domenica 17 novembre 2013

INDUSTRIA AERONAUTICA A NAPOLI



Con vivo piacere pubblico uno scritto dell'amico, ingegnere aeronautico, Francesco Fortunato. Un tecnico appassionato di molte cose in generale, e di aviazione in particolare, cui piace cercare dettagli e dare una mano a tenere viva la memoria della Storia Aeronautica in Campania.

Naturalmente vi invito ad approfondire visitando il suo blog: http://www.fremmauno.com/


L'articolo che segue, che tra l'altro riporta inedite notizie sulla Industria Aeronautica dei Campi Flegrei, è stato da lui presentato alla:


Italian Association of Aeronautics and Astronautics 

XXII Conference
Napoli, 9-12 September 2013




 INDUSTRIA ED INNOVAZIONE AERONAUTICA A NAPOLI

Francesco Fortunato

1 - Introduzione
Il volo è arrivato presto a Napoli sotto forma di ascensioni in pallone aerostatico. L’esordio, ad opera di quello stesso Vincenzo Lunardi che aveva effettuato la prima ascensione a Londra il 15 settembre 1784, avvenne il 13 settembre 1789 dal “Largo di Palazzo”, sotto gli occhi del re Ferdinando IV di Borbone, della famiglia reale al completo e di un’immensa folla di popolo accalcata su piazza, strade e tetti.
 
Figura1: Stampa d’epoca rappresentante il “globo aerostatico” di Lunardi
Da allora, l’interesse per il volo non si è mai attenuato, passando attraverso cambiamenti politici e guerre e rendendo la città ed i suoi dintorni il principale centro dell’industria aerospaziale del sud Italia. Proponiamo qui alcuni passaggi significativi di questa storia, senza la pretesa di realizzarne una sintesi completa, provando a soffermarci su alcuni esempi che ci sembrano particolarmente significativi, in termini dell’apporto all’innovazione tecnica ed alla crescita del settore aeronautico, in un’ottica non solo locale.
2  - Precursori e primordi: FRANCESCO FILIASI
Napoli ha dato origine a numerosi precursori e pionieri del volo [1], con personaggi quali lo scienziato Tiberio Cavallo, il patriota e ideatore Federico Capone, l’ideatore ed industriale Giovanni Agusta, i costruttori Emilio Graff ed Armando De Simone.
Ci soffermeremo sulla figura di Francesco Filiasi, 5° marchese di Carapelle, ricordato anche come musicologo.  Nato a Napoli nel 1869, è un classico esempio di appassionato benestante che investe le proprie risorse per realizzare le proprie idee, sicuramente dotato d’inventiva ma forse privo dello spirito imprenditoriale di altri suoi “colleghi”. Ad inizio ‘900, prima del primo volo dei Wright, si era impegnato a progettare un elicottero e poi un velivolo ad “ali equilibrate”. Presentò un modello di quest'ultimo all'Esposizione Aeronautica di Parigi del 1902, dove fu premiato. Le due ali in tandem di cui era dotato erano collegate in modo da cambiare calettamento in modo opposto, garantendo così la stabilità longitudinale “automatica” del mezzo nelle varie condizioni di volo. Nel 1906 Filiasi propose il modello in scala di una versione idrovolante dello stesso velivolo all'Esposizione di Milano, fornito di scafi catamarani e di ali svergolabili per il controllo laterale [5]. Nello stesso anno pubblicò un trattato dal titolo: “Causeries aéronautiques et projet d'aéroplane”.
  Figura 2: Progetto di velivolo Filiasi ad “ali equilibrate”
 
Nel 1910 fu tra i fondatori del “Circolo Aviatorio” napoletano che successivamente si sviluppò in aeroclub. Progettò e realizzò, in quello stesso 1910, un biplano terrestre che presentava alcune caratteristiche interessanti. Puntava sicuramente alla stabilità automatica in volo, come dimostra il piano orizzontale di coda, a differenza dei Wright contemporanei ed in linea, invece, con le esperienze francesi. La fotografia mostra che erano presenti dispositivi di controllo laterale, sotto forma di piani orizzontali mobili posti fra le ali, secondo lo schema ideato dallo statunitense Glen Curtiss. Nel complesso, Filiasi risulta ben informato dell’evoluzione delle macchine aeree e cerca di fare scelte oculate. Il biplano, benché di proprietà privata e quindi non militare, fu realizzato con la collaborazione della Brigata Specialisti del Genio, dotato di un motore rotativo Gnome da 50 CV e provato da Calderara il 3 giugno 1910, sul campo di Centocelle a Roma. La notizia comparve anche su “La Domenica del Corriere” del 26 giugno 1910. Altre prove vennero eseguite nei giorni successivi, ma gli esiti non furono abbastanza soddisfacenti da garantire l'ulteriore sviluppo.
 
Figura 3: Il biplano Filiasi a Centocelle
Negli anni successivi l’attività creativa si diradò, ma rimase sempre impegnato a diffondere la “cose aeronautiche” e la musica. Si impegnò in complessi dibattiti di fisica. Morì a Roma il 25 giugno 1941.
3 - LA GRANDE GUERRA: LA “IAM” ED I FRATELLI RICCI
L’industria aeronautica arrivò a Napoli per le esigenze della Prima Guerra Mondiale [2] [6]. Molte imprese furono coinvolte nello “sforzo bellico”, per rifornire l'esercito e la marina delle crescenti quantità di materiali di cui avevano bisogno, e diverse aziende affiancarono alle competenze che già possedevano la produzione aeronautica. Nel napoletano questo fu il caso, tra le altre, delle Officine Ferroviarie Meridionali, della Società Bacini e Scali e dell’Opificio Meccanico Catello Coppola (successivamente AVIS) di Castellammare di Stabia.
 
 Figura 4: Il primo velivolo realizzato dalle Officine Ferroviarie Meridionali: un Farman 1914
Assieme a questi, sorse anche un tentativo imprenditoriale di argomento specificamente aeronautico: si trattava della IAM (Industrie Aviatorie Meridionali), che, se già nel nome rivelava le sue ambizioni, ancora di più lo faceva nella sua ragione sociale, che recitava: “fabbricazione e riparazione di apparecchi di aviazione e motori per detti nonché l'esercizio di trasporti aerei di posta, passeggeri e merci”. Dietro la sigla IAM ci sono grossi nomi dell'industria campana, quali Canzio Bruno Canto, grande imprenditore cotoniero, e Carlo Lefevre, i quali coinvolgono anche la ditta meccanica “Ingano & Di Lauro” per le attività relative ai motori. L’azienda divenne in fretta la maggiore del settore aeronautico dell’area partenopea e meridionale in generale. Il nucleo principale era costituito da due capannoni a Baia e Lucrino, dove, come in altre aziende nazionali, si riparavano e costruivano, su licenza, idrovolanti FBA (Franco-British Aviation), da ricognizione e bombardamento leggero, il tipo standard più comune tra quelli adottati dalla Regia Marina. Il vicino lago era ideale per le prove dei velivoli appena costruiti o risistemati. La IAM ne fabbricò 140 esemplari, nel periodo bellico, su un totale di circa 1000 complessivamente realizzati in Italia. 
Figura 5: L’interno dei capannoni della IAM con gli FBA in via di ultimazione
Il primo collegamento postale quasi regolare fu stabilito il 28 giugno 1917 tra Napoli e Palermo, proprio tramite un idrovolante IAM, privato dell'armamento e con serbatoi di carburante aumentati. Il pilota Ruggero Franzonim con il motorista Francesco Romanuzzi decollarono da Napoli alle 6:24 per arrivare a Palermo alle 9:25. Trasportavano sacchetti di posta e quotidiani e furono accolti da autorità e da un gran numero di persone, accorse per assistere all’evento. Il collegamento fu mantenuto con cadenze variabili. Curiosità filatelica: in mancanza di affrancature specifiche per “posta aerea”, furono usate affrancature da espresso, modificate con un apposito timbro.
L’impegno fu a tutto campo: Canto lanciò nel gennaio 1918 la rivista “La Via Azzurra”, che ebbe notevole successo. Ingano fu anche presidente dell'Aero Club di Napoli, che assieme a quello di Roma costituì il nucleo iniziale dell'Aero Club d'Italia. Domenica 2 giugno 1918, Festa dell'Unità Nazionale, un idrovolante IAM lanciò volantini su Roma inneggiando al valore delle armi italiane ed all’impegno dell'azienda per la vittoria. Si giocava insomma sul piano mediatico quanto su quello tecnico.
Su quest’ultimo fronte fu fondamentale l’apporto dei fratelli Ettore ed Umberto Ricci. Nati a Verona rispettivamente nel 1886 e 1888, si interessarono prima di dirigibili e poi di “più pesanti dell’aria” fin dai primi del ‘900. Scoppiata la guerra, non si sottrassero agli obblighi militari benché il ruolo di costruttori aeronautici lo avrebbe loro consentito. Passano un anno al fronte, poi la Direzione tecnica dell’aviazione militare li invia a Napoli. Qui collaborano con la IAM e progettano il “Ricci 1”, all’epoca il più grande bombardiere idro al mondo. É un grande biplano trimotore, che poggia su due scafi di tipo FBA ed è propulso da un’elica traente centrale e due spingenti laterali. Ricevuta l’approvazione delle gerarchie militari, nel 1917 i Ricci realizzano e collaudano due prototipi, a cui tuttavia non seguiranno esemplari di serie.
Figura 6: Biplano “Ricci” 1 a Napoli, ribattezzato “R-600” dopo essere stato rimotorizzato nel dopoguerra
 
Figura 7: Il “Ricci-6” a Parigi
 I progetti successivi alla fine della guerra sono ancora più ambiziosi: i fratelli impiantano una loro azienda sulle sponde del lago di Lucrino, a nord di Napoli, e lavorano sul “Ricci 2”, avveniristico idro ad ali di gabbiano, e sul “Ricci 4”, un grande quadriplano per il trasporto intercontinentale di passeggeri, per il quale è prevista una potenza installata di circa 5000 CV. I due progetti, troppo avanzati per le tecnologie dell’epoca, restano sulla carta. I due fratelli realizzano invece il “Ricci 6”, un piccolo triplano monoposto, da addestramento e turismo, o “sportivo” come si diceva all’epoca. L’aereo è davvero minuscolo, con un’apertura alare di appena 3.5 m ed un motore Anzani da 40 CV. Fa il primo volo nel 1920 e conquista un primato di velocità; l’anno dopo è seguito dall’evoluzione biposto, denominata “Ricci 9”. I Ricci presentano entrambi gli aerei al Salone Aeronautico di Parigi del 1921 e al raduno del Bourget dell’anno dopo, raccogliendo grande interesse sulla stampa internazionale. Partecipano al concorso bandito nel 1920 dalla Lega Aerea Nazionale, per un “monoposto sportivo per allenamento economico”, in gara con altri due piccoli velivoli nazionali: il triplano Caproni-Pensuti ed il biplano Macchi M.16, quest’ultimo risultato infine vincitore. Un esemplare del “Ricci 6”, parzialmente originale, è oggi conservato al Museo della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano.
L’azienda prosegue le sue attività nei primi anni ’20 del secolo XX. Le piccole dimensioni del lago di Lucrino, inadatte a grandi realizzazioni, e la generale congiuntura economica ne rendono difficile la crescita. Il fallimento di un contratto con la Grecia costringe alla fine i fratelli Ricci a chiudere i battenti.
4 - L’EDIFICAZIONE DELLA REGIA AERONAUTICA:
                                            LA “IMAM”
L’industria aeronautica napoletana fra le due guerre è legata soprattutto alla sigla IMAM: “Industrie Meccaniche ed Aeronautiche Meridionali”. Fondata nel 1923 ad opera dell'ingegnere Nicola Romeo, l’azienda aveva acquisito gli impianti delle Officine Ferroviarie Meridionali e, successivamente, quelli della IAM. Produsse inizialmente alcuni modelli su licenza Fokker, in particolare il ricognitore-bombardiere Ro.1 (Fokker C.V-E) ed il trimotore di linea Ro.10 (Fokker F.VII/3m). Dal 1927 si costituì in società per azioni ed iniziò a produrre macchine di propria progettazione. Si ritagliò un ruolo soprattutto nel campo degli addestratori e dei ricognitori per la Regia Aeronautica, che era stata costituita come arma autonoma nel 1923. I progetti di maggior successo furono il Ro.37 e 37 bis (ricognitori e bombardieri leggeri, ampiamente impiegati nella conquiste coloniali in Africa e nelle prime fasi della Seconda Guerra Mondiale) ed il Ro.41 (caccia leggero ed addestratore, che rimase in uso fino ai primi anni ’50). Particolarmente innovativo fu il Ro.43, idro biplano catapultabile, ideato per fornire “occhi” alle unità navali della Regia Marina.
 Figura 8: IMAM Ro.43 al momento del lancio dalla catapulta
 Il progetto del Ro.43 fu curato, come quello dei suoi predecessori, da Giovanni Galasso, che lo derivò in buona parte da quello dell’affidabile Ro.37. Biplano monomotore a galleggiante centrale, era dotato di ali ripiegabili all’indietro per facilitarne lo stivaggio ed aveva un’autonomia di oltre cinque ore, una prestazione fondamentale per il ruolo. Fece il primo volo il 19 novembre 1934. Fu scelto superando le proposte concorrenti delle altre imprese nazionali: Piaggio P.18 e P.20, FIAT/CMASA MF.10, CANT Z.504 e Macchi C.76.
La dotazione normale era di quattro aerei per le corazzate e di due per le unità più piccole. Siccome il recupero in mare era complesso in condizioni normali ed improponibile in guerra, la prassi era che i Ro.43 raggiungessero la terra ferma al termine della missione: l’autonomia consentiva di farlo in pratica da qualsiasi punto del Mediterraneo. Nel suo ruolo di esploratore imbarcato, prese parte a tutti i combattimenti navali del conflitto. Raro caso di collaborazione efficace fra le varie armi, in quegli anni, i Ro.43 volavano con pilota dell’Aeronautica ed osservatore della Marina, il che rendeva più efficaci gli avvistamenti. L’eccessiva “parsimonia” del suo impiego è indicata da alcuni storici come una concausa di insuccessi e cattivi risultati, come nello sfortunato caso della battaglia di Capo Matapan del 28 marzo 1941, dove il lancio di un Ro.43 avrebbe forse chiarito i dubbi dell’ammiraglio Angelo Iachino sulla reale posizione della flotta inglese (si veda ad es. [4], pp 160-161: la flotta italiana disponeva, alla vigilia della battaglia, di almeno sei dei dieci Ro.43 inizialmente imbarcati sulla corazzata Vittorio Veneto e sulle altre unità). Ricordiamo che lo scontro è stato la più grave sconfitta navale italiana del conflitto, costato oltre 2300 perdite.
L’importanza del ruolo svolto dal Ro.43 è testimoniata anche dal tentativo di ricavarne un caccia catapultabile, che fosse utile per difendere le unità della flotta quando non fosse disponibile la scorta di aerei basati a terra. Il risultato fu l'IMAM Ro.44, monoposto biplano che dimostrò limitate prestazioni. Solo dal 1942, i Ro.43 cominciarono ad essere affiancati da alcuni esemplari di una macchina più prestazionale, ovvero il caccia Reggiane Re.2000 appositamente modificato.
Il Ro.43, su cui ho voluto soffermarmi, non fu l’unico progetto innovativo della IMAM. Con il Ro.57 presentò un interessante proposta di caccia “pesante” bimotore. Il progetto fu tenuto in attesa troppo a lungo e solo una settantina di esemplari furono, alla fine, ordinati per la produzione, nella versione Ro.57bis da assalto. Essi peraltro furono per la maggior parte distrutti al suolo da un bombardamento americano, all'aeroporto di Crotone Isola Rizzuto, prima che l'addestramento dei piloti fosse completo e potessero essere impiegati in azione. Dal Ro.57 derivò il Ro.58, rimasto allo stadio di prototipo. Il Ro.63 fu invece un valido monomotore da collegamento in grado di operare su piste corte e non preparate.
  Figura 9: Caccia bimotore IMAM Ro.57
5  - IL DOPOGUERRA TRA RICOSTRUZIONE ED AMBIZIONI: “AERFER” E “PARTENAVIA”
L'Aerfer nacque nel 1955 come erede della IMAM, che dalla Breda era transitata a Finmeccanica, e finì di esistere nel 1969, quando fu fusa con il settore aeronautico della Fiat e con la Salmoiraghi dando vita all'Aeritalia. Un quindicennio di vita, quindi, nel periodo del boom economico italiano. Come azienda a partecipazione pubblica, ci si aspetterebbe una limitata dinamica, ma non è così: il numero di progetti in cui prese parte e di attività innovative, condotte in proprio o assieme ad altri, illustrano una notevole attività.
Gli autobus ed i treni marcati Aerfer entrarono spesso nel paesaggio locale. Dal punto di vista aeronautico, i progetti più famosi sono quelli legati alla serie di prototipi di caccia a reazione sviluppati da Sergio Stefanutti e che dovevano condurre ad un caccia supersonico tutto italiano. Stefanutti era a capo della progettazione della SAI-Ambrosini, una piccola azienda specializzata nelle costruzioni aeronautiche in legno. Quanto di più distante, se vogliamo, dall'obiettivo proposto: Stefanutti sapeva di dover operare con risorse limitate, impiegandole nel modo più efficace possibile. In mancanza di valide gallerie del vento, che subito dopo la guerra in Italia non esistevano più, Stefanutti aveva iniziato a studiare l'ala a freccia su un biposto SAI-7 modificato, denominato “Freccia”. Successivamente aveva sostituito il motore a pistoni Alfa Romeo con un piccolo turbogetto Turbomeca “Marborè”, per poter esplorare un campo di velocità più ampio. Il “Freccia” era stato inoltre trasformato in monoposto e l'aerodinamica, in particolare dell'ala, era stata rifinita; modificato in questo modo era stato denominato “Sagittario 1”.
 

Figura 10: SAI-Ambrosini “Freccia”
Completate le prove con successo, il passo successivo richiedeva di realizzare una macchina in grado di velocità transoniche, quindi dotata di un motore più potente e necessariamente realizzata in metallo. La fabbricazione fu assegnata allora alla Aerfer, con finanziamenti NATO. Da qui nacque il “Sagittario 2” che vide la luce a Pomigliano d'Arco ed il cui primo volo fu effettuato a Vigna di Valle il 19 maggio 1956, dall'asso Costantino Petrosellini, uno dei pochi piloti italiani ad avere esperienza sui velivoli a getto, avendo volato sul nuovo Dassault “Mystère” francese.
  Figura 11: Aerfer “Sagittario 2”
 Il “Sagittario 2” conservava la configurazione generale del “Sagittario 1”, con il motore collocato nel muso, inclinato di circa 20 gradi, e l'ugello di scarico circa sotto l'abitacolo, ma stavolta si trattava di un Rolls-Royce Derwent 9 da circa 1800 kg di spinta statica. Era un po' più grande del predecessore in legno, aveva finalmente il carrello d'atterraggio con ruotino anteriore invece che posteriore, in modo da non “cuocere” regolarmente il pneumatico, nonostante le protezioni, quasi ad ogni decollo con lo scarico del reattore. L'abitacolo era spostato in avanti ed aveva una cappottina a goccia, d'un sol pezzo. Era previsto anche un armamento ed un'evoluzione come caccia multiruolo. Le prove di  collaudo furono più che soddisfacenti, nonostante qualche momento di tensione. Petrosellini stesso parla di piantate motore in un volo di prova. Il prof. Mario Calcara dell’Università di Napoli, all’epoca giovane ingegnere membro della squadra tecnica, ci ha raccontato, nel corso di una lezione universitaria, di un volo in cui il caccia finì in vite rovescia e, quando sembrava che nessuna manovra di uscita funzionasse e non ci fosse più nulla da fare, si rimise in assetto quasi da solo. Fu riscontata una lieve instabilità fugoide, non critica per il pilotaggio. Lo stesso prof. Calcara ci sintetizzò i suoi sentimenti dicendoci: “Abbiamo lavorato come gli artisti: per i musei”. Petrosellini era entusiasta della macchina e dichiarò di preferirla all'F-86 statunitense.
E' stata la prima macchina di progettazione italiana a superare il muro del suono, il 4 dicembre 1956, al termine di una picchiata. Ai comandi c'era Giovanni Franchini, che aveva preso il posto di Petrosellini nelle prove di collaudo.
Al “Sagittario 2” seguì l' “Ariete”, che incorporava un secondo motore a reazione in coda (un più piccolo Rolls-Royce Soar), per fornire spinta addizionale in decollo e quando necessaria durante il volo, alimentato da una presa d'aria retrattile sul dorso. Proprio questo componente fu quello che causò maggiori problemi nel corso delle prove: più volte l’apertura non avvenne in modo regolare o si verificò spontaneamente, nel corso di alcune manovre. Tuttavia l' “Ariete” fornì i dati necessari a mettere a punto la configurazione bimotore.
Figura 12: Aerfer “Ariete”, conservato al Museo Storico dell’Aeronautica di Vigna di Valle
 L'ultimo passo di sviluppo, quello decisivo, doveva infatti essere il “Leone”. Interamente riprogettato, più grande dei suoi predecessori, con ala a freccia molto accentuata, presa d'aria supersonica con cono centrale in grado di ospitare il radar e propulso da un motore a razzo in coda in aggiunta al turbogetto, doveva essere un intercettore supersonico in grado di combinare lunga autonomia e capacità d'intervento rapido. Il turbogetto era un Bristol Siddeley Orpheus B.Or. 12. Il motore a razzo, un De Haviland Spectre, funzionava con lo stesso carburante avio del propulsore principale e con perossido d'idrogeno come ossidante,  poteva essere avviato più volte in volo regolando la spinta in base alle necessità e non presentava le complicazioni del turbogetto addizionale. Rispondeva alla logica, rivelatasi corretta nell'impiego pratico, per cui le “puntate” in supersonico sono limitate a brevi periodi di tempo, durante l'intercettazione e l'attacco, mentre la gran parte del volo avviene al più a velocità transonica. Pensato per l'Italia ed i suoi lunghi confini, terrestri e marittimi, da sorvegliare, il “Leone” era inoltre meno complesso e costoso di altre macchine contemporanee. Del "Leone" è stato realizzato soltanto un mock-up in legno, necessario a mettere a punto la disposizione di tutti gli impianti di bordo (in mancanza dei CAD si faceva così), poi tutti i finanziamenti, su pressione statunitense, furono cancellati e deviati altrove. 
Figura 13: Schema di massima dell’Aerfer “Leone”
Altri aeroplani, più piccoli ma ugualmente ambiziosi, erano realizzati a Napoli in quegli anni, in particolare alla Partenavia Costruzioni Aeronautiche S.p.A., azienda nata e cresciuta dalla passione dei fratelli Pascale [7]. La denominazione comparve per la prima volta nel 1952, sul triposto P.52 “Tigrotto”, che prese parte al Giro aereo di Sicilia iniziato il 21 giugno ‘53. L'aereo montava, tra l'altro, un'elica in legno realizzata dagli stessi fratelli Pascale. In precedenza, i Pascale avevano già realizzato il biposto P. 48 “Astore”, in un'autorimessa di via Tasso a Napoli. 
Figura 14: P.48B “Astore”
 L’aeroplano era dotato di un motore Continental da 65 CV acquistato di seconda mano e fu trasportato a Capodichino al traino di una Balilla; li, dopo varie vicende, fu finalmente portato in volo con successo dal famoso Mario de Bernardi. Seguì il P.55 “Tornado”, vincitore di competizioni, ma il primo successo commerciale fu il P.57 “Fachiro”, quadriposto ad ala alta prodotto in 35 esemplari, per il quale fu realizzata la prima struttura produttiva dell'azienda, ad Arzano. I maggiori successi sono stati il biposto ad ala alta P.66 “Charlie” ed il bimotore a sei posti P.68 “Victor”. Il valido rapporto tra prestazioni e costi consentì al P.66 di ritagliarsi uno spazio in un mercato dominato dai colossi statunitensi, è stato prodotto in oltre 300 esemplari ed adottato come aereo scuola dall’Aero Club d’Italia. Il P.68, che ha fatto il primo volo nel 1972, è stato sviluppato in più varianti, incluse quelle con propulsione a turboelica, ed a lungo prodotto anche dalla Vulcanair, che negli anni ‘80 ha acquisito sede e progetti della Partenavia.
Nel suo primo periodo di attività la Partenavia fu l'unica azienda italiana basata esclusivamente sulla produzione di aerei leggeri. Nel ‘70 l'azienda, in piena espansione, aprì l'impianto produttivo di Casoria, vicino Capodichino, ed affiancò alla produzione di aeroplani quella di parti di cellule di aerei di linea. L'azienda entrò però in crisi, a causa delle instabilità di mercato che incisero su un'organizzazione finanziaria che, per un'impresa a conduzione familiare, non era solida quanto quella ingegneristica. L'azienda passò all'Aeritalia nel 1981, ma conservò il valore “intrinseco” dovuto alla qualità dei progetti; soprattutto la battuta d'arresto non determinò, per fortuna, la fine dell'impegno dei Pascale in campo industriale, che anzi si concretizzò pochi anni dopo nel nuovo marchio Tecnam. 
  Figura 15: Partenavia P.68
Il lavoro aereo propriamente detto, se si escludono cioè le fotografie dall'alto ed i lanci di volantini effettuati con cervi volanti, palloni aerostatici o altri mezzi “di circostanza”, è arrivato a Napoli relativamente tardi, con la “Servizi aerei Scappin”, fondata nel 1959 da Mario Scappin, veneziano trasferitosi a Napoli nel dopoguerra. La sua “flotta”, di base a Capodichino, arrivò a contare sei aeroplani di produzione Partenavia: quattro P.57 e due P.68, impiegati soprattutto nella pubblicità aerea e nella fotografia.


6  - CONTINUARE A VOLARE DOPO IL “BOOM ECONOMICO”: “ATR” E “TECNAM”
L’accordo che fondò il consorzio ATR risale al 1982 e fu firmato dal ministro dei trasporti francese Fiterman e dal ministro dell’industria italiano Marcora [3]. Entrambe le aziende coinvolte erano infatti a partecipazione maggioritaria pubblica: Aerospatiale sul lato francese ed Aeritalia – poi Alenia – su quello italiano. L’aereo nasceva dalla sfida di andare a riempire una casella vuota nel campo dell’aviazione civile, quella del trasporto regionale dove un “liner” classico risulta troppo oneroso ed un velivolo di aviazione generale troppo limitato. La realizzazione della fusoliera e degli impennaggi avvengono nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, l’ala e l’assemblaggio finale a Tolosa.
Il primo prototipo dell’ATR 42 volò il 16 agosto 1984, il primo atterraggio su suolo italiano, all’aeroporto di Roma Ciampino, è del 10 aprile dell’anno successivo. Tre giorni dopo, il 13 aprile 1985, l’ATR si presenta per la prima volta a Napoli Capodichino. Il certificato di omologazione internazionale arriva finalmente nel settembre 1985. La certificazione è firmata da entrambe le aziende consorziate, risultato fortemente voluto da parte italiana superando l’ostacolo che le prove di certificazione ed il primo volo di tutti i nuovi esemplari avvengono, per scelte contrattuali, sul suolo francese.
Il 14 giugno 1985 le due aziende avevano già deciso di sviluppare la versione allungata, l’ATR72, che ha effettuato il suo primo volo il 27 ottobre 1988. La fusoliera è allungata di 4.5 m, richiedendo un incremento di apertura alare e l’adozione di motori più potenti, sempre della serie Pratt & Whitney Canada PW100. Il primo esemplare è consegnato un anno dopo, nell’ottobre 1989, alla Finnair.
La configurazione turboelica, che poteva ad alcuni sembrare un azzardo, in epoca di jet, è risultata punto di forza per il rapporto costo/prestazioni che garantisce. A tutt’oggi le analisi economiche avvantaggiano questo tipo di velivolo per le tratte inferiori alle 300 miglia nautiche, dove l’incremento della durata del volo dovuto alla minore velocità di crociera è minimo. I primi anni 2000 hanno visto un preoccupante calo di vendite, dovuto alla comparsa dei “regional jet”, tuttavia il periodo critico è stato relativamente breve, perché il crescente costo dei carburanti ed una maggiore attenzione ai costi hanno ricondotto l’attenzione delle compagnie aeree sui turboelica. Nel 2009 i turboelica, a livello mondiale, hanno scavalcato i jet come numero di esemplari prodotti. Nel 2011 l’ATR copriva da sola il 18% delle vendite mondiali di trasporti regionali e siglava il suo migliore anno commerciale. Nel 2012 è stato consegnato l’ATR numero 1000, all’operatore spagnolo Air Nostrum. Le esigenze dei paesi emergenti sembrano garantire una prosecuzione dell’interesse per i prossimi anni, in attesa del “nuovo ATR”.

Figura 16: ATR42 MP “maritime patrol”
 Il fallimento della Partenavia e le amarezze conseguenti non potevano tenere il prof. Luigi Pascale a lungo lontano dalla progettazione aeronautica, nonostante i propositi a riguardo. Il P.92 nacque con la “scusa” di un esemplare unico per scopo personale, ma da questo concetto base derivò la semplicità ed efficienza che divennero il punto di forza del modello. I “marchi di fabbrica” ci sono tutti, a cominciare dallo stabilatore, cioè il piano orizzontale di coda tutto mobile. La nuova azienda, denominata “Costruzioni Aeronautiche Tecnam” nasce nel 1986 a Capua, nelle vicinanze della pista dell'Aero Club. L’idea base è semplice ma vincente: macchine che possano essere vendute come ultraleggeri o in versione certificata, in modo da venire incontro alle esigenze di clienti che cercano prestazioni da aviazione generale a costi più contenuti. Dopo il P.92 nascono il P.96 ad ala bassa, poi il P.2002 e 2004. Un’altra innovazione viene dal P.2006T “Very Light Twin”, quadriposto, il più piccolo bimotore certificato disponibile sul mercato. I motori sono Rotax che accettano benzina sia avio sia automobilistica. Il primo volo è del 13 settembre 2007, le certificazioni EASA CS23 e FAR Part 23 arrivano nel 2010. Il centesimo esemplare costruito è datato 26 novembre 2011. 
Figura 17: Tecnam P.92 RG
Al “Aero Friedrichshafen general aviation show” del 2011 i fratelli Pascale hanno presentato due nuovi progetti: il P2010, che segna il ritorno alla formula del monomotore quattro posti ad ala alta ed introduce, per la prima volta per la Tecnam, la fusoliera in composito; ed il P2012 “Traveller”, bimotore ad 11 posti progettato su ordinazione della Cape Air, linea aerea regionale basata nel  Massachusetts, che intende sostituire col nuovo velivolo realizzato “su misura” la sua flotta di bimotori che stanno raggiungendo la fine della vita commerciale. Del nuovo aereo, che rappresenta una novità assoluta per la Tecnam, è stata esibita la sola fusoliera. Impiegherà motori Lycoming TEO-540-A1A in grado di funzionare con benzina avio o automobilistica.
7 - RINGRAZIAMENTI E RIFERIMENTI
Voglio in primo luogo ringraziare i Prof. Leonardo Lecce e Francesco Marulo, che mi hanno stimolato ed ispirato ad iniziare le mie ricerche storiche da “hobbista evoluto”.
Devo anche ringraziare Giuseppe Peluso e Umberto Ricci Moretti, per la disponibilità, passione e le tante informazioni e riferimenti fornitemi su aspetti di storia aeronautica troppo trascurati.
Oltre ai riferimenti principali riportati di seguito, molte notizie sono ricavate da numeri storici della rivista “Flight International”, lodevolmente resi disponibili on-line, dal sito dell’associazione AVIA (http://www.avia-it.com), ricchissimo ma un po’ disordinato, nonché da numerose altre riviste e pubblicazioni italiane ed estere

 

Riferimenti:
[1]   G. Maisto, “Ad Astra, Pionieri Napoletani del Volo”, editrice “La Via Azzurra”, Napoli 1948
[2]   F. Bonifacio. L’Apporto di Napoli all’Aviazione dal Pionierismo al 1943. Orizzonti Economici, N. 25, Novembre-Dicembre 1959.
[3]   E. Sorrentino, “Aviazione Generale Civile e Militare in Campania”, Cuzzola Editore s.r.l., 1987
[4]   F. Pagliano, “Storia di 10.000 Aeroplani, L’Aeronautica Militare Italiana dal Giugno 1940 al Settembre 1943”, Mursia, 2008.
[5]   A. Marchetti, “Pionieri dell’Idroaviazione, 1900-1913”, Logisma, 2009.
[6]   B. Di Martino, “L’Aviazione Italiana nella Grande Guerra”, Mursia, 2011.
[7]   Giovanni Pascale “Fratelli Pascale Story: from the 30s onward”, Settembre 1971, disponibile sul sito Tecnam:  http://www.tecnam.com/About-Us/Story.aspx
[8]   Atti del convegno "Storia dell'Aerospazio in Campania", 09 Novembre 2011, disponibili sul sito AIAN: http://www.aian.it/mostra_news.php?i=93

sabato 9 novembre 2013

La Masseria alla Starza 1°







La Masseria alla Starza
Giuseppe, primo enfiteuta della Famiglia Daniele

Verso la metà del XVIII secolo, regnando Carlo III di Borbone, il territorio su cui sorge la masseria detta “La Starza” è domino diretto della Mensa Vescovile di Pozzuoli ed è condotto in enfiteusi da Giuseppe Daniele, un contadino puteolano.
La Mensa Vescovile, nel diritto ecclesiastico, rappresenta i beni che servono al sostentamento del Vescovo, dei suoi collaboratori e del seminario. Oltre ai beni immobili fanno parte della Mensa Vescovile anche gli utensili ed altri beni mobili e di questi il Vescovo deve compilare accurato inventario ed avere cura della loro efficienza e conservazione. Tutti questi beni sono originati da lasciti che regnanti o altri cittadini facoltosi concedono a parroci o vescovi particolarmente distintosi per opere pie. I beni immobili vengono poi dal Vescovo ceduti in enfiteusi in cambio di un canone annuo e la loro amministrazione è generalmente appaltata a concessionari incaricati della riscossione dei censi.
E’ bene ricordare che l’enfiteusi è un diritto reale di godimento su fondo altrui, che comporta per il titolare l’obbligo di coltivare e migliorare il fondo e di pagare un canone annuo in denaro o natura. Il contratto d'enfiteusi si afferma nel quinto/sesto secolo e spesso esiste un concedente che, oltre a percepire il canone, ha il diritto di affrancare il fondo qual’ora l’enfiteuta viene meno ai suoi obblighi. Durante il medioevo, con l’accentuarsi dell’obbligo di migliorare il fondo come carattere essenziale di questo tipo di contratto, l’enfiteusi contribuisce largamente alla redenzione economica di molte regioni italiane.
Il nostro fondo è conosciuto come “La Starza”, toponimo molto diffuso in tutta la Campania, che deriva dalla parola latina, tardo medioevale, “Startia - Starcia” che indica “terreno da seminare”. Il significato primitivo del nome rimane comunque alquanto oscuro in quanto alcuni studiosi lo inquadrano come indicante un vigneto con le vite sposate (appoggiate) all’olmo. Nel gergo napoletano “starza” acquisisce per estensione anche sinonimo di “fattoria” o, comunque, di “vasto podere”.
Ma come nasce questo toponimo nella nostra Pozzuoli?
Tutta la piana marina, sottoposta al costone marino che va da Pozzuoli ad Arco Felice, si inabissa in tarda epoca imperiale (quando ancora ospita quartieri, templi ed opere portuali), e poi riaffiora a seguito del bradisisma ascendente che culmina nell’eruzione di Monte Nuovo del 1538. Questo nuovo territorio è incorporato dal Regio Demanio così come accaduto per le prime e più antiche porzioni emerse molto prima dell’eruzione. Nel contempo è riaperta ai viandanti la strada che seguendo il tracciato dell'antica via Erculea collega Pozzuoli con Baia attraverso questo nuovo territorio che così riprende nuova vita e vigore anche se sempre più minacciose diventano le incursioni dei saraceni che proprio su questi lidi trovano sicuro e veloce approdo.
Subito dopo l’eruzione tutto il territorio si presenta in uno spettacolo devastante. Non c’è albero che non abbia avuto tutti i rami troncati, né si conosce che albero sia stato. Tutte le fabbriche sono cadute e sono morti gli animali domestici. I raccolti sono stati distrutti dai lapilli e dalla cenere che raggiunge lo spessore di oltre venti centimetri.
Ma tutto passa e, con la caparbietà degli abitanti e la volontà del viceré Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga, la vita riprende lentamente. Si ricostruiscono le fabbriche rovinate, si ritorna a coltivare e si ricomincia a pescare. Il viceré Don Pedro ha fatto bando che tutti i puteolani possano rimpatriare, facendoli franchi d'ogni pagamento per molti anni. Egli stesso, per dare loro coraggio, fa erigere un palazzo con torre, giardino e fontane, quale sua dimora. Fa costruire anche fontane e strade pubbliche, nonché una “starza” di lunghezza di un miglio tutta coltivata, arbustata e ricca di giardini e fonti. Proprio da questa fattoria vicereale l’iniziale nome “Starza” finisce per estendersi passando ad indicare tutta la zona circostante, compreso piana e costone marino.
Tra la fine del sedicesimo e l’inizio del diciassettesimo secolo troviamo gran parte di questo territorio in dominio della diocesi puteolana o comunque amministrato a beneficio dalla sua “Mensa Vescovile”. Essa ha provveduto a frazionarlo e concederlo in enfiteusi a contadini puteolani ed il fondo più significativo ed esteso che su di esso insiste, con annesse costruzioni rurali, è correntemente conosciuto come “Masseria alla Starza”.
A metà del settecento questa masseria risulta molto più estesa dell’ultima porzione residua che, tramandata nei secoli, costituisce l’attuale “Villa Maria alla Starza” della Famiglia Peluso.
Questi sono i suoi termini nel 1750, circa.
a - A settentrione confina con il costone detto “Terrazzo Marino della Starza” e ne comprende tutta la scoscesa parete verticale, esclusa la sommità che rientra nei beni del Cavaliere Don Ambrogio Cordiglia. Solo l’estremo versante, verso il Vallone Mandria, appartiene ad altra proprietà che in seguito, alla fine del diciannovesimo secolo, sarà assorbito nelle proprietà della famiglia Caracciolo, unitamente a quelle appartenute ai Cordiglia.
b - Ad oriente confina con l’alveo naturale che, proveniente dalla piana su cui insiste l’antica Consolare Campana (attuale via Celle), discende attraverso il Vallone Mandria e sfocia in mare in località Calcara. Detto alveo, attualmente ricoperto ed in parte attraversato da condotte di nafta, divide in modo naturale la “Masseria alla Starza” da altro fondo sottoposto sempre al dominio della Mensa Vescovile di Pozzuoli che ancora oggi ne possiede alcune porzioni. Esattamente quella su cui sorge la Chiesa e l’Istituto San Marco e quella dirimpettaia adibita a parcheggio auto; entrambe queste porzioni costituiranno un territorio unico fino alla realizzazione della via Antonio Maria Gaspare Sacchini che, attraversandolo, andrà a dividerlo quasi a metà.
c - A mezzogiorno confina con la palude marina appartenente al demanio della “Università di Pozzuoli” che la ottenne per mezzo dei regi decreti antecedenti l’eruzione di Montenuovo. Tale palude, formatasi in seguito al nuovo moto discendente del bradisisma, è separata a malapena dal mare dalla strada che conduce a Baia e che ora, nel 1750, è già quasi completamente sommersa.
d - Ad occidente confina parte colli beni del Signor Agostino Barletta e parte con l’antico mulino ad acqua che utilizza (mediante condotte forzate, vasche e cisterne) l’antico acquedotto campano ancora funzionante perché ben protetto nelle visceri del costone. Secoli di incursioni barbariche e d'eventi tellurici ed alluvionali nulla hanno potuto contro questa meraviglia dell’ingegneria idraulica romana; solo i tecnologici progettisti della Ferrovia Cumana sono riusciti a cancellarne ogni traccia dopo circa ventidue secoli.
Oltre l’antico mulino ad acqua, ed oltre l’attuale complesso “borgo mulino” (ex proprietà Mirabella) esistono, nel diciottesimo secolo, altri fondi sempre in dominio della Mensa Vescovile. Essa ancora oggi ne possiede alcuni residui, condotti in enfiteusi, e racchiusi tra la linea ferrata della Cumana ed il retrostante costone marino.
Entro i suoi confini il Territorio è di circa sette moggia, l’antica misura dei terreni agricoli di valore variabile a secondo i luoghi. Il moggio napoletano, cui ci riferiamo, è di circa 3.365 metri quadri ed a sua volta si divide in quarte, none e quinte. Quindi il Territorio si estende per oltre 23.000 metri quadri e si presenta già ben curato, alberato, particolarmente predisposto verso la viticoltura e la produzione di frutti pregiati. E’ ben dotato di comodi rurali costituiti sia da attrezzi propriamente agricoli sia da locali accessori quali forno, casotto per maiali, cisterna, ed altro. Probabilmente comprende anche qualche cavità scavata o appena abbozzata nel dolce materiale che costituisce il retrostante costone.
A metà del ‘700 ancora non esiste la provinciale via Miliscola (attuale Nicola Fasano) perché la strada che mena a Baia ricalca, come visto, il percorso dell’antica Via Erculea. Essa inizia dall’attuale via Roma, grosso modo all’altezza del serapeo, e costeggiando l’antica ripa, ora occupata dai vari cantieri, si dirige verso Lucrino e Baia. Tracce di questa strada, abbandonata tra il 1785 ed il 1786 perché invasa dal mare, sono ancora visibili su foto e cartoline dei nostri anni ’50. Da questa strada si dirama, all’altezza degli attuali uffici della “Nautica Maglietta”, un viottolo che conduce al mulino ad acqua e conseguentemente alla nostra masseria. Per mezzo di un ingresso con piccola lamia e portone di legno ci s'immette nell'anzidetto fondo ove in principio s’incontra un “bassolino” senza porta e senza “astraco solare”, poscia una tettoia addossata al muro che fa da confine con l’antico mulino.
Poi a fronte di un piccolo stradone, di circa trenta passi di più vi esistono:
a - due bassi grandi a lamie per uso “cellajo” e “casone”;
b - esistono due altri piccoli bassi da servire uno per uso cavallini accosto
ai cennati due bassi grandi, ed un altro per uso di neri (maiali), sistente a sinistra entrando detto portone;
c - di più vi esiste un loggiato sostenuto da quattro pilastri di fabbrica, di palmi quattordici circa ognuno, sistemati avanti ai detti bassi grandi;
d - esiste l'aja larga circa 20 palmi quadrati, per tritolare le vettovaglie del Territorio, circondata da muro alto circa 3 palmi;
e - un tinuccio di fabbrica di circa 6 botti, dietro i due bassi antichi;
f - tavola di fabbrica, con poggi anche di fabbrica;
g - lavatoio pure di fabbrica;
h - una cucinetta lunga palmi 16 e larga palmi 8, con focolare e porta lastricata;
i - una cisterna d'acqua piovana, davanti ai due bassi antichi, che si eleva di circa 20 palmi e capace di circa 50 botti.
Nel cellajo (oltre a botti, barili e tini) sono presenti un torchio definito “ingegno alla francese” e nove grossi fusti. Poiché ogni fusto ha la capacità di due botti (la botte ha la capacità di tre pippe, la pippa ha la capacità di cinque barili, il barile ha la capacità di 44 litri) facilmente risaliamo alla capacità totale dei nove fusti che possono contenere in complesso 11.880 litri di vino.
Una produzione annua di circa 12.000 litri, ottenuta tutta con uva fornita dalla masseria stessa, rappresenta un buon dato considerando le modeste tecniche e sofisticazioni dell'epoca.
Giuseppe Daniele conduce il tutto per mezzo di un contratto enfiteutico, ma non sappiamo esattamente da quando tempo; stipulato probabilmente attorno all’anno 1750, durante l’episcopato di Monsignor Nicola De Rosa. Neppure sappiamo se Giuseppe sia il primo enfiteuta della famiglia Daniele, a condurre il fondo, o sia subentrato nel contratto per successione di suoi ascendenti così come poi succede ai i suoi discendenti.
Noi optiamo per questa seconda ipotesi poiché difficilmente, salvo gravi motivi, questo particolare tipo di contratto viene revocato. Ad ogni modo solo un approfondito studio dei documenti conservati presso l’archivio vescovile potrebbe risolvere questo dubbio.
Il periodo di conduzione del fondo da parte di Giuseppe Daniele coincide all'incirca con il fulgido regno del Borbone Carlo III; un’epoca relativamente tranquilla, rivolta al miglioramento delle condizioni di vita. Lo stesso re Carlo inizia la valorizzazione dei beni archeologici flegrei, subito dopo quelli di Ercolano e Pompei, iniziando a mettere in luce il complesso del Serapide vicinissimo alla “Masseria alla Starza”.
Nello stesso tempo è definitivamente sistemato lo scorrimento dell’Alveo Campano e per quest'operazione il Territorio, che come abbiamo visto con esso confina, è soggetto ad una prima parziale espropriazione. Perde quella striscia di terreno che, fiancheggiando la sponda destra dell’Alveo, s'incunea fin dentro il Vallone Mandria venendolo a dividere giusto a metà; così come appare da alcuni antichi acquarelli.
Giuseppe Daniele, coadiuvato dalla moglie e dai figli, svolge proficuamente e tranquillamente il suo compito di contadino fin quando sopraggiunge la sua morte verso la fine dell’anno 1778.

Giuseppe Peluso - Pozzuoli Magazine del 18 maggio 2013