeno di rifrazione ottica per cui, nelle giornate particolarmente terse di agosto e settembre, la Sicilia sembra vicinissima alla Calabria e se ne possono distinguere distintamente
campi, case e colline [4].


La fata Morgana, nome di origine bretone che significa “fata delle acque”, è un personaggio legato alla mitologia celtica ed è raffigurata come fluttuante e sospesa sulla superficie di fiumi e laghi [5].

La leggenda narra che, dopo aver condotto suo fratello Re Artù ai piedi dell’Etna, si trasferisce sullo stretto di Messina e qui manifesti ai marinai l’illusione di fantastici castelli galleggianti, che sembrano materializzarsi agli occhi di chi assiste al miraggio, per poi portarli alla deriva. 

L’immagine dei “miraggi” ottici, tanto rari quanto affascinanti, rispondono a precise leggi fisiche e si vedono come sospesi nell’aria; questo è il motivo per cui a questo fenomeno è dato lo stesso nome della fata che fluttua sulle acque, come in un leggiadro ballo, al fine di rapire gli uomini per farne suoi amanti. 

Il marchese don Giuseppe Ruffo, per sdebitarsi della cortesia mostrata dagli altri accademici, così termina il suo saggio:
«Meglio pregherò a mani giunte la Morgana dell'Averno a largheggiare con voi degl'innocenti suoi incantesimi, se ma; qualche bel mattino di Aprile vi attirasse su quella deliziosa piaggia. E se nell'estasi della vostra sorpresa vi sovverete che un vostro collega fu il primo a vederla e ragionarne, io chiamerò aurea, vostra mercè, la mediocrità di questo accademico saggio.»


CREDITI INTERNET



Giuseppe Peluso

venerdì 18 novembre 2016

Tragedia al Fusaro


Tragedia al Fusaro
Un Leoncino contro la Cumana

Nella tarda serata di domenica 28 aprile 1957 corre veloce una tragica notizia; due morti, tre moribondi e molti feriti in uno scontro tra un convoglio della ‘Ferrovia Cumana' ed un camion, ad un passaggio a livello nei pressi della stazione del lago Fusaro.


Come narra Gamboni, nel suo bell’articolo “Quel Treno per Cuma” [1], anche se denominata ‘Ferrovia Cumana’ in realtà la linea non arriva a Cuma ma ha una fermata a ‘Cuma-Fusaro’; alquanto distante dalla dimora della Sibilla, la somma sacerdotessa di Apollo.
Fino a tutti gli anni ’30 è questa una elegante stazione molto frequentata da turisti per i quali è facile raggiungere a piedi l’euboica rupe o i numerosi ristoranti e taverne meta di “ottobrate” e di scampagnate fuori porta [2].


Con la realizzazione della ‘Ferrovia Circumflegrea’ e la costruzione, su quest’ultima linea, della stazione ‘Cuma’, la vecchia fermata della ‘Ferrovia Cumana’ perde il doppio nominativo e, nel gergo comune, resta nota solo come ‘Fusaro’.

Ancora nei primi anni ’90 un inserto della rivista ‘Mondo Ferroviario’ riporta una foto di questa stazione e la sua didascalia così recita:
“La pittoresca stazione di Fusaro/Cuma accoglie un locale Torregaveta-Napoli con in composizione l’ET 103a” [3].

Ma già pochi anni dopo, nel 2011, il ‘Corriere Flegreo’ con un articolo di Annarita Costagliola, riferisce che i cittadini considerano fatiscente, e inadeguata alle esigenze della utenza, la stazione di ‘Fusaro’ della ‘Ferrovia Cumana’; con edificio e chiosco vetrato in totale abbandono [4].

Ma questa è altra storia. Giusto ritornare alla tragedia segnalata.
Prima c’è però da ricordare che all’epoca nelle adiacenze della stazione ‘Fusaro’ c’era un passaggio a livello che congiungeva l’attuale Piazza Gioacchino Rossini con via Giulio Cesare; e questo riduceva sensibilmente il percorso stradale tra Torregaveta e Cuma. Passaggio a livello che si trovava nell’area che si nota in fondo all’allegata foto [5].


Ritornando all’incidente le notizie immediate di quella tragica domenica raccontano che il camion (un FIAT ‘Leoncino targato’ NA 98351), sbucato a tutta velocità da una curva, è piombato sulla strada ferrata dopo aver travolto una ‘Lambretta’, in attesa del segnale di via libera, e dopo aver divelto le sbarre del passaggio a livello.
Il sinistro provoca la morte di due ragazze ed il ferimento di diciassette persone di cui tre sono in fin di vita; solo sette leggeri feriti sono dimessi dagli ospedali dopo le medicazioni.
Il 27enne autista del ‘Leoncino’, Gennaro Tafuri, seppur ferito si è dato alla fuga appena liberatosi dai rottami in cui il violento cozzo ha trasformato il suo automezzo.

Dalla sommaria visione dell’incidente la responsabilità sembra ricadere proprio sul conducente che, diretto a Mugnano, da qualche chilometro ha ingaggiato una tacita sfida col macchinista del treno procedendo sulla carrozzabile parallela alla strada ferrata.
Nei pressi del Fusaro il Tafuri ha imboccato a fortissima velocità la curva che porta al passaggio a livello e deve aver pensato, forse alquanto brillo, di poter transitare prima del treno lanciandosi a tutta velocità e andando a cozzare contro le sbarre del passaggio a livello la cui esistenza deve aver dimenticato. Prima però ha travolto la ‘Lambretta’ in sosta sulla quale sono il medico 32enne Gino Aroma e la sua fidanzata, la 26enne Anna Giannone.
Anche il casellante Giuseppe Odierno è investito dall’automezzo che si è trovato sulle rotaie nell’attimo in cui dalla curva sbuca il treno proveniente da Torregaveta.
Il ‘Leoncino’ è proiettato in aria fuori della strada ferrata mentre il convoglio va ad arrestarsi più avanti, proprio dove inizia lo scambio, senza però deragliare [6].


Sull’autocarro viaggiano diciassette persone delle quali solo il piccolo Erminio Salzano di 2 anni esce incolume. Nella cabina, oltre il conducente, ci sono i suoi genitori Nicola Tafuri di 58 anni e Maria Di Stasio di 56 anni; sua zia Elena Di Stasio di 47 anni, la nipotina Maria Tafuri di 18 mesi ed il nipotino Erminio. Le suddette due sorelle Di Stasio, in fini di vita, sono trasportate prima alla clinica ‘Villa Bianca’ di Pozzuoli e poi trasferite all’ospedale’ Loreto’ di Napoli.
Nell’interno del cassone dell’automezzo si trovano altre undici persone, quasi tutte di età inferiore ai venti anni e componenti delle famiglie Tafuri e Di Stasio, recatesi in gita insieme con alcuni altri amici.
Le cugine Anna Di Stasio di 18 anni e la 16enne Elena Tafuri, sorella del conducente, sono morte all’istante mentre la 23enne Rosa di Stasio è stata trasportata in gravissime condizioni all’Ospedale Civile di Pozzuoli.

C’è subito una attenta inchiesta da parte della Polizia Stradale e dei Carabinieri, che intanto ricercano il latitante conducente. Si accerta che nessuna responsabilità è da attribuirsi alla ‘Ferrovia Cumana’ in quanto il passaggio a livello era regolarmente custodito da una casellante, Luisa Odierno, che ha abbassato la sbarra mentre suo fratello Giuseppe Odierno, di 29 anni, faceva le segnalazioni col fanalino rosso; tanto che anch’egli è rimasto ferito nell’incidente.
Il convoglio della Cumana trainato dalla elettromotrice ‘E6’ guidata da Nicola D’Alessio, treno numero 193 partito da Torregaveta alle 19.30, giungeva al passaggio a livello alle 19.40 a velocità moderata quando si era trovato la strada sbarrata dal camion. Ha subito frenato ma non ha potuto fare a meno di agganciare, con il respingente destro, un parafango della ruota anteriore sinistra del ‘Leoncino’ trascinandolo quindi per circa trenta metri prima di arrestarsi quasi in stazione [7].

Il camion si ribaltava sul lato destro, con la cabina di guida sfondata, e tutti i suoi occupanti si rovesciavano a terra fra i rottami ed in mezzo a una confusione di piatti rotti e di cestini portavivande; ovvero i residui della gita che la sventurata comitiva si era recata a fare ad Ischitella [8].

Ma come mai il conducente del ‘Leoncino’ non si era fermato a tempo?
Anche se sembra assurdo era da escludersi subito che si trattasse di imperizia dell’autista, esperto di quella strada che percorreva ogni notte per il suo mestiere. Dall’interrogatorio dei carabinieri, agli occupanti meno gravemente feriti, s’è appurato la seguente storia.
Erano stati a fare una scampagnata ad Ischitella e poi di là erano andati a Torregaveta dove si erano fermati nel locale di un fornitore del Tafuri a far colazione. Avevano consumato sei birre, particolare importante se si pensa che erano diciotto persone; quindi non è possibile che il Tafuri fosse ubriaco.
Sulla via del ritorno, che costeggia la strada ferrata, Tafuri aveva forzato l’andatura e quando sbucando dalla curva si accorse del passaggio a livello chiuso, tentò di frenare ma gli uscì un grido dalla gola:
“Uh’ Madonna, non frena”.
La strada era in leggera discesa e pochi metri lo separavano dalla sbarra chiusa. Tentò di azionare il freno a mano ma questo si sballò ed allora il camion andò a sbattere sulla ‘Lambretta’ del dott. Aroma, che era ferma in attesa dinanzi al passaggio a livello; la travolse e quindi proseguì oltre la sbarra spezzandola, fino a urtare proprio contro il treno che in quel momento stava sopraggiungendo [9].

Subito dopo l’incidente il Tafuri, forse in preda allo choc, scappa per non vedere quello che in un primo momento deve essere apparsa una strage: “tutti i suoi familiari più cari uccisi.”
Ma lo stato delle indagini fa ritenere che le responsabilità del Tafuri siano minime; l’aver sovraccaricato il camion, il non aver forse controllato sufficientemente i freni, ed altre piccole cose.
Ma certamente non era ubriaco ne volle lanciarsi a corsa pazza; furono i freni che lo tradirono.

Nell’insieme una tragica fatalità.


N.B. - Cronologia principale da L'Unità del 29 e del 30 aprile 1957

Si ringrazia l'Archivio Carbone che gentilmente ha fornito le foto relative all'incidente.
Ricordiamo che l'Archivio Carbone, con i suoi oltre 500mila negativi rischia d'andar distrutto (o disperso), pertanto il progetto del suo salvataggio necessita dell'aiuto di tutti noi: 

https://www.eppela.com/it/projects/11092-archivio-carbone/


Giuseppe Peluso

venerdì 11 novembre 2016

Andalù, portalo via


“Andalù, portalo via”
Dalla Mostra d’Oltremare alla Televisione

Nel maggio del 1940 è inaugurata la Mostra d’Oltremare [1], pensata per propagandare ed esaltare l'opera del governo fascista nelle nostre colonie. Per questa manifestazione sono condotti a Napoli qualche centinaio di Ascari e graduati di colore, in rappresentanza di tutti i vari corpi armati coloniali operanti nell'Africa Settentrionale e nell’Africa Orientale Italiana.
Questi ascari sono scelti specificamente tra tutte le etnie e religioni sia della Libia che del corno d'Africa e tra loro ci sono anche qualche yemenita e sudanese volontario nel RCTC (Regio Corpo Truppe Coloniali). I soldati sono accompagnati dalle rispettive famiglie, oltre che da sacerdoti indigeni di religione cattolica, copta e islamica, che celebrano i culti in una apposita cappella-moschea all' interno della Mostra. Questa piccola comunità, del tutto autonoma (compresi anche le loro donne, vecchi e bambini) può essere calcolata all'incirca tra i 600 ed i 700 elementi.

I militari prestano a turno servizio d'ordine nei locali della mostra e compongono il picchetto d'onore per le autorità in visita [2]. 

Quelli liberi dal servizio vestono abiti tradizionali ed insieme ai familiari animano un grande diorama a grandezza naturale composto di tre villaggi di tukul, eretti in una "foresta africana" ricostruita trapiantando a Napoli centinaia di alberi provenienti dall'Africa.
Ogni giorno i "cacciatori indigeni" simulano una battuta di caccia al leopardo fino a spingerlo in una trappola, appositamente costruita, sotto gli occhi degli ammirati visitatori. Naturalmente il leopardo, addomesticato e ipernutrito non viene ucciso perché deve "recitare" anche il giorno dopo.

La scelta di ascari "possibilmente sposati e con prole" è fatta per evitare quanto accaduto in occasione della grande parata dell'Impero nel 1937, quando gli africani in libera uscita a Roma, disinteressati ai monumenti, chiedevano ai passanti dove fosse il bordello più vicino, per fare "Niki Niki" con la donna bianca. In questo intervallo di tempo sono state emanate le leggi razziali ed è essenziale evitare problemi di questo genere.
La mostra viene inaugurata dal ministro dell'Africa Italiana Teruzzi, accolto dal picchetto degli agenti nazionali e dagli ascari della PAI (Polizia Africa Italiana), alla presenza di alcune decine di capi tribali e religiosi in abiti variopinti. Questi ultimi sono giunti, in piroscafo ed in I° classe, appositamente per solennizzare l'avvenimento.

Nel frattempo, il 10 giugno dello stesso 1940, è dichiarata la guerra e la rapida caduta dell'Impero fa sfumare la prospettiva di un rimpatrio per la maggior parte di questa gente; le autorità devono decidere cosa fare di loro.
Praticamente restano tutti a Napoli, sede del Deposito Centrale Truppe Coloniali, limitandosi a svolgere servizi di guardia e d'istituto presso i locali comandi dei rispettivi corpi d'appartenenza. Solo la PAI, per sua stessa natura, tenta un impiego più operativo dei "suoi africani”, aggregando gli eritrei islamici ad un reparto autoblindo che opera in Africa Settentrionale nel 1942 (giudicandoli compatibili per lingua, cultura e religione con gli ascari PAI libici e la popolazione locale). Costoro continuano a combattere fin quando le truppe italiane in ritirata verso la Tunisia congedano i militari libici prima di varcare la frontiera.
Quelli rimasti a Napoli sono inevitabilmente coinvolti dalla vita quotidiana degli italiani e si integrano sotto vari aspetti [3]. 

Bambini e ragazzi fanno studi regolari (avviamento professionale) ed entrano nelle varie organizzazioni dell'ONB/GIL Opera Nazionale Balilla/Gioventù Italiana del Littorio); le donne iniziano a lavorare come domestiche, le infermiere della CRI tengono un corso di istruzione sanitaria per le ragazze finalizzato al lavoro negli ospedali.
Intanto già dal 1940 Cinecittà ha messo gli occhi su di loro, pertanto in molti partecipano come generici e comparse negli studi di Cinecittà in numerosissimi film, non solo di guerra o di propaganda, ma anche comici e di avventura, alcuni oggi poco conosciuti.

Certo è che gli ascari non sono congedati prima della fine delle ostilità e molti di essi partecipano alla guerra di liberazione come attendenti di qualche ufficiale, o in qualche reparto di servizi del Regno del Sud.
All'inizio degli anni '50 il Ministero dell’Africa Italiana (in via di smantellamento) ha un proprio "Reparto Militari Coloniali Nativi dell’Africa Italiana", con in organico militari definiti come "Soldati Eritrei", o altro a seconda della nazionalità d'origine; nel 1948 è ancora in servizio anche il 1° Capitano Libico Khalifa Khaled.

L’ascaro eritreo Andalù Ghezzali, nel corso della guerra di liberazione, si ritrova a svolgere il compito di attendente di un maggiore del CIL (Comitato Italiano Liberazione).
Al termine delle ostilità resta in Italia al seguito dell'ufficiale e nei primi anni 50 il suo destino va ad incrociarsi con quello di Angelo Lombardi [4] ed insieme diventano famosi personaggi della nascente televisione italiana.

Angelo Lombardi, nato a Genova nel 1910, nell’anno 1933 si sposta in Somalia, dove a Merca un fratello ha un’azienda per la coltivazione delle banane. Lui dovrebbe piantare cocchi ma è troppo impaziente per attendere i cinque anni della loro crescita, così inizia a lavorare al censimento della fauna nel deserto della Dancalia ed è qui che inizia l’attività di cacciatore di belve al seguito dello zoologo tedesco Karl Hagenbeck.
Ben presto la sua curiosità e sensibilità nei confronti degli animali esotici lo spinge a smettere di cacciarli per ucciderli e a dedicarsi piuttosto alla conoscenza delle loro abitudini e della loro vita. In breve Lombardi diventa uno dei maggiori fornitori di animali per i parchi zoologici d'Europa ed apre un suo giardino zoologico privato a Salsomaggiore.
La sua familiarità con gli animali gli procura le prime collaborazioni con l'industria cinematografica come consulente di scena o come scenografo in parti dove necessitano presenze di animali. Nel film “La corona di ferro”, diretto da Alessandro Blasetti nel 1941, esordisce come controfigura di Massimo Girotti per girare la scena in cui il protagonista si trova nella fossa dei leoni.
Dopo la guerra viene incaricato di ricostruire lo zoo di Napoli, devastato dai bombardamenti alleati e dalle razzie che non hanno risparmiato gli animali. Intanto continua a lavorare nel cinema, dapprima come collaboratore di Blasetti ed in seguito prestando la sua opera di consulente anche per produzioni statunitensi, tra le quali si ricordano “Ben Hur”, “Cleopatra” e “La Bibbia”. In quest'ultimo film Lombardi riesce a coordinare sul set la presenza di oltre milleottocento animali appartenenti a diverse specie.

Nel 1954 Sergio Pugliese, storico direttore dei programmi della neonata Rai, convoca Lombardi per un provino. L'emozione di trovarsi di fronte a una telecamera lo blocca; la situazione si risolve quando il figlio Guido gli passa una iguana, ora si ritrova a suo agio.
Il 7 febbraio del 1956 appare per la prima volta in televisione, in una propria trasmissione, “L’amico degli animali”, andata in onda per circa ottanta puntate, non continuative, fino al 1964.
Lombardi, sempre con un animale in braccio, è accanto a Bianca Maria Piccinino; al suo inseparabile collaboratore, l’ormai ex ascaro Andalù Ghezzali; ed alla scimmia Cita [5].

Agli amici dei miei amici, come solennizza Lombardi, vengono ogni sera svelate le infinite presenze di vita sulla terra, arricchite da aneddoti, filmati e curiosità.
La trasmissione ha subito un grandissimo successo fra tutti i telespettatori e Lombardi diventa una delle più popolari figure della televisione, uno dei primi divi del piccolo schermo, un divulgatore ante litteram, l'uomo che porta l'etologia agli stessi livelli di popolarità dei quiz.  
Celebre diventa la frase con cui apre il programma: «Amici dei miei amici, buonasera...», e poi l'altra: «Non mi vedrete, ma sentirete la mia voce!»
La sua figura massiccia, racchiusa in una classica sahariana, denuncia il suo passato da esploratore e da colonizzatore [6].

Questo legame coloniale è rafforzato dalla presenza dell'ascaro Andalù, un eritreo che gli fa da assistente e che contribuisce al successo della trasmissione [7].

Andalu' appare tranquillo nel ruolo che la televisione in bianco e nero gli affida. E’ un valletto, certamente non raccomandato, che aiuta il nostro etologo a portare e sostituire gli animali sul proscenio. Il professor Lombardi esibisce un animale poi, terminata la presentazione, o prima quando si accorge che l’animale sta diventando aggressivo perché innervosito dalle luci e dalle telecamere, dice al fido assistente:
"Andalu', portalo via".
Il valletto, con calma lo porta via ed introduce via via altri animali.

Questa frase, ancor più della celebre precedente, diventa subito proverbiale; diventa un popolarissimo tormentone che finisce coll’acquistare un significato più ampio.
Sulla bocca di tutti diventa un modo per liberarsi delle persone moleste e petulanti; ancora oggi, per far smettere chi ci sta vicino dal suo personale sproloquio, usiamo dire:

«Andalù, portalo via»

Giuseppe Peluso