martedì 28 giugno 2016

Viaggio sulla vecchia cara Cumana



Viaggio sulla vecchia cara Cumana
Tra emozioni e ricordi

La Ferrovia Cumana, fin dalla sua inaugurazione nel 1889, ha la stazione iniziale a Napoli in piazzetta Montesanto e, causa il ristretto piazzale, una porzione di binari si ritrova già in tunnel [1].
Il treno, appena parte, s’inoltra nella galleria Sant’Elmo e, oltrepassata questa collina, sbuca al Corso Vittorio Emanuele dove incontra la prima fermata.

Lo scrittore e giornalista napoletano Antonio Scotto di Uccio così descrive le sensazioni provate nei suoi viaggi su questa vecchia ferrovia:
«Il trenino della Cumana era un nostro amico dell’estate. Quando, alla fermata del Corso, lo vedevamo sbucare sbuffando proveniente da Montesanto di sotto ad un tunnel che sembrava, a noi giovanissimi, come un tremendo Moloch, era una corsa allegra [2].

Scattavamo come saette per conquistare il posto (e si andava in prima!) che cedevamo alla mamma ed alle sue amiche; noi preferivamo, poi, andarcene sul terrazzino; il vecchio belvedere.
Per goderci la passeggiata, il tran tran sulle ruote non molto veloce, a far finta di nulla ma notare qualche coppia appena più adulta, furtivamente pronta ad intrecciare le mani nelle mani.
Paragonarle a quelle odierne dei trenini elettrici; il capostazione dal berretto rosso, il cancelletto dipinto di verde per l’uscita, le siepi di fiori profumati.
Fiori semplici di stagione con certe ortensie multicolori che davano il capogiro, l’immancabile seriosa coppia di carabinieri.
Non era veloce il nostro amico trenino. Ma ci concedeva il lusso del chiaroscuro; un tunnel breve; uno spicchio di sole; un tunnel più lungo; una panoramica di azzurro fatta di mare e cielo a contatto.
Tecnicolor della più pura luce. Un regista, un fotografo, uno scenografo di quelli moderni non avrebbero potuto far meglio. Aveva pensato a tutto l’alchimista dell’Universo. . .
La fermata delle Terme Puteolane, ad esempio. Ecco una cartolina che abbiamo nell’album dei ricordi. Una specie di sogno. Giù si sentiva Pozzuoli, alveare di odori di pesce fresco e fritto, ma, durante la sosta, osservavamo come affascinati; piante esotiche, scalinatelle che si intrecciavano, ombrelloni su spiazzi ampi di terrazze fatte a balconate, lumi colorati. Predominava il rosso mattone. Un rosso di lusso; come un pugno nell’occhio, ma dato con stile.
C’era ancora un tratto di ferrovia, se ben ricordiamo lungo la Pietra, con altri tunnel che si intrecciavano, ed il fischio della locomotiva accompagnava l’uscita mentre si scorgeva, d’improvviso, un tratto di strada che sfiorava il mare [3].


Esisteva un intermezzo di verde costituito da canne di bambù o di viti, di frasche rilucenti e di erbe selvagge; quale contrasto. E poi l’incantesimo della visione; la barca a vela ondeggiante pigramente, una specie di paranza che si dondolava. C’erano anche spruzzi di fichi d’india invidiati. Li avremmo voluti cogliere al volo. Ci avvicinavamo, così, alla meta; alla parte, a quel tempo dell’anteguerra, più bella della nostra Napoli.
Quando il treno si fermava a Lucrino, era fatta. E bisognava attendere le prime ore della sera per rifare il cammino a ritroso ed a volte con la luce diffusa di una luna inviolata piena di sospiri, di occhiate amichevoli, di strizzatine, di quelle che sembravano occhi per una carezza fugace.»

Il 9 giugno 1898 escursione classica per gli alunni del convitto Vittorio Emanuele II di Napoli.
«Alle 6 del mattino gli studenti, accompagnati anche dal distinto prof. Giuseppe Mercalli, escono dall’edificio di Piazza Dante avviandosi alla stazione della Cumana [4].

Il treno partì e circa un’ora dopo, alla stazione del Lucrino, la comitiva scendeva per incominciare l’escursione a piedi. La prima visita fu alle Stufe di Nerone, con spiegazione del fenomeno da parte del Mercalli che fece notare le analogie, e le opportune differenze, con le stufe di San Germano, la Grotta del Cane e la Solfatara.
Poi ci si prese a camminare verso Pozzuoli: si visitò il Serapeo, dove il prof. Mercalli mostrò le perforazioni subite dalle tre colonne, si proseguì quindi per la Solfatara, il cui proprietario cav. Eugenio De Luca concesse l’ingresso gratuito, e si eseguirono vari esperimenti chiaramente spiegati sempre dal professor Mercalli.
Tutti, lasciando il luogo, vollero portare con se un pezzettino qualunque di materiale che fu oggetto di lunghi dibattiti nelle carrozze della Cumana durante il ritorno a Napoli.»

Edoardo Salzano, ingegnere ed urbanista nipote di Armando Diaz, così scrive nel suo libro “La lunga infanzia”:
«A volte, d’estate, quando stavamo in città ci portavano al mare. Ricordo il viaggio verso Lucrino, una grande spiaggia pulitissima e deserta. Percorrevamo a piedi un pezzo del Corso, fermandoci dalla drogheria Stinca a comprare le caramelle, e raggiungevamo, subito dopo la casa di Luigi Massaro, la stazione della ferrovia Cumana. Era divertente guardare dal finestrino il paesaggio prima urbano poi, dopo Pozzuoli, aperto sulla Baia. Come tutti i bambini, raccoglievamo conchiglie, facevamo i castelli di sabbia, prendevamo il bagno nelle ore stabilite e ci facevamo asciugare dai grandi lenzuoli a spugna.»

Nel 1932 la stampa enfatizza sul buon cuore fascista che non trascura i bisognosi. Così riporta:
«Alla presenza delle autorità cittadine, dalla stazione della Cumana di Napoli è partito il primo treno delle vacanze per la colonia estiva di Arco Felice [5].

Spettacolo indimenticabile; sventolava il tricolore, la banda suonava gli inni della Patria, i babbi e le mamme agitavano i fazzoletti per salutare i loro piccini.
Intervistato, un povero bimbo, figlio di un falegname, ha suscitato la commozione degli astanti dicendo:
“Oh, quanto son grato a Sua Eccellenza Mussolini! Io non ero mai stato in treno, e nemmeno in funicolare!»
Ancora fino a tutti gli anni ’30 erano in voga le “ottobrate”, una sorta di scampagnata fuori porta organizzate, spesso, dal Dopolavoro Provinciale del Partito Nazionale Fascista. Tutti insieme si partiva dalla stazione Cumana di Montesanto e si raggiungeva quella del Fusaro, vicinissima al lago ed alle sue peschiere, a rinomati o meno ristoranti, a estesi prati [6].


Antonio Buonomo, nel suo libro “L’arte della fuga in tempo di guerra”, così parla del nonno e della Cumana:
«Di lui ho un ricordo stupendo!
Amava molto il suo lavoro di capotreno della Ferrovia Cumana e spesso mi portava con sé sul treno.
Durante quei viaggi avevo avuto modo di vedere come mio nonno fosse stimato e amato da tutti quelli che lo conoscevano. Sui treni della Ferrovia Cumana viaggiavano vaste categorie di commercianti che trasportavano derrate alimentari; pescatori, ortolani, salumieri, ecc.
Lui cercava sempre di facilitare il loro lavoro, facendo il suo senza essere mai eccessivamente fiscale.»

Sia i pescatori (generalmente di sciabica i quali dividevano tra loro il pescato che vendono in proprio casa per casa) che i pescivendoli erano quasi tutti puteolani.
Ancora ricordo il loro coreografico assalto mattutino ai treni della Cumana presso la stazione di Pozzuoli; le urla, gli spintoni, le precedenze mai rispettate e... il coro finale quando il convoglio partiva lasciando a terra qualche tinozza o delle cassette col rispettivo proprietario.

Il citato Buonomo così continua i suoi ricordi, in piena guerra:
«Dopo aver dormito qualche notte sui marciapiedi del tunnel della metropolitana, per ragioni di vicinanza, ci trasferimmo sotto al tunnel della Cumana; una ferrovia suburbana che collega la città di Napoli con la costa Flegrea. Il tunnel era da preferire perché aveva due uscite; mentre i rifugi sotterranei, durante i cosiddetti “bombardamenti a tappeto”, potevano essere bloccati dalle macerie dei palazzi soprastanti.
Conoscevo molto bene la Ferrovia Cumana, perché me ne servivo spesso, sia per andare a trovare i miei nonni sia per andare al mare d’estate.
Quello che colpiva la nostra fantasia di bambini erano i due treni diretti per Lucrino (detto anche Lido di Napoli); uno tutto bianco e l’altro azzurro [7].»

Questa idea innovativa della cumana non deluderà, rivelandosi utile sia per i cittadini sia per i turisti, tanto da incentivare l’idea di un biglietto che non solo garantisca il viaggio ma anche l’ingresso agli stabilimenti balneari posti a pochi metri dalla stazione di arrivo. Col tempo arriva anche l’idea di un titolo di viaggio con un pacchetto più vasto; nel costo del biglietto, oltre al viaggio di andata e ritorno e l’ingresso agli stabilimenti balneari, sono previste escursioni, visite guidate e pranzo compreso.
I napoletani possono definirsi quindi i precursori di un’epoca moderna, quella delle offerte vantaggiose oggi definite “all inclusive” [8].

I miei primi ricordi di questa ferrovia risalgono agli anni cinquanta; d'estate si andava con la Cumana a fare i bagni a Torregaveta, al Lido Fusaro in cabine concesse a prezzi modici ai dipendenti del Silurificio di Baia, come lo era mio Padre.
Più spesso, con tutta la Famiglia, s’andava a Napoli per gli acquisti importanti, per la Piedigrotta, per i Presepi.
Ci sono due odori che mi ricorderanno sempre quel tempo; la frittata di maccheroni, il piatto classico da spiaggia del napoletano e l'odore misto di treno e panzarotti che ancora adesso, se si cammina per Montesanto e si passa vicino alla Cumana, ti riporta a quei tempi.
E m’è rimasto impresso anche il fumo passivo che, nelle umide giornate con i finestrini ben serrati, invadeva l’intero treno quando non esisteva il divieto.

Lucio Musto, in un blog napoletano, così racconta:
«Da Fuorigrotta prendevamo la Cumana che ci portava a Lucrino o ad Arco Felice o ancora a Torregaveta. Salivamo sulla Cumana carichi di vettovagliamenti, ruoti di maccheroni, insalate di pomodoro; c’era di tutto. In quegli anni il periodo più lungo lo trascorremmo al ”Lido Fusaro” [9].

Era uno stabilimento balneare molto bello che si trovava sul tratto iniziale de “la spiaggia romana”, partendo da Torregaveta. L’ingresso era formato da un edificio circolare che comprendeva gli uffici, il bar ed una grande sala in cui c’era il bigliardino e soprattutto il juke-box che spesso faceva da sottofondo ad alcuni ballerini che accennavano qualche ballo di coppia o di gruppo. All’epoca non c’era bisogno di fare scuola di danza, chi aveva voglia di ballare, o cercava nel ballo la possibilità di fare “acchiappanza”, si buttava senza vergogna, per la gioia di noi ragazzi che ci divertivamo a guardare quei Fred Astair e Ginger Roger nelle loro coreografie valorizzate dai costumi da bagno. Sono trascorsi solo cinquantacinque anni ma sono tanti.»
  
Sul blog del puteolano Giuseppe Caso, troviamo:
«Arrivavo a Bagnoli ogni mattina con la Cumana, che aveva ancora i vecchi convogli con motrice e carrozze di colore rosso e crema, e ne ripartivo con la stessa all'uscita da scuola. Sulla stazione iniziai a notare, in quello stesso autunno del 1960, una ragazza che mi colpì particolarmente per il suo aspetto. Questa bambina, perché tale era avendo solo 12 anni, frequentava la mia stessa scuola e utilizzava anche lei la Cumana, ma in direzione opposta alla mia. In seguito scoprii che proveniva da Fuorigrotta e lei poteva usufruire, diversamente da me, anche di una navetta, una specie di “littorina”, che ogni dieci minuti intercalava le corse con i normali convogli come quelli diretti verso Pozzuoli. Questa “littorina” acquisterà poi grande rilievo nel prosieguo dei miei ricordi [10].»


Salvatore Savino, nel suo “Il ragazzo di via Enrico Alvino”, così scrive:
«Scoprii così nuove spiagge, anche lontane dalla città. Come Arco Felice, e le pulitissime acque del Lido Napoli di Lucrino, che raggiungevamo con il treno della Cumana.
Durante il non breve viaggio parlavamo di scuola, dei libri di lettura, dei nuovi film visti o da vedere e dei nuovi attori americani. Poi giunti al Lido, giù in acqua con lunghe nuotate a raggiungere la Torre di Pulcinella, forse un antico faro allora non più attivo, situata in mezzo a quell’arco di mare e utilizzata da noi come trampolino per i tuffi.»

Sul Forum “Napolifans” c’è questo interessante intervento di Carlo Orso:
«La mattina mi svegliava una lama di luce dalle persiane. E subito avvertivo quel languore, la sottile leggerezza del vivere una vita unica e irripetibile tra le braccia di una donna. Con lei andavo spedito alla stazioncina della Cumana al Corso Vittorio Emanuele e (tra una folla fragrante di mare, una giovane ciurma allegra e gentile, munita di pinne, tamburelli, palloni e sacchi da spiaggia odoranti colazioni a base di mortadella, cotolette o cozzetti riempiti di cianfotte) in compagnia di tale piccola umanità del Paradiso, andavo a fare il bagno al Lido Napoli di Lucrino.
Quel vagone (me lo ricordo bene, proprio oggi che qui nevica a fiocchi ampi e leggeri) risuonava di voci, risate e chiacchierine, e pur essendo ciascuno sull'altro, aggrappati a ganci o a corrimano, nessuno si permetteva di sbuffare al vicino; di felicità per la vita, per quella vita, ce n'era in abbondanza per tutti. Ricordo ancora, io sì che mi ricordo, una signora occhialuta, alta e magra, che indossava un vestitino celeste con i fiori arancione. Saliva sul treno in compagnia di una bimba ciotta ciotta e di un ragazzetto pasciuto e cretino che piangiucchiava senza una ragione. La signora portava una gran sacca a tracolla e sotto il braccio una di quelle sedioline pieghevoli in legno che, fattosi un po' di spazio tra la gente, apriva di scatto per sedercisi sopra. Dalla nuova altezza canticchiava coi suoi bambinetti "perchè perchè, la domenica mi lasci sempre sola".
Man mano che la meta si avvicinava il chiacchiericcio si infittiva, sentivi nell'aria l'eccitazione di quando il mare si approssima. Nell'ultimo tratto la botta al cuore, dopo un tratto in galleria, lungo il quale risate e chiacchierine accusavano il picco, improvviso il silenzio. Lasciata la stazione di Arco Felice la Cumana sfrecciava all'aperto e sotto i nostri occhi incantati scorreva il lido di Lucrino [11].

Erano attimi di gioia cristallina; il mare! il mare! e il mare ci accoglieva paterno con le note di “Azzurro”, la canzone di Celentano che impazzava quell'estate.
Addio Napoli, e forse addio vita vera. Addio per sempre.»

Amalia Galante, nel suo “La signora dagli occhi di viola”, così scrive:
«L’estate era arrivata con molto anticipo quell’anno. Messi da parte piumoni e poullovers s’indossavano abiti chiari, allegri camicioni.
Martina accettò l’invito di Rosetta di recarsi con lei al mare e verificò che nel borsone vi fosse tutto l’occorrente. Mancavano le creme solari, ma sapeva che Rosetta ne aveva una scorta.
“Andiamo a Lucrino?”
“Per me va bene, senza macchina però, prendiamo la Cumana a Montesanto.”
Da molti anni mancava dal Lido Napoli. Era uno stabilimento di pietra. Un lungo nastro di cemento separava le cabine per famiglia, grandi spaziose, con una terrazzina coperta, dagli spogliatoi in muratura.
Il proprietario del bagno aveva predisposto ad una certa distanza dall’arenile una zattera dalla quale ragazzi e ragazze si tuffavano con le più inverosimili esibizioni.
Martina nuotava bene allora, arrivava senza sforzo alla tomba (sic) di Pulcinella, il bianco tempietto che si ergeva come un faro.
Chiassoso il treno dei bagnanti stipato quasi esclusivamente di giovani.
La piccola comitiva di allora non sostava nella carrozze, era fuori, nel breve abitacolo che le precedeva a godere del vento che scompigliava i capelli, dei baci furtivi nelle lunghe gallerie, di strette rapide che i sobbalzi della carrozze in fila rendevano sempre audaci…[12].

Non erano molti i viaggiatori quella mattina. L’estate non aveva ancora sfoderato l’irresistibile desiderio di denudarsi, di sentirsi finalmente liberi da moralistiche sovrastrutture imposte dall’inclemenza della stagione invernale.
Ancora pochi i bagnanti al lido.
Martina si provò il costume, avrebbe dovuto pensarci! Le andava stretto, erano più di tre anni che non andava al mare, lo tirò verso l’alto, poi verso il basso, lo strapazzò, lo tese, non cedeva di un millimetro.
Lo avrebbe indossato ugualmente, non poteva consentire che un lembo di stoffa condizionasse la giornata che si era guadagnata con caparbia volontà.»

 Salvatore Fiore in un Forum, dedicato ai trasporti, narra una sua avventura curiosa mentre era in viaggio con la Cumana:
«In quegli anni ero più legato alla Ferrovia Cumana perché spesso la domenica la prendevamo per andare a Fuorigrotta da parenti.
Inoltre la utilizzavamo in estate per andare al mare a Lucrino al Lido Napoli; allora luogo frequentatissimo di napoletani, oggi non più.
La Cumana ha segnato anche la mia autonomia, la mia libertà. La prendevo da solo già a 12 anni; andavo di mattina prestissimo al Lido Napoli per prenotare la cabina, altrimenti non avremmo trovato più un buco...
Non posso mai dimenticare la graffa che mangiavo appena sceso dal treno prima di scendere in spiaggia.
Ma ancor più ricordo un episodio dell'estate del 1978.
Una mattina divenni rosso paonazzo dalla vergogna, perché il treno fermandosi bruscamente al Lido Augusto mi fece perdere l'equilibrio, mandandomi letteralmente ad abbracciare una bella vacanziera sui 30 anni. Questa molto turbata mi fece un "rimbrotto isterico" che ricordo ancora adesso a distanza di anni, con molta tenerezza.
Fu inutile giustificarmi, la donna non volle sapere scuse!
Tutti i viaggiatori della cumana poi mi presero a guardare in maniera sospetta..., come un "molestatore ferroviario".
Si, perché nei luoghi pubblici, allora come oggi, basta uno che fa una sceneggiata ad alta voce e la gente sta sempre dalla parte di chi accusa, senza sapere se l'altro ha ragione o no.
Insomma avrei voluto disintegrarmi..., avevo appena 14 anni!
Adesso nei treni succede di ben altro..., altro che queste ingenuità della fine degli anni '70.
Quando da adulto ho finalmente raccontato la cosa gli amici mi dissero:
“Salvatò... t'è piaciuta 'a signora, eh?”
Veramente era molto carina, e anche molto scollata, era in tenuta balneare con prendisole, ma allora a 14 anni si incominciava appena a uscir col naso fuori l'uscio di casa.
Adesso tiferei per una bella frenata in un treno affollato, ma mannaggia non capita mai!
Possibile che i macchinisti sono diventati tutti bravi?» [13]


Salvatore Casaburi, nel suo “Quei ragazzi sul treno chiassosi e soli”, così scrive e, debbo ammetterlo, mi riconoscono nelle sue riflessioni:
«Quando nei lunghi giorni d'estate prendo la Cumana per andare a Montesanto, non posso fare a meno di cedere, indifeso, all'invasiva e struggente malinconia che mi riporta agli anni della lontana giovinezza.
La malinconia deve essere assunta a dosi giuste. Come i farmaci, bisogna rispettarne la posologia, altrimenti fa male, può dare assuefazione, fino a determinare stravolgimenti per cui il passato, anche il più doloroso, ci appare come il migliore dei mondi possibili. Per chi racconta la sua e la vita degli altri, poi, questo rischio è ancora più forte.
La Cumana è il mio luogo dell'anima, è, come per un "flâneur" parigino dell'Ottocento, un "passage" da riscoprire a ogni transito.
La Cumana è il mio "luogo della verifica" per capire cosa è cambiato nella città. O cosa è rimasto immutato. Perciò, in questa complicata estate, non posso fare a meno di andarci, come se l'abitudinario e breve viaggio potesse rivelarmi ciò che mi sfugge nella ricognizione urbana.
I ragazzi seduti davanti a me nel vagone comunicano per "selfie", si bombardano di "selfie", si vantano dei "selfie" ricevuti. Non fanno altro per tutto il tempo del viaggio. Sono chiassosi e soli. Accumulano pixel. Perderanno presto le loro "memorie" quando non riusciranno più a governarle. Ora siamo come i giapponesi che venivano a Napoli nei primi anni Sessanta. Vediamo ma non osserviamo. Per osservare occorre lo sguardo di Ulisse, occorrono la fatica e la voglia di vivere.
La Cumana è il mio percorso d'Ulisse e anch'io, ogni volta, ho come meta rassicurante la mia Itaca.
A Montesanto, mentre il mio treno entra in stazione, la folla dei viaggiatori in attesa ha ormai invaso la banchina, impedisce a noi passeggeri in senso contrario di defluire. Spintoni, imprecazioni, qualche avvio di rissa. Altro che trascinato. La folla, presa da un'assurda frenesia, ora mi blocca [14].

Bisogna tenere integro il sottile filo che unisce il passato al presente. Cerco di capire. Mi chiedo quale oscura ragione abbia impedito ai progettisti di istallare, anche nella nuova stazione di Montesanto, le porte automatiche che, nella vicina funicolare, rendono ordinato il flusso degli utenti. Condividiamo i "selfie", non il senso civico.

a cura di Giuseppe Peluso

mercoledì 15 giugno 2016

Traghetto Città d'Ischia

D/F Langeland
Una vecchia signora danese

Le particolari condizioni geografiche della Danimarca, con isole, innumerevoli piccoli arcipelaghi, lunghe e strette penisole, hanno costituito un ostacolo alla realizzazione di una rete ferroviaria nazionale coesa. 

Inizialmente, prima della costruzione dei lunghi ponti marittimi, è stato necessario creare reti separate, almeno nelle isole maggiori, e poi introdurre in servizio “ferry” atti a collegare questi tronchi tra loro staccati.
Ogni rete ferroviaria ha svolto servizio passeggeri solo localmente, i collegamenti dei viaggiatori tra isola ed isola sono stati assicurati dalle società di navigazione, ed i traghetti, generalmente, sono serviti al trasporto di soli carri merci onde evitare costosi trasbordi.

Anche l’isola di Langeland (situata a sud dell’isola di Fyn, Fionia in italiano, nel Grande Belt di fronte la Baia di Kiel, 

lunga oltre 70 km ma larga al massimo 11) vede nel 1911 l’apertura di una ferrovia privata, chiamata “Langelandsbanen”, che per i primi 15 anni non ha collegamenti con altre reti ferroviarie della Danimarca.
Nel 1925 il Parlamento danese legifera la possibilità di collegamenti ferroviari con battelli pertanto la società di navigazione “AS Sydfynske Dampskibssekskab” (SFDS) [1] 

di Svendborg per poter effettuare il nuovo servizio tra Svendborg (isola di Fyn) e Rudkøbing (isola di Langeland), stipula un contratto con i cantieri “Helsingør Jernskibsværft & Maskinbyggeri” per la costruzione del “D/F Langeland” che è poi consegnato nel maggio 1926 [2].

Questo traghetto presenta una lunghezza totale di 46.7m, una larghezza di 10,97m, un pescaggio di 3.6m e disloca 422tn. Alla costruzione è dotato di due motori a vapore, combustione a carbone, per un totale di 580hp che imprimono una velocità di 10.25 nodi. Essendo un traghetto ferroviario (ferry) presenta un binario centrale, lungo 44 metri, che permette il parcheggio di 6 vagoni merci o 5 carrozze passeggeri o, in alternativa, di 26 auto; inoltre ha possibilità di trasportare non meno di 600 passeggeri.
L’aspetto generale è quello classico dei primi traghetti ferroviari con il ponte principale libero, da prua a poppa, su cui scorre un binario a scartamento normale. Due strette e lunghe sovrastrutture partono dai lati del battello unendosi in alto in una stretta passerella, che sostiene la plancia comando, e che fornisce un caratteristico “fascino” al traghetto visto da prua. Altra particolarità sono i due lunghi e stretti fumaioli, molto suggestivi, che rendono ancora più attraente la “vecchia signora” [3].





A centro nave, sotto il ponte garage, c’è un deposito carbone della capacità di 38 tonn; la camera del fuochista e poi la sala macchina. Sono presenti due scale, una per ogni lato, che conducono alle strutture laterali che caratterizzano questo traghetto.

Al livello del ponte garage centrale, come in tutti i “ferry”, ci sono due complessi laterali di cui uno ospita piccole cabine per 2 fuochisti, per 2 marinai e per 2 macchinisti, più altra per eventuali ospiti; inoltre c’è un deposito dispensa ed un punto ristoro a disposizione dello steward. 

L’altra struttura laterale, sempre allo stesso livello del ponte principale, presenta un grande salone per i passeggeri di 3° classe; fornito di panche fisse in legno.

Le stesse scale laterali portano ai rispettivi due ponti superiori coperti dove ci sono, rispettivamente, un salone per passeggeri di 1° classe e un salone per passeggeri di 2°. 

II divani della 1° classe sono ricoperti di peluche e nella sala fumatori sono ricoperti di una felpa grigia. I divani della 2° classe sono rifiniti con tela cerata marrone.
I due ponti passeggeri superiori presentano la parte posteriore scoperta che, benché fornita di panche, costituisce un vero e proprio ponte passeggio.

Dalle piattaforme laterali si accede, tramite il proseguimento delle riferite scale, alla plancia comando che, situata tra i due fumaioli, a forma di ponte congiunge in alto le due strutture laterali.
A livello di questo ponte troviamo la camera del capitano, ed eventuale collega, nonché le quattro scialuppe di salvataggio.

Ad entrambe le due estremità del ponte principale ci sono rampe d’accesso fornite di cancelli scorrevoli; lo stesso ponte è fornito di alte murate laterali che proteggono le auto trasportate dagli spruzzi dell’acqua marina.


Il “Langeland”, in entrambi i porti terminali, va all’ancoraggio sempre con la prua che si incunea nelle apposite invasature sulle quali viene connesso un ponte, munito di binari, manovrato mediante dispositivi di sollevamento e abbassamento. Naturalmente questo comporta particolari manovre di attracco e le auto imbarcate debbono comunque compiere a retromarcia le operazioni di discesa [4].




Il 22 maggio 1926 è inaugurato il servizio e nel porto dei traghetti di Rudkøbing sono pronti i carri ferroviari che debbono essere trasferiti dall’isola di Langeland all’isola di Fyn [5].






Per molti anni questo traghetto compie il percorso Svendborg – Rudkobing ben conosciuto a livello nazionale per il suo paesaggio idilliaco; esso è coronato da molte perle della Danimarca e la navigazione è paragonata ad una piacevole piccola crociera. Un vecchio dépliant della società di navigazione dice che il viaggio effettuato con il “D/F Langeland” si caratterizza per l’atmosfera “vecchia intimità” e per il percorso che conduce a località della Danimarca come Rudkøbing che ha dato i natali al famoso fisico Hans Christian Orsted ed a suo fratello Anders Sandoe Oersted, botanico ed ex primo ministro danese.
La stessa cittadina è sede di un Museo famoso nel mondo per le sue collezioni “Stone Age” [6].
Il collegamento assume inoltre rilevante importanza economica per il trasporto delle barbabietole di zucchero che sono coltivate sulle due isole di Langeland e di Loffand; esse dai primi di ottobre al 1 gennaio di ogni anno sono inviate alla fabbrica di zucchero di Odense direttamente a mezzo di vagoni ferroviari scoperti.

Questo battello gode di un grande successo di pubblico fino allo scoppio della seconda guerra mondiale e la conseguente occupazione tedesca della Danimarca. Comunque a differenza di altri traghetti non è requisito dalla Kriegsmarine essendo di vitale importanza la sua capacità di trasporto ferroviario; servizio che continua a svolgere anche per conto degli occupanti.

Finita la guerra il traghetto riprende la normale routine e nel 1947 si rendono necessari lavori di rimodernamento [7].

La combustione, come visto, è a carbone ed il suo caricamento è sempre stato eseguito a Svendborg, inizialmente trasportato con i camion, ma poi con carri ferroviari. Durante la guerra è stata utilizzata della torba danese, e non carbone di buona qualità, e i 2 fuochisti di bordo hanno dovuto lavorare duro per tenere le macchine accese; pertanto si decide di installare 2 motori BMW con funzionamento a nafta.
Nel contempo, oltre ad altre piccole trasformazioni, i ponti posteriori scoperti sono ricostruiti chiusi e muniti di ampi finestrini [8]; nel contempo sono ridotte a solo due le classi passeggeri.




Nel riprendere servizio giornalmente, nel porto di Rudkøbing, incrocia il traghetto “Siösund” che a sua volta collega questo porto con quello di Vemmeraes, situato su di un’altra isola, quella di Tasinge. Questo traghetto “Siösund” in seguito, e con il nome di “Città di Pozzuoli”, lo ritroveremo affiancato al “Langeland” sulla linea Pozzuoli - Ischia.
Moltissimi i racconti ed i ricordi tramandati dalla letteratura danese:
«I miei genitori avevano un amico sull’isola di Langeland, Henry Sølvberg Madsen, che era anche il timoniere del traghetto “D/F Langeland”.
Spesso ci imbarcavamo a Svendborg su questo traghetto e talvolta siamo stati invitati nella timoneria, lassù nella plancia comando.
Una volta, da piccolo, mi è stato chiesto di tirare la maniglia del fischio del vapore. Maniglia che stava sotto la piccola tettoia sulla plancia di dritta, ed era collegata al fischio, che stava in alto attaccato ad un camino del vapore, tramite un filo.
Ma ero troppo timido per fare tanto rumore, pertanto il nostro amico doveva uscire per farlo lui.»






Essenziale è il suo servizio di collegamento ferroviario e, fino all’entrata in servizio del M/F Lolland nel 1955, è l’unico ferry su questa rotta sulla quale è familiarmente conosciuto come "MF Street".
Il tutto continua fino alla chiusura della linea per l’apertura di collegamenti stradali [9].





Il 29 settembre 1962 è inaugurato il ponte, già progettato alla fine degli anni ’30 ma non costruito per la guerra, che collega l’isola di Fionia con l’isola di Langeland. Conseguenza dell’entrata in funzione di questo ponte è la sospensione del servizio di navigazione con navi traghetto e la chiusura della caratteristica linea ferroviaria di Langeland. Ormai sull’isola ci si arriva comodamente con autobus e camion che rendono antieconomico la necessità di trasbordare le merci sui carri ferroviari dipendenti da costose infrastrutture terrestre e marittime.

IL 25 marzo 1961 il “Langeland” compie il suo ultimo viaggio partendo da Svendborg alle ore 19.05 ed arrivando a Rudkøbing alle ore 20.30. Poi è venduto all’armatore Nicola Monti di Ischia già proprietario del più piccolo e vecchio “Siösund” con il quale ha potuto sperimentare i vantaggi offerti da un vero traghetto nel trasportare auto tra Pozzuoli ed Ischia.

Gli italiani vogliono immetterlo in servizio il più presto possibile e si è deciso di lasciare partire il traghetto per la lunga navigazione da Svendborg a Napoli ma, poiché non fu progettato per queste lunghe navigazioni, è necessario attrezzarlo con letti, cucina e rifornimenti supplementari. Naturalmente ci si avvale dell’esperienza acquisita da alcuni marinai che quattro anni prima hanno provveduto a trasferire il “Siösund” sulla stessa rotta.
Il 13 agosto del 1961, ribattezzato “Città d’Ischia”, il traghetto è pronto a partire per l’Italia ed a questo scopo, oltre alle scorte alimentari per l’equipaggio, imbarca due carri cisterna ferroviari della “Caltex”, contenente ciascuno 14 tonnellate di nafta, in modo da godere della giusta autonomia per la lunga navigazione che deve affrontare [10].

Un giornale danese riporta l’immagine di questi preparativi e riferisce:
«Non è solo nelle fiabe che accadono le cose più strane. Dopo aver navigato per 35 anni tra Svendborg e Rudkøbing la scorsa settimana la S/S "Langeland" è stata presa in consegna dalla società italiana Nicola Monti e per il futuro il traghetto, ora ribattezzato "Città del Ischia", effettuerà un servizio regolare tra Napoli e Ischia
Il viaggio dura oltre i previsti 14 giorni, il traghetto giunge a Napoli il 10 settembre e subito dopo inizia il regolare servizio tra Pozzuoli, Procida ed Ischia; i due carri cisternaCaltex” rientrano in Danimarca con le normali linee ferroviarie.
L’unica modifica che l’armatore apporta al traghetto riguarda l’aggiunta di una grossa rampa al portello di poppa; questa, che sarà poi applicata a tutti i vaporetti in servizio nel golfo, col tempo sarà resa sempre più funzionale facilitando l’imbarco degli automezzi sulle banchine flegree che presentano differenti altezze.

Diversamente che in Danimarca, dove il battello andava ad attraccare di prua in apposite invasature, il traghetto ora attracca solo di poppa con rampa regolabile e scivoli che si adattano alla banchina.
Neppure la coloritura del battello subisce modifiche; essa resta nero per lo scafo e bianco per le sovrastrutture; schema classico ed elegante come era in uso nei vecchi “liners”.
Ben presto gli utenti, camionisti ed automobilisti, imparano ad apprezzare questo moderno sistema di trasporto offerto dal battello che familiarmente iniziano a chiamare “U roi pippe” [11].



Una delle cinque sale del Museo del Mare di Ischia è intitolata a Nicola Monti. Questo nasce a Casamicciola nel 1894 ed inizia la sua carriera d’armatore negli anni venti con la motobarca “Ondina”. Incrementa sempre più la sua flotta e, nonostante i disagi dovuti alle requisizioni di naviglio nel corso del conflitto, alla fine degli anni 50 e tra i primi ad avvertire la necessità di istituire un vero e proprio servizio di traghetto per i veicoli fino ad allora affidato alle vecchie motobarche adattate con rampe di fortuna. Attento a queste nuove esigenze Nicola Monti nel 1961 rileva da Colandrea il traghetto " Città di Pozzuoli " che è stato il primo traghetto nella storia dei collegamenti di Ischia con il Continente e poi, visto il successo, acquista il " Langeland".
Nicola Monti da attento e capace imprenditore non si limita alle attività traffico di linea, ma si dedica anche al piccolo cabotaggio con una serie di motovelieri che partono da Ischia carichi di vino ed altri prodotti locali e ritornano carichi di olio, farina, stoviglie ed altro.
La lunga e movimentata vita di Nicola Monti s'interrompe il 17 dicembre 1979 mentre è di ritorno ad Ischia proprio sul traghetto "Città d'Ischia".



La rotta percorsa dal traghetto è tra le più belle al mondo; esso parte dalla costa flegrea e si inoltra in una natura incantevole tra storia, miti e leggende, fino a raggiungere la stupenda “Isola Verde”.
L’Ischia di questi primi anni ’60 richiama attori, reali incoronati e decaduti, finanzieri, stilisti e altra bella gente; attorno all’imprenditore Angelo Rizzoli ruotano i più bei nomi del “jet set”. Lo Scia di Persia in cerca di una nuova sposa, Walter Chiari e la focosa Ava Gardner, Liz Taylor passionale e scontrosa con Richard Burton, Paolo Stoppa impegnato a litigare con Vittorio De Sica, Christian Barnard con qualche sua amante, John Wayne, Maurizio Arena, Sofia Loren e Carlo Ponti, Catherine Spaak e Fabrizio Capucci, famosi “diciottenni al sole”.
Praticamente l’isola è tra le capitali del cinema internazionale e Ischia diventa la succursale della dolce vita romana.

Nel 1967 i due vecchi motori del traghetto sono sostituiti con due dieselDeutz” da 1.662Kw in totale; poi, nel 1974 il battello è venduto alla “Libera Navigazione Lauro S.A.S.” di proprietà dell’armatore Agostino Lauro [12].



Agostino Lauro, cui è intitolata un'altra delle cinque sale del Museo del Mare di Ischia nasce nell’isola nel 1917 e fin da piccolo dimostra grande propensione per il mare, sulla scia del nonno paterno, sottufficiale di macchina della Regia Marina. Seguendo il padre corriere, impara oltre al mestiere paterno, a pilotare l'Ondina la barca che collegava Ischia a Napoli e viceversa.
Il 17 ottobre 1947 raggiunge l'America per prelevare una piccola nave la "Buona Speranza" e condurla in Italia. E' una barchetta per l'immensità dell'Oceano, ma Agostino non si perde d'animo. Attacca l'immagine di San Giovan Giuseppe della Croce vicino al timone e parte.
Durante la traversata incappa in un terribile fortunale e la "Buona Speranza" minaccia di affondare. Prega il santo protettore di Ischia che gli appare dicendogli: "ancora tre giorni soffrirai, ma poi vedrai un faro". Tre giorni dopo la tempesta Agostino Lauro avvista il faro di Las Palmas.
Agostino Lauro fa il suo ingresso tra gli Armatori del Golfo dalla metà degli anni 50; Ischia si affaccia al turismo ed Agostino compra e mette in linea la "Freccia del Golfo", un MAS da guerra adattato al trasporto passeggeri, con cui collega Ischia a Capri, Procida e Napoli, consentendo il ritorno a Ischia alle 21 per chi pare al mattino. Poi è tutto un susseguirsi di acquisizioni: la "Celestina", la "Angelina", la "Rosaria", il "Salvatore Lauro" e "l'Agostino Lauro", il "Settebello", "La Città d'Ischia", il "Generale Orsini", il "Lauro Express", l'"Anna Maria"… Ma la grande intuizione di Agostino Lauro è, comunque, il passaggio agli Aliscafi che hanno rivoluzionano il sistema del collegamento marittimo nel Golfo. 
Il 02 gennaio 1989 mentre è in viaggio verso Genova per vedere i lavori all' "Heidi", ultimo suo acquisto, muore colpito da un infarto.

Nel 1976 il “Città d’Ischia” è venduto alla “Agostino Lauro” che, ribattezzatolo “Settebello”, per qualche anno lo impiega sulla linea Milazzo - Isole Eolie. 

Questa società provvede ad una completa ricostruzione del traghetto al quale viene applicata una vera prua, al posto del portellone anteriore, ed è completamente ricostruita l’alta sovrastruttura che così perde la caratteristica e pontata sala comando tutta in legno. Ma la modifica che più salta agli occhi è certamente l’eliminazione delle due alte ciminiere, i fumi che espellevano sono ora spinti in un unico ed anonimo fumaiolo centrale.
Il traghetto, che ora ha una sola ed unica classe, per un breve periodo ritorna sulle rotte del nostro golfo e, al posto della classica colorazione nero per lo scafo e bianco per le strutture, riceve una uniforme colorazione bianca riprendendo il nome di “Città d’Ischia” [13].



Nel 1989 è rivenduto alla “Alilauro Aliscafi del Tirreno SpA”, ulteriore consociata del Gruppo Lauro, che lo utilizza come pontone “terminal” del servizio aliscafi. A tal fine subisce il taglio di parte della murata sinistra, l’adattamento a uffici e sale di attesa di alcuni ambienti ed è ancorato in modo fisso alla banchina del porto d’Ischia [14].


E’ questo l’ultima trasfigurazione dell’ormai settantenne battello che dopo poco passa direttamente alla demolizione.

In Danimarca gli amici Henk Rasmussen 

e Abel Bjarne ne hanno costruito dei modelli [15] 

e qualcuno di essi, unitamente a foto e tabelloni pubblicitari che lo riprendono quando ancora si chiamava “Langeland”, ornano un angolo del piccolo museo realizzato a Swendborg nella vecchia sede della “Sydfynske Dampskibsselskab” [16]. 

Da noi resta il solo ricordo e tanta, tanta malinconica tristezza in tutti coloro che ci hanno navigato, per lavoro o per svago.