venerdì 23 dicembre 2011

Loise De Rosa - Un puteolano del ‘quattrocento





La considetta "Tavola Strozzi" prima conosciuta immagine di Napoli.
Siamo nel XV secolo al tempo degli Aragonesi.


Loise De Rosa - Un puteolano del ‘quattrocento

La nostra Pozzuoli, nonostante i suoi 2500 anni, non ha dato natali a grandi personaggi che possano essere commemorati a livello nazionale.
Ricordiamo che Sofia è nata a Roma ed il Pergolesi ad Iesi. Il cuore mi dice che il più importante “pozzolano” di nascita è uno scrittore del quattrocento; sconosciuto alla gran parte dei nostri concittadini. Trattasi di Loise de Rosa, cronista popolare, noto per un suo scritto, il racconto dei suoi “Ricordi”, che è anche uno dei primissimi prodotti in lingua volgare, nella Napoli aragonese. Critici e saggisti stanno riscoprendo e valorizzando quest’opera che sta rilevandosi sempre più un documento essenziale per la conoscenza e la storia del dialetto napoletano.
Loise de Rosa nasce a Pozzuoli, forse il 14 o forse il 16 ottobre 1385; come lui racconta: "lo nassive a Pezzulo". In seguito, rivolgendosi a se stesso incessante continua: "Tu nassiste de ottufro, o a li quattordice o a li sedice, uno più de li quindice o meno de quindice".
Continua dicendo che quando nacque suo padre stava sul terrazzo di casa a guardare le stelle e disse a sua madre, che si chiamava Fiore, di averlo in buona cura perché sarebbe diventato uomo avventurato, gran maestro, governatore di popoli e signore dei propri genitori e dei fratelli e sorelle, e avrebbe fatto bene a tutti; come per l’appunto accadde.
Quando aveva 20 anni un “astrolaco” che predice i destini gli profetizza che avrebbe corso pericolo di morte ma che se ciò gli accadeva un giorno di venerdì sarebbe scampato; che sarebbe stato più volte per cadere nelle mani della giustizia; che avrebbe trovato oro; e altre cose, che tutte si avverarono. Gli dice pure che avrebbe avuto tre mogli poco affettuose che gli avrebbero dato molte figlie. Sarebbe stato ben visto dagli uomini, ma non amato dalle donne; e infatti egli non poté mai avere, da nessuna delle mogli, un bacio, se non per forza; e peggio gli accadde quando cercò amori fuori dalle mura domestiche, come poi racconta con umorismo.
Dal suo scritto si apprende anche che ebbe fratelli e sorelle, ai quali è costretto a provvedere quando, saccheggiata Napoli da Alfonso d'Aragona, la famiglia si rifugia ad Aversa. Si dedica alla scrittura in tarda età, dopo aver speso un'intera vita come capo della servitù, cioè “mastro di casa” nelle corti angioine e aragonesi del Regno di Napoli. La stesura dei “Ricordi” sembrerebbe formalmente iniziata nel 1452, data a cui rimanda l'avvio della prima scrittura. "Anno Domine MCCCCLII, io, Loise de Rosa, haio comenzato chisto libro, e so' omo de anne sessantasette";
Va però notato che subito dopo l'inizio de Rosa elenca le sei regine presso cui ha prestato servizio, tra cui Isabella di Clemont, prima moglie di Re Ferrante d’Aragona morta il 30 marzo 1465, il che rinvia subito a un'epoca posteriore al 1452. Quindi è evidente la ripresa di annotazioni anteriori, provenienti da un precedente brogliaccio o diario, inizialmente indirizzato a Re Alfonso; infatti spesso inizia i capitoli con “O signor donno Alonso”.
In seguito integra in un unica cronaca tutti i suoi “Ricordi” in gran parte scritti tra il 1467, quando è a servizio di Ippolita Maria Sforza, andata in sposa due anni prima ad Alfonso II, e il 1475, quando nell’ultima scrittura si dichiara novantenne. "ché mo' che scrivo haio più de anne novanta".
In questo ultimo periodo è al servizio di Re Ferrante che lui così definisce: “..che chiamasse Afferrante, che afferra omne cosa, che prio Dio che pozza campare anne ciento in felice stato.”
Il libro dei suoi ricordi, di settantatre fogli probabilmente autografi dello stesso de Rosa, è conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Proviene dalla “Biblioteca Aragonese” nella quale vi fu depositato per dono di Ippolita Maria Sforza. Contiene tre distinte scritture; le “Memorie”, compreso il capitolo “Ly miracule che eo aio vedute”, l'unico che abbia un suo titolo; la “Lode di Napoli”; e la “Cronaca di Napoli”, che va dall'imperatore Corrado IV fino ai suoi giorni, che a sua volta contiene le “Lodi della donna”. Loise è un grande ammiratore del gentil sesso ed in quest’ultimo paragrafo il suo elogio corre così veloce che deve interrompersi improvvisamente per rivolgersi ai suoi lettori: “Ora vui porrissevo dire: Loise, tu si’ innamorato, però dice bene delle donne, perché li nammorate sempre so soggiette delle donne.
Io ve iuro che, per mia fè, che non so nammorato”.
La sua è una cultura orale assorbita dalle conversazioni sentite a corte, nelle ville dei signori e degli umanisti o nelle riunioni dei "Seggi". Dalle prediche, dal chiacchiericcio colorito e sentenzioso dei vicoli di Napoli e dalle novelle d'intrattenimento. Nei suoi ricordi gli storici hanno notato alcune storture e imprecisioni, se non vere e proprie invenzioni favolose, che in parte incidono sull'attendibilità dei fatti narrati; ponendo limiti storici e documentali. Però nella caratteristica prosa, pressoché priva di qualsiasi elaborazione letteraria, risiede uno dei pregi dell'opera; la scrittura di de Rosa, discostandosi appena da quello che doveva essere il parlato della Napoli del Quattrocento, è un documento linguistico di rilevante importanza per la storia e lo studio del dialetto napoletano. Nel ‘400 il toscano è già prevalente nel linguaggio di tutti gli autori del sud Italia; invece nei “Ricordi” di Loise appare per la prima volta un'espressione linguistica tutta meridionale in una forma genuina di semplicità dialettale; così come genuini sono gli aneddoti e i ricordi riferiti.
Ad esempio Loise racconta che a Roma moltissimi penitenti accorrevano, soddisfatti e rassenerati, da un confessore chiamato “donno Janne”; tanto che alcuni invidiosi lo accusarono al Papa. E il Papa interrogatolo sulle cagioni della mirabile efficacia del suo ministero di confessore udì spiegarsi il semplicissimo metodo delle compensazioni che egli teneva. Un penitente confessava di avere rubato cento ducati: “Bene, e a te è stato mai rubato niente? Si, una volta ottanta ducati. Quando te ne ruberanno altri venti non fare rimostranze; vada l’uno per l’altro! Un altro penitente confessava di aver sedotto la moglie altrui. E la tua ti è stata mai sedotta? Si. Vada l’uno per l’altro! Sicchè (concluse Loise), signor don Alonso, “eo so stato confessato da donno Janne, che multi anni so stato bene e mo sto male. Vaga l’uno per l’autro, e stammo pace otto e otto!”
Lo scritto di de Rosa è riscoperto da un monaco francese nel corso del ‘700 ed in Italia solo nel 1879 è parzialmente pubblicato dal De Blasiis. Di questa opera ne parla poi Benedetto Croce nel 1913 nel suo “Sentendo parlare un vecchio napoletano del Quattrocento”. Solo in tempi recenti lo si è ripreso e Loise de Rosa è addirittura additato come il più grande autore napoletano dell'epoca da Gianfranco Contini, che lo considera al di sopra non solo di Masuccio Salernitano ma anche di Jacopo Sannazaro.
Vittorio Formentin scrive che il testo è un vero monumento della letteratura napoletana, al quale il bonario rimprovero di vanteria mosso da studiosi quali il De Blasiis e il Croce nulla toglie della sua straordinaria importanza, sia storica sia linguistica.
Loise scrive in tarda età e spesso molto tempo lo separa dagli avvenimenti narrati; eppure, nonostante confusioni ed errori, il suo racconto ha ancora per lo storico un valore non trascurabile, e non è raro che la sua testimonianza consenta di aggiungere o chiarire particolari tralasciati da altre fonti. E’ il primo a segnalare la presenza degli zingari nel Mezzogiorno quando annota che, al tempo della Regina Giovanna II d’Angiò, vide “..lo duca de Egitto co’ la mogliere e li figlie andare pezzendo per Napole”.
Cesare Segre riferisce che bisogna riconoscere che Loise ci offre pagine affascinanti, in cui la vita di corte dell'epoca è descritta dall'interno, con la conoscenza profonda dei fatti, sia politici sia familiari, di chi vi è stato direttamente implicato. Lo storico può trovarvi infinite notizie di prima mano, scene di grande effetto ed episodi segreti che Loise descrive col gusto della pura narrazione, ma conoscendo bene i retroscena del potere.
Nella storia del Regno Loise non vede che scompiglio e guerre intestine ad opera dei baroni. Quindi esclama: “Chisto riame èi de la santa Eclesia, e io dico che èi de lo santo Diavolo. Non vidite che tutti li signuri so li dimonie, che non cercano se no guerre?”
Ma i "Ricordi" non sono soltanto un'opera storica; nei testi che li costituiscono è riversato infatti un tesoro di leggende e aneddoti tramandati dalla tradizione orale e narrati in uno stile semplice ma efficace, che ne rende la lettura piacevole e affascinante anche per il lettore non specialista. Ad esempio così descrive il Regno in cui vive: “La divisa de lo Riame èi uno aseno co la barda vecchia, e vòltase e mangiasela, e tene mente a la nova.”
I suoi “Ricordi” sono opera d'un vecchio che vuole soprattutto vantare il proprio ruolo e raccogliere leggende e dicerie. Loise ci racconta tutto, storie spesso tragiche, col tono del saggio che conosce i capricci del destino e le debolezze umane, ma sa anche riportarli all'insegnamento dei testi sacri, che cita in un latino gustosamente storpiato.
Loise ha saputo conservare il tono della propria voce, la naturalezza delle esclamazioni, il piacere della sorpresa e delle interrogazioni rivolte a un pubblico con il quale pare discutere direttamente: “O vui che liggite”.
A volte ci fa partecipare ad avventure con colpi di scena e conclusioni impreviste, altre volte pare mostrarci gli avvenimenti attraverso il buco d'una serratura o le incontrollabili voci del popolino. Ma lui è sempre presente, e gode nello esporci un pezzo importante delle vicende napoletane.
Loise servì sette re (Ottone di Brunswick, ultimo marito di Giovanna I, Ladislao, Giacomo II di Borbone, marito di Giovanna II, Luigi III d'Angiò, Renato d'Angiò, Alfonso d’Aragona e Ferdinando d'Aragona) e sei regine (Margherita, moglie di Carlo III di Durazzo, Giovanna II, Maria di Cipro e Maria di Taranto, mogli di Ladislao, Isabella di Lorena, moglie di Renato d'Angiò, e Isabella Chiaramonte, moglie di Ferdinando). Come gli aveva predetto l’astrologo cadde in disgrazia presso Giovanna II e corse pericolo di vita, accusato ingiustamente di aver abusato di una cameriera della regina; restò rinchiuso nella fossa di Carlo Martello, finché il vero colpevole non fu smascherato. Sette volte fu preso il giorno in cui venne catturato il gran siniscalco Pandolfello Alopo. Fu "mastro de casa" di re Giacomo II; del gran siniscalco Gianni (Sergianni) Caracciolo; del cardinale Latino Orsini e del cardinale di Cipro Ugo di Lusignano; del patriarca d'Alessandria Giovanni Vitelleschi; dei principi di Salerno, gli Orsini e i Sanseverino; dei duchi di Sora e del Vasto; dei conti di Troia e di Ariano; di Cola d'Alagno e di altri signori. Fu "viceré de lo contado" di Bisceglie e di Val di Gaudo; due volte viceammiraglio; la prima per conto di Giovanni Fregoso, fratello del doge di Genova; la seconda per conto del principe di Salerno. Dichiara di essere capitano di Teano e scrivendo di sé e delle sue "imprese"; all'inizio dell'opera sottolinea: "... io deveva essere omo d'assai, e mo' che commenzo chisto libro, non so' da niente".
Quasi certamente la maggior parte delle suddette cariche sono vanterie del de Rosa, che altro ruolo non ebbe che quello di capo della servitù; oltre la innocente persuasione di aver maneggiato grandi affari.
Negli appunti più vecchi, quelli dell’encomio a Napoli, volendola qualificare nei confronti delle altre grandi città italiane la definisce “gentile”. Loise dice che tredici cose sono necessarie a rendere perfetta una città; a costituirne la “nobbeletà”. Quattro caratteristiche sono topografiche (mare, piano, montagna e boschi). Quattro sono elementi naturali (acqua, aria, terra e fuoco). Cinque sono pregi storici-urbanistici (strade, chiese, case. mura e fontane). Napoli è l’unica città che ne possiede dodici su tredici. Solo le mura non sono belle, ma tutte le altre cose sono “mirabbellemente”. In più vi si ritrovano “tutti la gente de lo mondo” e di tutte le più nobili qualità sociali, e c’è agevolezza di mercato, nonché di tutto quanto possa toccare alla “consulacione” del corpo e dell’anima. E’ l’armonia di tutte queste qualità a rendere Napoli “gentile” e preminente rispetto alle altre grandi città. Il de Rosa esprime così, a modo suo, una idea che ha avuto una precedente larga diffusione; così come Roma è definita “la santa”, Firenze “ la bella”, Milano “la grande”, Venezia “la ricca”.
Poi parlando dei napoletani dice: «Una bona novella voglio dire a ly nostre napoletane, yo Loyse de Rosa. La novella èy chesta: che ly napoletane so' de lloro natura ly meglio omene de lo mundo, et provalo. State ad audire le mey raiune. Dio criò lo mundo, et èy spartuto in tre parte, Asia, Africa et Oropa. Se non sai, ademanda, che, delle tre, Eoropa èy la meglio. Lo napoletano èy nato a la meglio provincia de lo mundo, perché Napole sta fundata in Oropa.
L'autra: quale èy la meglio parte de Oropa? Sàilo? No, et tu 'de ademanda. Yo dico che Ha meglio de Oropa èy Italia, et yo dico che Napole sta dello meglio de Italia: adunca so' de ly meglio nate.
L'autra: quale ey lo meglio de Italia? Sàilo? No. Sacczelo da me. Èyo lo Riamo de Napole, czoè Cicilia. Adunca Napole èy la meglio cita de lo Riame: lo nepoletano èy de meglio nato.
L’autra: quale èy lo meglio de Terra de Lavore? No'llo say? Sy. Quale? Èy Napole. Adunca lo napoletano èyo lo meglio omo nato de omo dello mundo!»
Loise parla sempre in modo emozionato della sua città che la sua scrittura è da considerarsi una licenza poetica. Va ad elencare nobili, conti marchesi, duchi, principi e re, medici, ospedali, scuole, fontane, bagni, e miracoli.
Dedica un intero paragrafo a: “Ly miracule che eo aio vedute”.
«Et più ve dico che ave Napole la più bella rellicuia che sia per tutto lo mundo: ave la testa de santo Iennaro, che fo arcepiscopo de Napole, et ave una carrafella de lo sango suo, et sta como una preta et, come vede la testa, se fa licuido como mo fosse insuta ("uscito") de la testa et fa et ave fatte più miracule. Ora, che ve pare delle cose stupende de Napole?».
Non manca di parlare delle fonti descritte nel "De Balneis Puteolanis". Tra queste è la "Fons Silvanae" nota per cure ginecologiche ed eliminazione della frigidità e della sterilità; potere quest’ultimo che suscita le battute di Loise che in gustoso dialetto puteolano - napoletano scrive:
"..se volisse imprenare tua mogliere, portala a la vagno de Sarviata, ma tu fa lo tuo dovere con tua mogliere, ca la donna non se ne imprena de acqua cauda".
Dopo tanta esistenza il de Rosa muore a Napoli nell’anno 1475.
Cosa lascia? Cosa ha detto il compaesano Loise? “O vui che liggite”.
Ci ha esortato a leggerlo per poi proferire: “Ora vui porrissevo dire….”
E Pozzuoli che fa? Se non una strada, almeno una targa!



Giuseppe Peluso

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