sabato 21 gennaio 2012

Artemisia Gentileschi - Portò a Pozzuoli la sua passione violata










Artemisia Gentileschi
Portò a Pozzuoli la sua passione violata


A Milano, o meglio al “Palazzo Reale” di Milano, è visitabile dal 22 settembre 2011 al 29 gennaio 2012 una mostra dedicata ad Artemisia Gentileschi. Ci son voluti circa quattro secoli per vedere riconosciuti i meriti dell’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura, colore e impasto; anche le maggiori enciclopedie parlano di lei solo in appendice al famoso padre.
E pensare che la nostra Cattedrale, a Pozzuoli, custodiva ben tre sue opere di cui due ora in esposizione a Milano.
Artemisia nasce a Roma l’otto luglio 1593 primogenita del pittore pisano Orazio Gentileschi e di Prudenzia Montone. Presso la bottega paterna, assieme ai fratelli ma dimostrando maggiore talento rispetto ad essi, Artemisia ha il suo apprendistato artistico fin dal 1609, imparando il disegno, il modo di impastare i colori e il dar lucentezza ai dipinti. Ben presto mostra un talento precoce, che viene stimolato dall’ambiente romano e dal fervore artistico che gravita intorno alla sua casa, frequentata assiduamente da altri pittori, amici e colleghi del padre che si rifà all'arte del Caravaggio con cui Orazio ha rapporti di familiarità. L'apprendistato presso il padre rappresenta per Artemisia l'unico modo per esercitare l'arte, essendole negato l'accesso al lavoro autonomo e la possibilità di crearsi un proprio ruolo sociale.
La prima opera attribuita alla diciassettenne Artemisia è la “Susanna e i vecchioni” (foto n.1) del 1610. Nel racconto biblico la casta “Susanna” viene sorpresa, mentre fa il bagno, da due vecchi libidinosi che la ricattano; o lei si concede o diranno al marito di averla sorpresa con un amante. E’ stato facile associare la pressione esercitata dai due “vecchioni” su “Susanna” al complesso rapporto di Artemisia con il padre e con Agostino Tassi, il pittore che nel maggio 1611 la stupra. Tra l'altro, uno dei due “vecchi” è particolarmente giovane e presenta una barba nera come quella che, secondo alcune fonti, sembra avesse il Tassi; l'altro “vecchio” ha fattezze simili a quelle raffigurante proprio Orazio Gentileschi. E’ poi evidente la somiglianza della figura di Susanna con gli autoritratti dell’autrice. In molti hanno pensato che Artemisia abbia voluto alludere, attraverso questo quadro, all'inizio dell'oppressione subita da figure troppe ingombranti per la sua esistenza di donna e di pittrice. Ha circa tredici anni Artemisia quando, assieme ai suoi tre fratelli minori, resta orfana della madre. Una perdita inconsolabile che il vedovo Orazio provvede ad intorpidire diventando avventore assiduo di bettole e osterie. E’ allora che l’amore per la figlia cambia in gelosia ossessiva che vieta ad Artemisia di mettere piede oltre l’uscio di casa. Si narra che nel quartiere si fosse accesa una morbosa curiosità per quella ragazzina che nessuno vedeva, ma che il padre insultava a gran voce imputandole atteggiamenti immorali. Diffamando la figlia, con le sue farneticazioni scabrose, Orazio contribuisce ad instillare una curiosità ancor più insidiosa in alcuni suoi compagni di bevute, tra cui quell’Agostino Tassi, detto lo “smargiasso”, anch’egli pittore, che vuole sperimentare di persona l’asserita dissolutezza sessuale di cui l’amico accusa la figlia. Comincia così il dramma che accomuna Susanna e Artemisia; costretta a subire in casa l’insinuante presenza dell’amico paterno e, come la giovane bagnante prima bramata dallo sguardo dei due “vecchioni” e poi violentata, non correrà molto tempo che anche lo “smargiasso” stuprerà la fanciulla. E’ il 1610, Artemisia ha diciassette anni. E’ frequente che Agostino si trattenga nella dimora dei Gentileschi dopo il lavoro; secondo alcune fonti è lo stesso Orazio a introdurlo ad Artemisia, chiedendo ad Agostino di iniziarla allo studio della prospettiva. Il padre denuncia il Tassi che dopo la violenza non ha potuto "rimediare" con un matrimonio riparatore. Il problema è che il pittore è già sposato. Del processo che ne segue è rimasta esauriente testimonianza documentale, che colpisce per la crudezza del resoconto di Artemisia:
«Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne.»
Ma colpisce anche per i metodi inquisitori del tribunale; Artemisia accetta di deporre le accuse sotto tortura. Questa consiste nello schiacciamento dei pollici attraverso uno strumento detto “Sibilla” usato ampiamente all'epoca e così detto perché si riteneva che la verità sarebbe scaturita come dall’oracolo cumano. La testimonianza di Agostino Tassi è così palesemente falsa e contraddittoria che il giudice deve fermarlo più volte per chiedergli di smettere di mentire. Agostino dichiara di non aver mai avuto rapporti carnali, né ha cercato di averne, con la Artemisia. Poi dice che Artemisia dormiva ripetutamente con cinque uomini diversi; che ha avuto un incesto con il padre che l’avrebbe anche venduta per un tozzo di pane. Poi fa riferimento a lei, così come alla sua defunta madre alle zie e sorelle come prostitute con un continuo flusso di uomini in casa Gentileschi. Gli atti del processo, conclusosi con una lieve condanna del Tassi, avranno larga conseguenza sul futuro dell’artista che acquisirà un alto livello di spregiudicatezza ed un carattere “da bella e impossibile”. La tela che riproduce “Giuditta che decapita Oloferne” (foto n.2), conservata al Museo di Capodimonte ed ora presa a simbolo della Mostra, impressiona per la violenza della scena che raffigura, ed è stata interpretata come desiderio di rivalsa rispetto alla violenza subita. Non c'è dubbio che l'uccisione di Oloferne evochi anche la vendetta della donna contro il maschio violento e violentatore; qui la donna più che vittima è carnefice. L’ancella aiuta attivamente la protagonista, con le sembianze di Artemisia, tenendo fermo Oloferne, ritratto con il volto di Agostino, che si dibatte nell’inutile tentativo di salvarsi. Sorprendente il moto di Giuditta che è quello di scostarsi al possibile pericolo che il sangue possa sporcargli l’abito. La Bibbia narra che Giuditta, al tempo di Nabucodonosor, vive nella città giudea di Betulia sotto assedio da parte di Oloferne, generale assiro. Ridotti allo stremo per fame e sete gli israeliti vogliono arrendersi ma Giuditta convoca gli anziani, rimprovera loro la scarsa fede, ne ottiene la fiducia e, invocata per sé la protezione del Dio di Israele, si presenta ad Oloferne con la sua serva e con doni, fingendo di essere venuta a tradire i suoi. Oloferne l’accoglie entusiasta e dopo tre giorni la invita al suo banchetto, credendo di poterla anche possedere. Ma quando viene lasciato solo con la donna è perdutamente ubriaco. Giuditta ne approfitta, lo afferra per la chioma e con tutta la forza di cui è capace lo colpisce al collo e gli stacca la testa.
Dopo la conclusione del processo, Orazio Gentileschi combina per Artemisia un matrimonio con Pierantonio Stiattesi, modesto artista fiorentino, che restituisce ad Artemisia, violentata, ingannata e denigrata dal Tassi, una posizione di sufficiente "onorabilità". La coppia si trasferisce a Firenze, dove Artemisia conosce un lusinghiero successo e dove incontra Buonarroti il giovane, nipote di Michelangelo, nonché Galileo Galilei.
A Firenze ha quattro figli, di cui la sola Prudenzia vive sufficientemente a lungo da seguire la madre nel ritorno a Roma e poi a Napoli. L’intesa col marito si incrina fino a farsi inconciliabile; lei ha un'altra figlia naturale e poi ritorna a Roma quando il padre Orazio parte per Genova. Artemisia crede di stabilirsi a Roma come donna ormai indipendente, in grado di prender casa e di crescere le figlie. Ma, nonostante i riconoscimenti ottenuti dagli altri artisti, lo scandalo a suo tempo suscitato dallo stupro, che fa fatica a essere dimenticato, la costringe ad abbandonare nuovamente Roma perdendo il favore acquisito. È certo che nel 1627 si stabilisce, alla ricerca di migliori commesse, a Venezia. Poi nel 1630 Artemisia si reca a Napoli città fiorente di cantieri e di appassionati di belle arti con ricche possibilità di lavoro. Per Napoli sono già passati Caravaggio e Annibale Carracci; inoltre in quegli anni vi lavorano Josè de Ribera, Massimo Stanzione, Giovanni Lanfranco e altri ancora. Nella metropoli partenopea l'artista vi resta, salvo la parentesi inglese, per il resto della sua vita. Napoli è dunque per Artemisia una sorta di seconda patria anche se spesso precisa: «Io so’ romana!». A Napoli presta massima attenzione alla sua famiglia e qui marita, con appropriata dote, le sue due figlie. Riceve attestati di grande stima ed è in buoni rapporti con il viceré Duca d'Alcalá e con i maggiori pittori che vi sono presenti a cominciare da Massimo Stanzione con il quale inizia una intensa collaborazione artistica. Qui, per la prima volta, Artemisia si trova a dipingere tele per una Cattedrale, quella di Pozzuoli. Nonostante sia già famosa nessun ente ecclesiastico gli ha mai passato commesse. Cardinali, Vescovi e prelati in generale ancora considerano le donne esseri inferiori per natura e per legge; dunque si è riluttanti a pattuire con esse. Considerazione che restituisce, agli occhi di noi puteolani, ancora più interessante e moderna la figura del Vescovo Martin de Leon y Cardenas che punta su questa artista per la realizzazione di tre grandi pale d’altare, collocabili tra il 1633 e il 1638, anno della partenza della Gentileschi per l’Inghilterra. Tra gli impegni, voluti da questo Pastore, troviamo una delle maggiori opere di Artimisia, il “Martirio di San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli” (foto n.3). La scena rappresentata ci mostra l'istante in cui le belve sono ormai ammansite mentre San Gennaro, che indossa la mitria vescovile e si appoggia al bastone pastorale, solleva la mano destra quasi a voler benedire le fiere. Intorno a lui i suoi seguaci esprimono stupore per il prodigio e venerazione per il santo. Sullo sfondo si osserva, fedelmente rappresentata, la facciata del “Colosseo”. Questo anfiteatro, ben conosciuto dalla romana Artemisia, viene ritratto al posto di quello puteolano; ma è ripreso dall'esterno e con la presenza di belve libere. La seconda opera puteolana e “l’Adorazione dei Magi”. In questo dipinto si nota come l’artista si sia "napoletanizzata" per lo stile dei personaggi rappresentati. I re che si prostrano nell’Adorazione dei Magi sono quanto di più "spagnoleggiante" si possa immaginare. Questo quadro attira per la soave dolcezza che s'irradia dalla Vergine e per la espressione reverente e commossa del re chinato a rendere omaggio al Bambino Gesù. E’ interessante notare che le figure maschili sembrano sproporzionatamente grandi rispetto alla Vergine col Bambino.
Terza opera del ciclo puteolano, anch’essa esposta a Milano, è “I Santi Procolo e Nicea” (foto n.4). E’ utile ricordare che Pozzuoli, oltre il patrono e compagno di martirio di S. Gennaro, ha avuto un altro San Procolo figlio di una Santa, Nicea patrizia puteolana. Madre e figlio furono sottoposti a martirio, mezzo secolo prima del più famoso episodio, durante la violente persecuzione di Decio dell’anno 249.
Nel 1638 Artemisia raggiunge il padre a Londra dove Orazio è diventato pittore di corte. Il re Carlo I è un collezionista fanatico, disposto a compromettere le finanze pubbliche pur di soddisfare i suoi desideri artistici. La fama di Artemisia deve averlo incuriosito; le informazioni mondane dell'epoca dicono che è donna di straordinaria avvenenza. Nelle sue tele le sembianze delle formose ed energiche eroine che vi compaiono (vedi foto n.5) hanno le fattezze del suo volto e chi commissiona le sue tele desidera avere una immagine che ricordi visivamente la pittrice, la cui fama va crescendo. Il successo, unito al fascino che emana dalla sua figura, alimenta sempre battute e illazioni sulla sua vita privata. Ora il re d’Inghilterra la reclama e un rifiuto non è possibile. Sappiamo che solo nel 1642, dopo aver amorevolmente assistito il padre morente, Artemisia lascia l'Inghilterra e poco o nulla si sa degli spostamenti successivi. Nel 1649 è nuovamente a Napoli dove nel 1650 l'artista è ancora in piena attività; muore in questa città nell’anno 1653; qualche fonte evoca la peste del 1656.
Rivedremo mai la “bella e impossibile” Artemisia a Pozzuoli?



Giuseppe Peluso