mercoledì 27 giugno 2012

Il “Brusa” a Pozzuoli - Un pescecane della finanza











Il “Brusa” a Pozzuoli
Un pescecane della finanza

Banchina di Pozzuoli, calda mattinata di sabato 5 settembre 1931. Sulla ripa affollata di marinai, pescivendoli e popolane avanza una vettura da nolo proveniente dalla vicina Napoli. Procede lenta, il molo è affollato e il cavallo risente del tratto San Pasquale a Chiaia Pozzuoli percorso velocemente. Giunta all’altezza della vecchia cantina il cocchiere ferma la carrozza, smonta e corre ad aprire la porta per farne discendere i quattro passeggeri. Ne escono in ordine un uomo di circa 35 anni, un bambino di 6, una giovanetta di 7 anni ed una slanciata donna dall’apparente età inferiore a 30. La carrozza è separata dal mare solo da discontinue fila di botti e dietro queste sbuca un uomo, di bassa statura, con la pelle bruciata dal sole e con un abbigliamento che subito lo annovera come marinaio. Va incontro ai discesi passeggeri e stringe la mano al capofamiglia; senza scambio di parole. Il marinaio è capobarca ed armatore del motoveliero ormeggiato dietro le botti. Subito dopo i convenevoli volge lo sguardo verso il barcone e fa un cenno ad alcuni uomini seduti su casse già caricate in coperta. Sono quattro i marinai, parte dell’equipaggio, che subito dirigono verso il retro della carrozza ed iniziano a prelevare valigie, bauli e pacchi abbastanza numerosi per una famigliola che si reca a Ponza per il solo fine settimana. Gli ufficiali daziari, alle dipendenze del direttore Pasquale Flandin, controllano la sola merce in arrivo; non creano problemi per quelle in partenza. Tutto procede naturale, forse come fatto altre volte in precedenza. Marinai ed ospiti prendono posto a bordo e subito si parte a motore; ma si prepara anche la vela. L’ospite è Luigi Scotti, ancor giovane rappresentante tessile, purtroppo vedovo da due anni. Ha con se la figlia Jole, il figlioletto Aldo, e lo accompagna la sorella Maria che con amore segue i due nipotini. Sono diretti a Ponza dove alloggeranno in casa di Assunta Scotti, che nonostante il cognome non è loro congiunta; Assunta è originaria di Pozzuoli ed è lontana parente di Biagio, il capobarca. Giunti all’isola, nelle prime ore pomeridiane, i marinai trasferiscono i bagagli nella bianca casetta di via Banchina. I bimbi e la zia dirigono subito per la vicina spiaggia e Luigi Scotti li segue ma non certo con l’intenzione di godere del mare. Deve incontrare Giulio Brusadelli, condannato dal regime fascista al confino su quest’isola, come tanti altri. A lui sono diretti la maggior parte dei beni alimentari, di vestiario e di svago letterario contenuti nei numerosi bagagli che la disponibile Assunta gli recapiterà poi con calma.
Intanto sorge spontanea la domanda: “Chi è costui? Chi è Giulio Brusadelli?” Nato da famiglia poverissima, nel 1878 a Cassano Magnago, resta orfano di padre a dieci anni. Questo ragazzo riesce a mantenere la madre e i tre fratelli più piccoli tenendo, nelle ore libere dalla scuola, la contabilità dei negozi locali. A quindici anni trova lavoro, come operaio tessile, in un linificio della vicina Gallarate. La sua carriera è rapida, i dirigenti lo promuovono impiegato, a vent’anni è già rappresentante di numerosi cotonifici di cui diffonde i prodotti soprattutto all’estero. A trentaquattro anni riesce a fondare una’azienda commerciale propria, cui dedica diciotto ore di lavoro al giorno. Il “Brusa”, come viene chiamato, nel 1919 diventa il fornitore, quasi monopolista, delle camice nere, grazie all’amicizia personale con Mussolini, e questo gli procura la possibilità di condurre una prima scalata alle azioni del Cotonificio Dell’Acqua di Legnano. Cosa che manda su tutte le furie il Capo della Banca Commerciale Giuseppe Toepliz, ma questo assalto procura per molti anni al Brusadelli la fama di arbitro incontrastato dei titoli tessili, nella Piazza Affari di Milano, nonché l’amicizia del celebre Giulio Riva. Nel 1925 riesce ad acquistare per intero il Cotonificio F.lli Dell’Acqua e in pochi anni porta gli operai occupati da 1.200 a 8.000.
Nel 1931 viene condannato dal governo fascista al confino a Ponza e qui riceve, come visto, aiuti e visite del suo rappresentante per la Campania Luigi Scotti che lo aggiorna sull’andamento produttivo e di mercato del suo importante cotonificio costituito da filatura, tessitura e tintoria. Voci comuni riferiscono che Brusadelli sta dando la scalata alla stessa Banca Commerciale Italiana e solo per questo motivo Benito Mussolini lo manda al confino. Poi si inserisce la leggenda riferendo che il Duce, informato dal suo braccio destro Farinacci che il cotonificio comincia a traballare e per evitarne il collasso, dichiara che se Brusadelli avesse tenuto un discorso in camicia nera alle sue maestranze lo avrebbe reintegrato nelle sue funzioni direttive. E così è; nonostante le sue idee politiche, Brusadelli accetta il compromesso perché estremamente legato alla sua azienda.
Qualunque siano effettivamente state le motivazioni dopo solo 10 mesi ritorna dal confino con rinnovata volontà di lavorare. Riprende i contatti con Giulio Riva, uomo di pochi scrupoli, sposato con la figlia del Senatore del Regno Felice Gaio Lampugnani; un “cesso” terrificante, la definisce lui, ma dalla dote ricchissima. Il Riva fa incetta di commesse per la Guerra di Etiopia e di Spagna, senza mai essere però integrato nel giro esclusivo della finanza milanese. Nonostante riesca a scalare consistenti pacchetti della SNIA Viscosa di Franco Marinotti, della Chatillon e della Edison, la Finanza con la “effe” maiuscola, quella dei “salotti buoni” gli chiuderà sempre le porte; Mattioli rifiuterà senza fine di ricevere “quello stradino ignorante”. Nel periodo bellico Riva acquista a prezzi stracciati terreni e stabili devastati dai bombardamenti, oltre ad accaparrarsi le forniture di cotone, filati, semilavorati, tessuti. Si muove in tempo il Riva fin dal 1940, grazie alle confidenze di Roberto Farinacci, quando nessun industriale ritiene la guerra lunga, riuscendo così a spuntare un rilevante vantaggio competitivo.
Negli anni difficili che seguono la conclusione della seconda guerra mondiale il “Brusa”, dal 1941 cavaliere, è tra i primi industriali a riavviare la produzione negli stabilimenti appena ricostruiti, meritandosi la simpatia dei suoi stessi dipendenti, anche se diventa, insieme al socio Giulio Riva, un tipico “pescecane” di quelli che sanno muoversi in questo periodo turbolento del dopoguerra. Del 1946 il ventenne Aldo Scotti, che abbiamo visto bimbo imbarcarsi a Pozzuoli nel 1931, nelle sue memorie riferisce: “Ricordo ancora, e lo conservo gelosamente, il quadro di Casciaro padre che Giulio Brusadelli e la moglie Ida regalarono a mio padre in occasione di una loro visita nella nostra abitazione; con questo gesto vollero dimostrare il loro riconoscimento per quanto fatto da mio padre durante il periodo dell’esilio. Era un uomo di elevata intelligenza, legato alla sua attività imprenditoriale in maniera veramente non comune.”
In occasione di questa visita Giulio Brusadelli si reca al porto di Pozzuoli; visita i luoghi dove mossero i suoi sollievi e conosce chi come patrón Biagio materialmente gli fu d’aiuto; con questi “sentimentalismi” circonda la sua figura di un alone leggendario. Nella sua visita si innamora della Terra Flegrea e tratta per l’acquisto di una villa sulla litoranea Bagnoli Pozzuoli; trattative interrotte per la morte della moglie Ida.
Ben presto si risposa con Anna Andreoli, molto più giovane di lui e molto più sofisticata. Frequentano i salotti del bel mondo e spesso sono a Capri in una villa che il “Brusa” acquista dal suo rappresentante di Roma. Ancora una volta ci aiutano le memorie di Aldo Scotti che così racconta: “In quell’occasione mi misi a disposizione di Giulio Brusadelli per circa due mesi, e lo attendevo al Molo Beverello con la mia Lancia Ardea per accompagnarlo non solo presso gli Istituti bancari, ma anche presso i più importanti industriali del settore conserviero, settore nel quale intendeva introdursi e che in quell’epoca era tenuto in grande considerazione, e anche negli incontri con il comandante Achille Lauro. Questi incontri erano necessari per avere la collaborazione e l’interessamento a questa sua nuova iniziativa. La moglie lo dissuase dal portare avanti questa nuova attività, data l’età avanzata.”
Presto tra Giulio Brusadelli e Giulio Riva scoppia la rivalità, per motivi strategici e personali. Il Brusa ritiene che il tessile sia un settore destinato al declino e disapprova la tendenza del socio a non diversificare gli investimenti. Brusadelli è un gran sostenitore della “DC”, tant'è che alla vigilia delle elezioni politiche del 18 aprile '48 è tra gli industriali che costituiscono un fondo per sostenere la campagna elettorale democristiana. Subito dopo l’attentato all’onorevole Togliatti, del 14 luglio 1948, vende il pacchetto azionario del “Cotonificio Dell’Acqua” al Riva temendo una rivoluzione catastrofica per il nostro Paese. Pochi mesi dopo cambia idea. Il 18 ottobre 1948 il “commenda” Giulio Brusadelli, ormai settantenne, si rivolge al Tribunale di Milano chiedendo di rientrare in possesso della maggioranza del pacchetto azionario ceduto. Pietra dello scandalo il Cotonificio Dell’Acqua, per un valore di tre miliardi di lire, che è alla base di una controversa giudiziaria che si trascinerà per anni, arricchendo le cronache mondane e rosa del secondo dopoguerra, per il piccante e torbido triangolo tra il “Brusa”, sua moglie Anna e il Riva. In pratica il Brusadelli dice che il Cotonificio Dell' Acqua, gli è stato estorto dalla moglie, Anna Andreoli, con "circonvenzione sessuale e indebolimento psichico”, a vantaggio del suo amante, Giulio Riva, anch'egli industriale tessile. La donna, scrive il legale di Brusadelli nell'esposto al giudice, è una "raffinata distributrice di piaceri sessuali, rivolti a turbare lo spirito del vecchio e a farlo cadere vittima del raggiro..". La signora Anna affida la sua difesa ad un valente avvocato il quale porta davanti al giudice alcuni volumi per dimostrare che si tratta di libri acquistati senza malizia ribattendo così l’accusa che fra l’altro parla di letture oscene cui lo avrebbe costretto per motivi afrodisiaci. Poco dopo Brusadelli si avvede che l’avvocato Candian, cui si è affidato, lo ha condotto fuori strada impostando il ricorso su basi assurde; pertanto tenta di riappacificarsi con la moglie che però non ne vuol sapere. Ben presto il lato piccante della vicenda rimane nell'ombra; gli accertamenti giudiziari pongono in chiaro un vasto giro di evasioni fiscali. Brusadelli ha un patrimonio di 50 miliardi ma paga al fisco 400 mila lire, corrispondenti a un imponibile fiscale di solo 2 milioni e mezzo l'anno, invece di pagare 230 milioni di complementare e 3 miliardi di patrimoniale. A questo punto le indagini fiscali si allargano a Giulio Riva e ad altri industriali tessili. Si scopre così che Riva, residente nel comune di Saronno amministrato dalla DC, con un patrimonio di 65 miliardi paga su un imponibile di solo 3 milioni l'anno. Franco Marinotti, ancora più potente di Brusadelli e di Riva, patrimonio 120 miliardi, paga al comune di Milano su un reddito di solo 11 milioni. Grosse evasioni anche dalla Cucirini Cantoni, dal Cotonificio Olcese, dalle Manifatture Rossari, dal Cotonificio De Angeli, al quale è legato il ministro socialdemocratico dell'Industria e commercio, Ivan Matteo Lombardo. Il Governo, nel quale oltre al Lombardo siede come ministro del Tesoro Giuseppe Fella, esponente dell'industria tessile del biellese, tenta di arginare le conseguenze dello scandalo, anche perché, come visto, Brusadelli e gli altri evasori sono in gran parte sostenitori della Democrazia Cristiana.
Nonostante l’insabbiamento questa nuova disavventura mina Brusadelli nella salute provocandogli un infarto e la paura di una condanna lo decide a rifugiarsi a Lugano da dove rientrerà saltuariamente solo alla fine degli anni ’50 dopo aver risolto la sua situazione giudiziaria. Nel 1960 il suo vecchio socio Giulio Riva muore per sopraggiunte complicazioni dopo un'operazione di appendicite; allora prende la guida delle sue numerose società industriali, commerciali e finanziarie il figlio Felice Riva che sarà accusato ed arrestato per bancarotta fraudolenta. Nel 1969 Felice Riva, per sfuggire alla condanna definitiva, si rifugia in Libano, prima della guerra civile che sconvolge la regione, conducendo una vita lussuosa e la sua vicenda riempirà per anni le cronache mondane e giudiziarie italiane.
Gli ultimi anni di vita del “Brusa” sono fortemente sofferenti ma è amorevolmente assistito dalla riappacificata moglie Anna con la quale conduce ora vita ritirata. Muore a Lugano il 1 novembre del 1962 dove risiede; uno dei tanti ospiti di qualche rinomanza che sono riusciti a trovare in questa cittadina rispetto per la loro vita privata.

Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 12 maggio 2012 

mercoledì 6 giugno 2012

Naufragio Flegreo


  

Naufragio Flegreo
In un precedente numero di “Pozzuoli Magazine”, del novembre 2011, ho accennato del panfilo “Sereno” e del suo proprietario, il “cummenda” Angelo Rizzoli. Ricordando importanti ospiti del “Sereno”, tra cui lo Scià di Persia, avevo riportato il seguente tragico episodio:
Dopo il pranzo l’imperatore s'imbarca verso mezzanotte sul “Sereno”, il panfilo di Rizzoli, che l’avrebbe portato a Pozzuoli da dove avrebbe poi proseguito per Roma. All'uscita del porto è speronato da uno di quei barconi senza luce che vengono da Baia. La piccola imbarcazione cola a picco, ma anche il “Sereno” ha danni alla prua, tanto da dover essere scortato da un altra nave di Rizzoli, la Regina Isabella I°. La cosa è messa a tacere, per ovvii motivi, comprando il natante andato a fondo e facendo poi la pratica per la distruzione dello stesso.’
Questa semisconosciuta vicenda ha riacceso vivaci ricordi in uno degli ultimi superstiti di quel naufragio, il capitano Antonio Mazzella [1] allora giovane mozzo sul barcone coinvolto, che ha messo per iscritto queste sue memorie che ci riportano alla marineria di una volta, ai sacrifici, ai pericoli di chi va per mare. Nei colloqui che ho avuto con lui ho avvertito la passione e la nostalgia che questo marinaio flegreo nutre per la sua terra e per il suo mare; da qui il titolo di un suo libro nel quale raccoglierà le sue numerose avventure e sventure vissute in giro per il mondo. Mi ha parlato di tradizioni e dei soprannomi che davano alle imbarcazioni; il suo motoveliero, tipo bilancella, aveva il nome “Sentinella” ma era conosciuto come “bidone”; un'altra bilancella era conosciuta come “baccalajolo”. La bilancella [2], battello da pesca o da carico è originaria di Napoli ma si trova lungo tutta la costa dell’Italia occidentale, nella Francia meridionale e in Spagna, in diverse versioni e dislocamenti. In Spagna si chiama “Balancela”, in Francia “Bilancelle”. La bilancella italiana ha ruota di prua e dritto di poppa dritti in cascata. Lo scafo è slanciato a prua e a poppa, ha modesta insellatura ed è completamente pontato. L’alberatura è costituita da un albero verticale con vele latine semplici o a sciabecco. Un fiocco di straglio è fissato con una estremità a bompresso. La bilancella da pesca è lunga 9-12 m, mentre quella da carico può avere una lunghezza fino a 20 metri. La bilancella viene spesso utilizzata in coppia, per la pesca alla “gaetana”, con barche che procedono al “paro”, da cui la parola paranza, con una rete a strascico trainata da ambedue le barche.
Ma cedo la penna direttamente al capitano Mazzella per seguire il suo racconto.

§ Nel 1958 avevo 16 anni ed ero imbarcato in qualità di mozzo sul motoveliero “Sentinella” [3 quadro]. Il “Sentinella” era uno dei tipici velieri con motore ausiliario del golfo di Napoli che trasportavano materiali da costruzione, carbone e generi alimentari. In genere si trattava di bilancelle, magari convertite prima in cutter e poi motorizzate. La bilancella, per chi non lo sapesse, era la tipica imbarcazione a vela del golfo di Napoli, armata con un albero a vela latina. Era la versione minore della tartana. Siccome la vela latina era faticosa da manovrare col tempo fu sostituita da vele auriche, ecco quindi l’armo a cutter, e, quando il progresso fu evidente, fu installato anche un motore diesel, spesso di tipo primitivo, a testa calda.
Il 15 luglio 1958 caricammo del brecciolino a Marina di Puolo, presso Massa Lubrense, nella penisola sorrentina. Alle 20,00 salpammo per Ischia, dove il carico era destinato. Il 30% del carico lo mettevamo in coperta, la stiva non si chiudeva mai. In coperta, tra la mastra del boccaporto e la murata, venivano sistemati dei pannelli altrimenti il mare si prendeva il carico. Era normale per queste barche, caricate in maniera inverosimile, navigare con il trincarino immerso nell’acqua; quindi si navigava sempre con 30 centimetri di acqua in coperta. Questo carico era molto scorrevole e, se si navigava con mare al traverso, si rischiava uno sbandamento, o peggio…
Come se non bastasse navigavamo con i fanali spenti. Un marinaio anziano con una torcia faceva luce per segnalare almeno la nostra presenza. A bordo eravamo in sette a far parte dell’equipaggio, ma solo il comandante ed un mozzo stavano imbarcati a ruolo. Noi rimanenti stavamo “in nero”. Oltre alle mansioni di mozzo mi prestavo anche alla mansione di allievo motorista e quindi, durante la partenza e l’arrivo, la manovra giù al motore la facevo io. Anche se sono passati tanti anni ricordo ancora oggi il tipo di motore che era installato a bordo, era un Deutz da 36 cavalli vapore.
Alle 22,30 fui svegliato per prepararmi alla manovra di ormeggio, perché eravamo quasi arrivati a Ischia. Scesi nel piccolo locale dove era sistemato il motore e cominciai i preparativi. Per invertire i giri dell’elica il nostro motore portava una leva lunga circa un metro innestata sulla frizione. Sulla frizione c’era una fascia metallica che in navigazione andava allentata altrimenti si surriscaldava. Quindi per prepararci alla manovra e ad invertire la marcia avanti o indietro iniziai a stringere la fascia. Verso le 23,00 ci trovavamo già nell’avamporto di Ischia quando dal porto vedemmo uscire il “Sereno” [4]. Il “Sereno” era il grosso yacht dell’editore Angelo Rizzoli, un dragamine americano trasformato in nave da diporto dai cantieri Baglietto. In seguito sapemmo che a bordo del “Sereno” si trovava ospite lo Scià di Persia, assieme allo stesso armatore Rizzoli. Il “Sereno” uscendo si manteneva sulla sinistra perché sul lato destro dell’uscita c’è basso fondale; chi è pratico del porto d’Ischia ne è a conoscenza. A Ischia, per questo motivo, vige la regola che le navi in entrata devono dare la precedenza a quelle in uscita. Ma il distratto nostro comandante, pur sapendolo, andò ad infilarsi sotto la prua del “Sereno”! Il capitano Renato Molino, comandante del “Sereno”, visto il pericolo, mise macchina indietro tutta, ma non fu possibile evitare la collisione. In pochissimi minuti il “Sentinella” si adagiò sul fondo.
Sono passati tanti anni da allora ed ancora non riesco a capire come feci a sbucare fuori dal vano motore. Appena trovatomi in acqua mi aggrappai addosso al primo marinaio che mi capitò, ma egli subito mi rimproverò di staccarmi da lui, che così rischiavamo di annegare entrambi. Me lo dovette ricordare lui che sapevo nuotare, immaginate in che stato di choc mi trovavo! Avevamo con noi un battello di servizio, una piccola lancia che portavamo sempre a rimorchio. Un marinaio più anziano, si chiamava Biagio Lubrano, che aveva con se sempre un coltello, tagliò la barbetta e liberò il battello dal “Sentinella”. Eravamo tutti salvi così, una volta imbarcatici sul battello, entrammo in porto a remi.
Rizzoli fu molto scosso dall’incidente e volle fare una regalia per compensare almeno lo spavento dei naufraghi del “Sentinella”; cacciò dal portafogli centomila lire, una cifra considerevole per quei tempi, e li diede al nostro comandante, chiedendogli di distribuirle equamente tra i membri dell’equipaggio. Anche se eravamo in sette ci vedemmo distribuire solo diecimila lire ciascuno…
Quella notte ad Ischia ci arrangiammo come meglio possibile. In porto c’erano alcuni motovelieri, mi recai a bordo di uno di essi, svegliai un mio amico e mi feci dare una camicia e un paio di pantaloni. Poi pernottai su una nave cisterna della marina militare. L’indomani mattina dovevo tornare a casa, a Monte di Procida, così mi imbarcai sul “Salvatore Marino”, una piccola motonave passeggeri che faceva servizio tra Ischia e Pozzuoli. All’arrivo a Pozzuoli mi recai alla stazione della ferrovia cumana, dove scoprii che era in sciopero. L’unica possibilità che avevo di tornare a casa fu di farmela a piedi da Pozzuoli fino a Monte di Procida, una quindicina di chilometri! Così oltre il danno dell’affondamento dovetti subire la beffa di un ritorno a casa quanto mai faticoso. All’arrivo a Monte di Procida mi rimase un’ultima incombenza da sbrigare; fui io a dover avvertire l’armatore della disgrazia avvenuta.
Il relitto del “Sentinella” rimase tanti anni abbandonato all’entrata del porto d’Ischia. Capitano Antonio Mazzella. §

Cosa posso aggiungere a questo emozionante ricordo? Dirò solo che il menzionato “Salvatore Marino” [5], costruito nel 1955 dal cantiere Ciro Massa di Torre del Greco con scafo in legno di 41 tonnellate di stazza, resta, per noi “di una certa età”, la mitica motonave legata alle giovanili escursioni isolane.
Allo stesso armatore di Procida apparteneva la quasi gemella “Margherita Marino” che negli anni ’60 cambia società e con il nuovo nome di “Raffaele Savarese” presta servizio sulla linea Castellammare / Sorrento / Capri. Successivamente è ceduta ad armatori siciliani ed impiegata sulla linea Milazzo / Isole Eolie; poi fa ritorno nel golfo flegreo assicurando nuovamente collegamenti tra Procida e Pozzuoli.
Purtroppo il “Salvatore Marino” in data 29 marzo 1985, ben ventisette anni dopo i fatti narrati dal Capitano Mazzella, viene speronato e affondato dal traghetto “Ischia Express” nel canale di Procida. A bordo dovrebbero esserci oltre trenta studenti che il “Salvatore Marino” si accinge a prelevare al Monte di Procida per riportarli all'Istituto Navale di Procida. I nove marittimi procidani imbarcati sul natante sono ripescati da alcuni pescatori che stanno tirando su le reti nei dintorni. La collisione ha un lungo strascico polemico tra procidani ed ischitani e il comandante del "Marino" riferisce: “I salvagente dalla nave ischitana ci sono stati lanciati in ritardo, male e lontano". Per il regolamento della Convenzione di Londra una nave che raggiunge un'altra deve lasciare libera la rotta al natante raggiunto. Invece, secondo la versione fornita dall'equipaggio del "Marino", l'“Ischia Express” non se ne cura tagliandogli la rotta e spezzandolo in due.
A sua volta il traghetto “Ischia Express”, 997 tonnellate di stazza, pochi mesi dopo ed esattamente la sera di domenica 17 settembre 1985 si scontra, sempre nel canale di Procida mentre è in servizio tra Ischia e Pozzuoli, con il rimorchiatore militare "Prometeo" che rientra a Napoli dopo l'annuale gita a Ventotene che l'amministrazione militare offre ai suoi dipendenti civili. Il mare è piatto come una tavola, forza zero, la visibilità ottima nonostante l'ora, le segnalazioni luminose in ordine. La prua del traghetto deforma l'intera paratia sinistra del natante militare e apre uno squarcio di oltre due metri nel settore poppiero. E’ quasi tragedia, la collisione è violentissima e provoca, oltre ad alcuni feriti leggeri, l’amputazione di entrambi i piedi e la frattura delle costole, con conseguente perforazione dei polmoni, di due anziani coniugi. Anche per questa collisione si accusa il comandante dell'Ischia Express poiché il rimorchiatore è speronato sul lato sinistro e per il codice di navigazione chi proviene da dritta deve avere la precedenza.
Tutto quanto narrato, reso attuale dalla cronaca recente, dimostra ancora una volta quanto sia pericoloso distrarsi andando per mare, seppur sottocosta.

Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 28 aprile 2012