martedì 18 febbraio 2020

Spara Forte


SPARA FORTE, PIU’ FORTE… NON CAPISCO!
La vendetta pirotecnica di un gelosissimo marito puteolano

Il titolo è lo stesso di un film, tratto dalla commedia di Eduardo “Le voci di dentro”, dove Alberto è un venditore di fuochi artificiali e di attrezzature per le feste di piazza.
Egli vive insieme allo zio Nicola, un uomo che da 50 anni ha smesso di parlare per protesta contro l'umanità; Nicola comunica solo con Alberto e lo fa attraverso i botti.
Il filo conduttore del film e della commedia è l'incomunicabilità simboleggiata dall’l'enigmatico zi' Nicola che, per disillusione delle cose umane, ha rinunciato a parlare preferendo esprimersi con una sorta di “Codice” dove le parole sono sostituite dallo scoppio di petardi.
Zì Nicola morirà nel mezzo della commedia, tornando a parlare poco prima di spirare, solo per esclamare: «Per favore, un poco di pace!».

Questa stessa incomunicabilità deve essere stata la causa dei tesi rapporti familiari in una Famiglia puteolana di metà anni sessanta.

Pasquale B., un ex marinaio di Pozzuoli, ha da tempo iniziato a protestare ed a rivolgere rimproveri verso moglie e figlia che hanno preso l’abitudine di uscire di sera.
Entrambe rientrano tardi, per innocue visite presso amiche e parenti, lasciando Pasquale solo in casa.
Esasperato Pasquale mette in atto una vendetta che sembra ispirata alla commedia di Eduardo; dissemina la casa di fuochi e, quando le due donne rientrano, accende la miccia.
Lampi, tuoni, sparatorie; sembra la fine del mondo e, in mezzo ai bagliori di questi scoppi, l’ex marinaio punisce moglie e figlia con furibondo colpi di scopa.
Le due donne, dopo l’iniziale sorpresa, tentano una disperata fuga ma, letteralmente prese tra due fuochi, si ritrovano vittime di botti e di botte. Fortunatamente le loro grida, e le fiamme che si notano fuoriuscire dall’appartamento, allertano i vicini che prontamente avvisano carabinieri e pompieri.
Questi ultimi arrivano subito e, penetrando in casa da una finestra, sottraggono le due donne alla furia del forsennato.

Questo è tutto quanto ci tramanda la copertina della Domenica del Corriere, edizione del 2 agosto 1964, disegnata da Mario Uggeri, subentrato al mitico Walter Molino.

GIUSEPPE PELUSO

lunedì 10 febbraio 2020

La Spada nella... Paranza

LA SPADA NELLA “PARANZA”
Lotta furibonda tra pescatori e pescespada
Antiche leggende britanniche narrano di una spada chiamata Excalibur; parola molto controversa che si può far risalire a due ceppi linguistici ben differenti, quello latino e quello sassone.
Oltre l’ablativo “ex” (da) c’è la parola Caliburn, arcaico nome della leggendaria spada che, riconducendoci allo stesso etimo latino, significava "acciaio lucente" o "acciaio indistruttibile", seppure storpiato da una cadenza sassone.

Più recenti leggende puteolane ci narrano di una spada chiamata Exheloppa; parola meno controversa che si può far risalire a due ceppi linguistici tra loro non tanto differenti, quello latino e quello puteolano.
Oltre il solito ablativo “ex” (da) c’è la parola Helops, che nella vecchia lingua di Puteoli significava pescespada.

Ma cosa accomuna le due parole? Presto lo rileggeremo dal “La Domenica del Corriere” del 27 ottobre del 1957 la quale riporta notizia, in prima pagina e illustrata con un bellissimo disegno del famoso Walter Molino, di un incidente avvenuto qualche giorno prima nel Golfo di Napoli.
C’è stata una lotta furibonda tra i pescatori, costituenti l’equipaggio di un peschereccio, e un inferocito pesce spada.
Un enorme pescespada, di oltre tre quintali, si è scagliato violentemente contro la paranza “Santissima Vergine” iscritta al Circondariale Marittimo di Pozzuoli.
Il grosso Perciforme ha eseguito vari “assalti” durante i quali ha rovesciato il battello su di un fianco.
I nove marinai puteolani, ovvero l’intero equipaggio, hanno ingaggiato una accanita lotta a colpi di remi ma il pescespada, incurante e non spaventato dai colpi, ha infilzato la sua lunga arma nel bordo della paranza; solo per poco non ha colpito un pescatore, presente in coperta oltre la murata.
Il grosso pesce ha poi tentato, con colpi furibondi, di disarcionare ciò che aveva speronato ma, per i continui colpi di remi che i coraggiosi marinai continuavano ad infliggergli, non è riuscito nell’intento.
Pertanto ha finito per perdere il rostro che è rimasto infisso nel fianco della paranza e, così disarmato, si è inabissato.


L’equipaggio, rimesso in sesto il natante, abbandona la campagna di pesca e fa rapido ritorno al porto di Pozzuoli, per eseguire gli addobbi necessari.
Giunti in rada l’equipaggio scende presso la banchina della Malva e racconta ad amici e conoscenti la capitata avventura che, solo per la benevolenza accordata dalla Santissima Vergine cui la paranza è dedicata, non si è tramutata in tragedia.
La spada lasciata nella murata va tolta e l’equipaggio desidera recuperarla integra per poterla offrire, come ex voto, alla Madonna.
Uno alla volta ci provano tutti, i nove dell’equipaggio, compreso l’ancor giovane comandante, però non è cosa facile; sarà la stanchezza, l’adrenalina, l’agitazione per il pericolo corso, ma la spada non esce dalla murata in cui è conficcata.
Dal folto gruppo di curiosi, accorsi sulla banchina appena venuti a conoscenza dell’insolito episodio, qualcuno consiglia si segare la spada in più parti per facilitarne l’estrazione. Ma i pescatori non sono d’’accordo, vogliono estrarla intatta per ricordo e per devozione.
Si prova ancora con l’aiuto di volontari, ma niente da fare; la spada resiste nella murata e proprio non vuol saperne di lasciare questo insolito fodero.

Dalla folla, sempre più rumorosa, echeggiano ora proposte impossibili; si consiglia di far ricorso alla energumena amazzone Maria Puteolana, che con la spada sapeva farci; oppure portare la paranza in Inghilterra per avvalersi dell’opera di un loro Re che già seppe estrarre una spada da rocce altrettanto tenaci.
Si ride, si scherza, e nel mentre dall’adiacente Borgo del Rosso s’avvicina un giovinetto, non più ragazzo ma non ancora uomo.
Nel momentaneo silenzio chiede al comandante di provare ad estrarre la spada; la folla schiamazza nuovamente e, sghignata, indica l’esile corporatura del nuovo venuto.
Questo avuto l’assenso del capitano, che lo concede con semplice movimento del capo, afferra l’estremità della spada e, dopo un attimo di suspense, la tira verso di se facendola fuoriuscire da quel legno in cui si ritrovava conficcata.

Svaniscono gli stramazzi, le risate, le battute, e parte un lungo applauso che accompagna il breve tragitto che il giovanetto subitaneamente intraprende per fa ritorno verso il suo borgo.
Non si volta indietro nel mentre il comandante della paranza vorrebbe chiedergli il nome; nessuno è certo di conoscerlo, una voce accenna che il suo nome è Arturo.

GIUSEPPE PELUSO - FEBBRAIO 2020

domenica 9 febbraio 2020

I Tre Santi Fratelli

Vita, Legenda, Passione e Miracoli dei Martiri
ONESIMO – ERASMO - ALFIO - FILADELFO – CIRINO e COMPAGNI
Un articolato Martirologio che nel III secolo coinvolge anche Pozzuoli

Fin dal seicento nel Duomo di Pozzuoli è presente una tela attribuita alla scuola del Lanfranco, probabilmente al suo allievo Giacinto Brandi [1].
Il quadro è da sempre collocato, come risulta da una delle prime relazioni, nel Coro, sul lato destro guardando l’altare. Questo lato è detto “Cornu Epistolae” [dove si leggevano le lettere, gli Atti. degli Apostoli] per distinguerlo dal lato sinistro detto “Cornu Evangelii” [dove avviene la lettura del Vangelo].
Il Vescovo Martin De León così descrive il dipinto nella relazione del 1640:
“ac S(anctorum) Onesimi, Erasmi, Philadelphi, Cyrini, et sociorum, qui in hac eadem Civitate martyrio coronati fuerunt”
[ci sono i Santi Onesimo, Erasmo, Filadelfio, Cirino e loro compagni che in questa stessa città sono stati incoronati con il martirio].

La rappresentazione è basata sulla leggenda dei “Santi Fratelli” nati a Vaste nel III secolo; Alfio, Filadelfo e Cirino che, insieme al loro cugino Erasmo, sono convertiti dal catechista Onesimo. Dopo essere stati perseguitati sono mandati a Roma e poi a Pozzuoli; qui Onesimo e Erasmo trovano la morte mentre i Tre Fratelli Alfio, Filadelfo e Cirino sono inviati in Sicilia e lì trucidati; assurgendo a Gloria e Popolarità.
Dopo il martirio Alfio, Filadelfo e Cirino sono ben presto nominati patroni di molte città che videro il loro passaggio, i loro miracoli o che accolsero loro reliquie.
Nella tela del nostro Duomo è ritratto il momento in cui l’imperatore Valeriano ordina di mandarli a Pozzuoli ma, spesso, anche tra i nostri storici c’è molta confusione sui raffigurati, sui loro primi compagni di martirio, sul loro numero e sul ruolo avuto nella vicenda dalla Puteoli romana.
Qui sono martorizzati ben quindici degli iniziali diciotto arrestati a Vaste e, quello che ci accingiamo a ripercorrere, è un complesso e articolato martirologio che vede coinvolte gli attuali centri di Vaste, Roma, Ostia, Pozzuoli, Messina. Taormina, Sant’Alfio, Trecastagni, Catania e Lentini.
In seguito devozione, reliquie e santuari sono presenti anche presso Frazzanò, San Fratello, Adrano, Carlentini, Forza d’Agrò e, tramite gli emigrati, molte città di America e Australia.
Elevato anche il numero di Martiri e Beatificati coinvolti (Benedetta, Vitale, Alfio, Filadelfo, Cirino, Erasmo, Onesimo, Mercurio, Tecla, Giustina, Alessandro Neofita, Epifana, Clonico, Stratonico, Eutropia, Eutalia, Isidora, Neofita, Agatone, Virgantino, Samuele oltre i tredici discepoli trucidati a Pozzuoli e i venti soldati uccisi a Lentini) che rendono questo martirologio più unico che raro.

Tutte questa notizie sono fatte risalire ad un documento scritto, nell’anno 960 circa, da un monaco basiliano che, per la conoscenza dei luoghi, è probabilmente originario di Lentini.
In tutto quanto racconta non possiamo fare a meno di notare somiglianze con altre “passioni” di Santi e Martiri, già note nel X secolo, delle prime persecuzioni cristiane. Somiglianze e spunti si ritrovano nella leggenda di Sant’Onesimo, vescovo di Efeso che fu lapidato; dell’omonomo schiavo greco Onesimo, convertito Paolo; di Sant’Agata e del taglio delle mammelle; ma soprattutto con i nostri Santi Sette Martiri, decollati a Pozzuoli.
Ma vediamo come il tutto ha inizio [2].


PARTE PRIMA – DA VASTE A POZZUOLI
Nell’estrema Puglia, giù nel Salento a circa 40 km da Lecce e 6 km dal mare, c’è il piccolo villaggio di Vaste che con le sue case attornia la Chiesa Madre dei “Tre Santi Fratelli”.
Nella prima metà del III secolo Vaste, che ora costituisce una frazione del Comune di Poggiardo, è una grande città chiamata Basta (Bastanon); essa è sede di una prefettura romana ed è conosciuta come la "Città dei Prefetti". Distrutta nel 1160 dal Re di Sicilia “Guglielmo il Malo”, dopo le insurrezioni nelle Puglie fomentate dell’Impero Bizantino, il nome della città da Bastanon è storpiato in Vastanon, da cui il moderno Vaste.

E’ in questa città che nascono i “Tre Fratelli Martiri”, Alfio (nel 230 d.C.), Filadelfo (un anno e otto mesi dopo), Cirino (dopo sedici mesi dal secondo). Tutti e tre sono preceduti da una primogenita che darà alla luce Erasmo, altra vittima del vasto Martirologio che andiamo a ripercorrere.
I tre fratelli sono figli di un principe, Vitale, venerato nella citata chiesa come “Santi Vitalio”, e di Benedetta di Locuste, pure venerata nella stessa Chiesa Madre ora intitolata a Santa Maria delle Grazie.                                                              
Benedetta ha indirizzato al cristianesimo i suoi figli già dalla tenera età e, per la sua Fede in Cristo, è arrestata a Vaste al tempo dell’imperatore Gaio Messio Quinto Traiano Decio. E’ condannata alla decapitazione e prima di morire, dinanzi al popolo accorso da tutte le Puglie, dice: 
"Sta scritto nel Vangelo che chi perderà la vita per Cristo in questo mondo, acquisterà la vita eterna nell'altro".

Nell’anno 253 d.C., durante l’impero di Publio Licinio Valeriano che, pur essendo figlio di Decio, è salito al trono solo dopo la breve esperienza di Gaio Treboniano Gallo succeduto a Decio nel 251 d.C., riprende la persecuzione pagana contro i Cristiani che con Gallo s’è bloccata. Intanto a Baste è mandato il Proconsole Nigellione.
Qui, nella casa del principe Vitale, esiste un ritrovo di cristiani, un Cenacolo, che sotto la guida del sacerdote Onesimo annovera numerosi discepoli [3].

Onesimo (Evodio), cittadino greco nato a Costantinopoli, è sfuggito alla persecuzione contro i cristiani e, giunto a Baste, è accolto in casa di Vitale.  Il maestro conosce il greco e il latino, così i giovanetti possono meditare le sacre Scritture ed imitarle con la loro vita.
I vicini denunciano tali riunioni e i soldati entrano in questa casa arrestando il Magister Onesimo, i Tre Fratelli Alfio, Filadelfo e Cirino, il loro nipote Erasmo e altri 13 Discepoli. Tirati per i capelli sono portati davanti al prefetto Nigellione e, interrogati, tutti affermano di essere Cristiani e di aborrire le divinità pagane.
Il tiranno, sdegnato, ordina di rompere le mascelle ad Onesimo e di appendere i tre giovani per i capelli per un giorno intero e di rinchiuderli poi in un’oscura prigione.
Queste torture non sono sufficienti a piegare la fede in Dio dei prigionieri e Nigellione decide di mandarli sotto scorta, attraverso la via Appia, a Roma.
Nella capitale sono rinchiusi, per sette lunghi giorni, nel Carcere Mamertino con pesanti catene che impediscono loro di muoversi.
Durante la prima notte appaiono loro gli apostoli Pietro e Paolo, si narra che in questo stesso luogo sono stati anche loro prigionieri, che li confortano e li preparano alle torture che ancora li attendono.
Sono condotti davanti all’imperatore Publio Licinio Valeriano e, da lui interrogati, confermano la loro fede in Cristo ribadendo:
"Venghiamo dalla regione dei Bastani, dalla città che dicesi dei Prefetti".
Sono fatti flagellare ma non muoiono, allora Valeriano, non volendo infierire sui tre giovani fratelli, espressione di una delle più ragguardevoli famiglie dell'Impero, ma pretendendo la loro sottomissione, li manda da Diomede, a Pozzuoli (Puteoli), con l’ordine di convincerli ad abiurare e di far morire gli altri quindici con tremendi tormenti.

Dopo cinque giorni di viaggio, per terra fino ad Ostia e poi per mare, arrivano a Pozzuoli dove sono presentati a Diomede che gioisce dell’incombenza avuta per iscritto; egli è bramoso di entrare sempre più nelle grazie dell’imperatore.
Anzitutto muove i più aspri rimproveri ad Onesimo che si è fatto maestro di insane dottrine, riuscendo a sedurre così nobili giovani.
Ma il vecchio maestro risponde:
“La seduzione e l’inganno sono stati sempre aborriti dai Confessori di Colui che non può ingannare, né essere ingannato“.
Accortosi Diomede che né lusinghe né minacce valgono a distogliere quei cristiani dalla loro dottrina, ordina che venga ucciso Onesimo affinché, tolto lui di mezzo, più facilmente gli altri possano indursi a rinnegare la loro Fede.
Disteso Onesimo per terra, i carnefici gli fanno cadere dall’alto un enorme masso, che gli stritola le carni e le ossa facendo spirare la sua anima.
I discepoli di Onesimo anziché scoraggiarsi per la morte del maestro, si animano ancora a soffrire del desiderio di unirsi eternamente con Dio. Modi persuasivi e minacce sono tentati da Diomede per indurli a bruciare l’incenso alle divinità dell’impero, ma tutto torna inutile.
Perduta quindi ogni speranza di riuscita, il perfido tiranno proferisce, con tono infernale, la sentenza di pena capitale per Erasmo e gli altri tredici discepoli, ma non per Alfio, Filadelfo e Cirino; secondo gli ordini ricevuti da Valeriano.
La sentenza pertanto è eseguita in un’ampia pianura presso la città [Piana Campana?] alla presenza di numeroso popolo.
I tredici discepoli si mostrano degni del maestro Onesimo, morendo con la lode di Dio sulle labbra. Erasmo è riservato per ultimo con la speranza che, intimorito, inizi ad adorare gli dei pagani, ma, resistendo fermo nella Fede, anche lui ha infine il capo mozzo.

Dei diciotto cristiani restano solo i figli di Vitale e Diomede tenta ogni mezzo per guadagnarli all’idolatria. Li fa condurre nuovamente alla sua presenza e usa i modi più gentili che l’astuzia gli suggerisce per farli apostatare. La nobiltà della stirpe, la bellezza, l’ingegno, gli onori di corte e l’amicizia dello stesso Imperatore sono gli argomenti adoperati con insistenza e insinuazione affinché possano cedere.
Ma Alfio, Filadelfo e Cirino sanno che tutte le gioie e le grandezze del mondo si dileguano presto e sono un nulla al confronto del gaudio celeste. Il Preside allora, con atteggiamenti di tenerezza si mette a descrivere gli atroci tormenti a cui vanno incontro in Sicilia, dove saranno inviati per ordine di Valeriano, ma i tre sanno che è necessario bere il calice amaro di Gesù Cristo per entrare a far parte del suo regno.

I Tre Fratelli, risparmiati dalla morte, sono comunque torturati poiché Diomede ordina che a colpi di sasso siano straziate quelle bocche da dove sono uscite parole ingiuriose verso i Numi dell’impero.
Spietati carnefici danno subito esecuzione alla sentenza e quelle labbra adorne di grazia, quelle tenere gengive e quei denti di candido avorio sono subito laceri e rotti. Pesti in volto e grondanti sangue sono buttati in un’orrenda prigione, così stretta e scura da somigliare ad un sepolcro, con i piedi serrati nei fori stretti di pesantissimi ceppi.
In tale tormentosa posizione restano a Pozzuoli otto giorni dopo di che Diomede li manda da Tertullo, in Sicilia, con una nave e sotto la scorta di 50 soldati capitanati da Silvano [4].


PARTE SECONDA – DA POZZUOLI A LENTINI
Il 25 agosto del 252 d.C. sbarcano a Messina e dopo due ore, scalzi e incatenati, sono avviati a Taormina, nella quale città in quei giorni si trova Tertullo. Esso è un generale, patrizio romano e preside dell'isola, che ha acquistato fama di funzionario integerrimo ed autoritario. Ha diverse dimore in Sicilia, quella preferita è nel grandioso palazzo in Lentini (Leontini) che si eleva su delle grotte. Inizialmente Tertullo si mostra gentile e premuroso, fa togliere le catene e poi chiede loro chi sono e quale religione professano.
I Tre Fratelli rispondono:
”Alfio, Filadelfo e Cirino noi ci chiamiamo e adoriamo il Dio dei cristiani”.
A questa risposta Tertullo, furibondo, ordina che gli siano rasi i capelli, siano legati per le spalle ad una grossa trave, e sia versato sui loro capi pece bollente. Poi li affida a quaranta soldati a cavallo capitanati da Mercurio e così, con i volti deturpati sotto il sole cocente, per suo ordine dovendosi assentare, sono spinti verso Lentini. 

Il 28 agosto del 252 arrivano sulle alture di Mascali e nei pressi di un abitato, oggi chiamato Sant’Alfio in ricordo del più grande di loro, Filadelfo sviene e sta per morire. I fratelli si mettono a pregare e allora avviene un miracolo; a ridosso di una roccia vedono apparire un vecchio, si dice sia l’apostolo Andrea, che li libera dalle travi e li guarisce dalle bruciature.
Così, tra la meraviglia dei soldati, riprendono il viaggio seguendo la via della montagna poiché la strada del mare è stata interrotta da una colata lavica dell’Etna [5].

Passano per Trecastagni dove si fermano e riposano; lo stesso nome della cittadina ha probabilmente origine dalla cattiva pronuncia dell'espressione "tre casti agni", cioè “tre casti agnelli”, nome con cui i Tre Fratelli sarebbero stati originariamente indicati.
A loro memoria, e sul luogo dove riposarono, in questo paese è eretto il “Santuario dei Santi Martiri”. Alfio, Filadelfo e Cirino sono oggi i Santi Patroni anche di questa località [6].

La comitiva riparte e alla fine di agosto, di sera, giunge a Catania dove appena un anno prima Sant’Agata ha subito il Martirio sotto il Preside Quinziano, cui Tertullo è succeduto.
I Tre Fratelli passano la notte rinchiusi in un Carcere dove oggi sorge la Chiesa “Immacolata ai Minoritelli”. Una lapide marmorea ricorda il loro passaggio, come pure un quadro e tre statue che li raffigurano.

All'alba riprendono la marcia per Lentini e lungo il percorso debbono attraversare il fiume Simeto che però è in piena; vi sono spinti dentro da otto soldati fanatici pagani. Per miracolo il fiume abbassa il suo livello ed essi possono facilmente raggiungere l’altra riva; subito dopo riprende forte la piena e gli otto soldati, che li hanno spinti e poi seguiti, annegano tra le correnti fluviali.
Gli altri soldati restano sulla prima sponda e debbono aspettare ben quattro giorni per poter passare [7].

Il 2 settembre dell’anno 252, di Mercoledì, i Tre Fratelli, scortati dai superstiti trentadue soldati, giungono a Lentini nel luogo detto il Palmiere.
Qui un giovinetto ebreo, impossessato dal demonio che lo trafigge con feroci dolori, viene da loro guarito; dopo aver assistito a quest’ultimo miracolo venti Soldati, fra cui lo stesso comandante Mercurio, si convertono alla fede e si spogliano delle armi.
I Tre fratelli, e i soldati convertiti, riprendono la marcia verso il centro della città di Lentini dove vive una nobilissima matrona, di nome Tecla, educata alla fede cristiana. Essa si trova a letto per una misteriosa malattia che la paralizza ma, quando sa della presenza in città dei Tre Fratelli, li fa venire nella sua casa e, per loro intercessione, ne ottiene la guarigione.
A Lentini vive anche Giustina, cugina di Tecla, cieca in un occhio; pure Giustina è prontamente guarita da Alfio.
Ma Alessandro, il Vicario di Tertullo, fa trascinare i Santi e i venti Soldati nelle grotte sottostanti il Palazzo che è Sede Pretoriale della Sicilia. In seguito una di queste grotte, ritenuta adibita a prigione dei Tre Martiri, sarà detta la "Grotta dei Santi".

Nel dicembre del 252 Tertullo rientra a Lentini e si meraviglia di trovare i Tre Fratelli tuttora vivi; tenta ancora di persuaderli ma, visto che la loro fede non cede, ordina di praticargli le più atroci torture. Però ogni volta ritrova i fratelli miracolati e in buona salute, e questo anche grazie all’aiuto di Tecla e di Giustina, che nottetempo, corrompendo le guardie, prodigano loro cure e conforto.
Furibondo Tertullo fa decollare, nel luogo dove oggi sorge la Chiesa della Madonna della Catena, i venti soldati convertiti; inoltre presso Palagonia fa tagliare la testa a molti Ebrei convertiti e a sette fanciulli che inneggiano alla fede di Cristo.
Il tiranno ordina che i Tre Fratelli siano rinchiusi in una stanza, con guardie fidate questa volta, e lasciati morire di fame; qui dopo tre giorni sono stremati ma poi, quando si addormentano, hanno in sogno una apparizione che li guarisce.
Proprio Alessandro, il Vicario di Tertullo, una notte vede nel Carcere una gran luce soprannaturale; dal buco della serratura scorge Sant'Andrea Apostolo, sceso dal cielo, confortare i Tre Santi e poi vede Tecla e Giustina entrare con riserve di viveri mentre le porte si aprono da sole [8].

Alessandro si converte alla fede dei Cristiani e fugge allo Sperone; Tertullo fa arrestare sua moglie Epifana per conoscere il luogo del nascondiglio.
Invano, Epifania tace e non cede alle losche brame del tiranno che la fa uccidere tagliandole le mammelle, come a Sant'Agata.
Il corpo di questa Santa Martire, Epifana, è raccolto da Tecla e riposto nello stesso Sepolcro dove saranno accolti i Tre Fratelli.
Intanto Tertullo, invaso da autentico furore, li fa spogliare e, legati mani e piedi, li fa trascinare per le vie della città. Alla fine visto che la loro fede non barcolla, anzi si rafforza di tortura in tortura, decide di ucciderli.
All’alba del 10 maggio 253 il tiranno fa girare i Tre Fratelli nudi e a piedi scalzi i colli e le vie della città e poi li fa portare al Foro, la cui piazza è gremita di folla.
Tertullo, ammantato di Porpora e attorniato da Consiglieri e da numerosi soldati, fa tradurre i Tre Fratelli e tenta per l’ultima volta di persuaderli:
"0 vi piegate agli dei di Roma o presto sarete uccisi: Decidete!"
Alfio risponde per tutti:
"Noi siamo Cristiani! Fa su di noi quello che tu vuoi, inventa strumenti di tortura; noi saremo sempre fedeli a Gesù Cristo, Figlio di Dio vivente".
Filadelfo e Cirino confermano:
"Nostra madre ci ha dato l'esempio; essa è beata in Cielo; il maestro Onesimo, il nostro nipote Erasmo e altri 13 Compagni sono stati sacrificati a Pozzuoli; Mercurio e i suoi soldati decapitati da te o Tertullo; altri nelle contrade di Lentini; e noi dovremmo piegarci a te?"
Tertullo furente, si alza agitato, si consiglia coi suoi ed esclama:
"Nel nome dell'Imperatore di Roma, ordino di strappare la lingua ad Alfio e buttarla in quel pozzo aperto [dove sorgerà la Chiesa della Fontana]; Filadelfo sia steso su quella graticola ardente; Cirino sia tuffato nella caldaia di pece bollente."
Mentre i Tre Fratelli spirano tutti vedono Angeli che dal cielo portano corone che posano sulle teste dei Tre Santi Martiri.
E così che i “Tre Santi Fratelli” salgono in cielo nel regno di Dio. Nella notte i loro corpi sono depositati da Tecla e Giustina allo Strobili dove ancora oggi si venerano i loro iniziali Sepolcri [9].

Quel giorno Cleonico e Stratonico, due giovani Leontinesi presenti al sacrificio, gridano contro il tiranno accusandolo di crudeltà.
Tertullo subito li fa arrestare e fa strappare anche le loro lingue, buttandole in altri pozzi ancora oggi meta di pellegrinaggi.


EPILOGO
Qualche anno dopo, il 14 luglio del 257 d.C., le spie avvertono il Tiranno che Alessandro, dopo aver incontrato Agatone, Vescovo di Lipari anch’esso in fuga da Tertullo che vuole ucciderlo, si nasconde nel Monte Pancali (un antico vulcano spento).
Tertullo esce a cavallo insieme ai suoi Consiglieri per arrestarlo; giunti nella contrada detta Cillepi scorgono una belva che appare loro improvvisamente, fanno per inseguirla ma tutti insieme cadono in una vallata dove sono divorati dai lupi, numerosi in questi territori. Tuttora questo luogo è conosciuto come la "Valle di Tertullo".
Così salvo, Alessandro ex Vicario di Tertullo, diventa il primo Vescovo di Lentini e sarà ricordato come San Neofito.

Alla notizia della morte di Tertullo prende il comando della Città il Capo dei Sacerdoti di Cerere, Serviliano che odia la madre Eutropia e la sorella Eutalia per la loro fede in Cristo.
Nella piazza di sua mano taglia la testa alla sorella Eutalia ma diventa cieco e muore subito dopo. Anche il corpo di Santa Eutalia è portato nella Cripta dei Santi dalla madre Eutropia, dal fidanzato di lei, da Tecla e da Giustina.

Santa Tecla in un clima di distensione religiosa costruisce tre Chiese a Lentini; una sul Sepolcro dei Martiri ove oggi vi è la Chiesa ex Cattedrale; una a San Giuliano dove seppellisce la madre, Santa Isidora, la zia Santa Neofita e i 20 soldati martiri; una terza chiesa nella contrada di Santa Maria la Cava.

Ancora qualche anno dopo il Rabbino ebreo di Lentini, Samuele, giace abbandonato ed è soccorso solo dalla moglie e dai sette figli perché affetto dalla lebbra.
Santa Eutropia lo presenta dinanzi al Sepolcro dei Santi e il Rabbino subito guarisce; convertitosi alla Fede Cristiana diventa il secondo Vescovo di Lentini.

 La Diocesi di Lentini dura sino alla conquista araba e cessa per la fuga dell'ultimo Vescovo, di nome Costantino. Questo Vescovo si rifugia a Fragalà Etneo, in un convento di Basiliani di cui è anche abate, portando con se le Reliquie dei Martiri per salvarle dalla imminente invasione dei Saraceni.
In seguito, con l’avanzare dei Musulmani, le trasferisce nelle grotte sotto il convento di Alunzio; qui se ne perdono le tracce dopo la distruzione avvenuta da parte dei Saraceni. Dopo l’anno 1000, con la liberazione della Sicilia per opera dei Normanni, le Reliquie sono ritrovate durante la costruzione di S. Filadelfo (oggi S. Fratello) ad opera di soldati e coloni Lombardi al servizio dei Normanni. Sono ritrovate racchiuse in casse ferrate, con gli atti del martirio manoscritti in greco, e subito portate ai Basiliani di Fragalà.
I monaci danno una porzione delle ossa di S. Filadelfo alla nuova città che perciò è così chiamata in suo onore.
Il resto delle Reliquie è murato sotto il parco di una chiesa accanto al Convento e in seguito se ne perdono le tracce per la successiva rovina di questa comunità.
Nel 1387 sono ritrovate, durante i restauri di detta chiesa, e di nuovo murate sotto un altare e nuovamente se ne perde la memoria.
Il 22 Settembre 1516 le Reliquie sono di nuovo ritrovate ed esposte solennemente alla venerazione dei fedeli; nel contempo le tre calotte craniche sono donate al Monastero del S. Salvatore di Messina, dove risiede l’Archimandrita dei Basiliani, che ancora le custodisce.
Il 31 agosto del 1517 i Leontinesi, saputo del rinvenimento, assaltano con una poderosa e ardita squadra di cavalieri il convento di Fragalà e si impadroniscono con la forza delle reliquie colà custodite riportandole, con solennità, definitivamente a Lentini [10].


GIUSEPPE PELUSO

REFERENZE
C. Randello – Sant’Alfio Martire – 2001
Lame – Vita, Martirio e….. – Adrano - 2016
S. Troianini e L. La Mela – Turismo religioso sui passi dei Santi
A. Bonfiglio – Il paese nativo dei Santi Alfio, Filadelfo e Cirino - 1976
Makiko Kawai – Un ipotesi per la ricostruzione iconografica del Coro del Duomo di Pozzuoli - 2014