martedì 11 luglio 2017

La Villa di Livia


La Villa di Livia
e
figlio ‘ra gallina janca”

Pozzuoli vanta, tra gli immensi reperti archeologici, i ruderi di una villa imperiale che si vuole essere stata residenza estiva di Livia Drusilla, moglie di Ottaviano Augusto primo imperatore romano [1].

Augusto nell’anno 41a.C. ripudia Clodia, la prima moglie e sposa Scribonia; due anni dopo si innamora della bellissima Livia, appartenente ad una delle più illustri famiglie patrizie romane. Livia è la moglie di un certo Tiberio Claudio Nerone dal quale ha avuto il primogenito di nome Tiberio (che sarà imperatore alla morte di Augusto suo padre adottivo) ed è in attesa del secondogenito Druso (che sarà un importante politico e militare).
Ottaviano la porta nelle sue nuove case, quella romana e quella puteolana, unitamente al di lei figlio Tiberio ed a sua figlia Giulia avuta dalla seconda moglie Scribonia.
Svetonio racconta che Ottaviano non ha nessun figlio da Livia, benché lo desideri moltissimo; Livia ha una gravidanza, ma il bambino nasce prematuramente e non sopravvive.

Della villa puteolana di età imperiale ma posteriore all’epopea di Livia [2], 

oggi rinomata “location for events”, sappiamo che in una sala absidata vi fu rinvenuta una statua marmorea in cui l’imperatrice è immortalata come “Livia Fortuna”. Ovvero nelle vesti di Dea della Fortuna, e questa scultura, unitamente al gruppo di Dioniso e Pan, è conservata al “Copenaghen Ny Carlsberg Glypthotek”. Altri reperti ritrovati in questa villa sono invece conservati al “Museo Archeologico dei Campi Flegrei” di Baia.

Della villa romana sappiamo che è stata ritrovata nel 1863 in un area ove per vari indizi già si presumeva si trovasse la villa suburbana di Livia [3].

Essa è menzionata da vari scrittori antichi, nella zona di Prima Porta, dai quali apprendiamo che era detta “ad gallinas albas” (alle galline bianche) a causa di un prodigio che qui s’era verificato.

Nell’imminenza dello sposalizio della coppia imperiale un aquila che ha rapito una gallina bianca, che nel becco stringe un ramoscello di alloro, la lascia cadere in grembo a Livia.
Plinio, nella “Naturalis historia”, e Svetonio, nel “De vita duodecim Caesarum”, narrano che su indicazione degli aruspici Livia fa allevare la gallina che ha una numerosa progenie; l’imperatrice vieta di uccidere questa discendenza, per trarne gli auspici, e ben presto la villa diventa famosa con il nome “Alle Galline Bianche” [4].

Nel contempo Livia pianta nella villa quel ramo di lauro, fornite di bacche; ne nasce un boschetto di alloro, il “laurentum”, da cui gli imperatori colgono le fronde utilizzate per celebrare i trionfi [5].

Diventa tradizione, per chi festeggia le vittorie, piantare subito un altro alloro nello stesso posto di quello utilizzato e ben presto si nota che quando un imperatore muore inaridisce anche l’albero che ha piantato.
Poi nell’estremo anno di vita di Nerone, ultimo della dinastia “Giulio-Claudi”, non solo si secca tutto il laureto fino alle radici, ma muoiono anche tutte le galline.

Da allora i Latini definiscono “bianchi” gli avvenimenti felici e collocati sotto buoni auspici e “neri” gli avvenimenti opposti. Ancora noi, loro discendenti, utilizziamo il bianco per i momenti felici (battesimi, nozze, etc) e il nero per i momento non felici (funerali, lutto, etc).
Giovenale nelle sue “Satire” scrive:
“Quia tu gallinae filius albae, nos viles pulli, nati infelicibus ovis” (Poichè tu sei figlio della gallina bianca, noi siamo poveri pulcini nati da uova disgraziate).
Il Poeta allude alla diversa sorte degli uomini: alcuni nascono sotto una buona stella, altri sotto un’infausta cometa. 

L’imperatrice Livia, che in seguito sarà divinizzata, incarna tutti coloro che godono di una fortuna rara e provvidenziale; e questo è il motivo per cui la Livia puteolana è rappresentata sotto le vesti dell’abbondanza e della Dea Fortuna [6].

Alzi la mano chi tra noi, rivolto verso qualche parente, amico o semplice conoscente che si ritenga una persona particolare con diritto a tutti i privilegi, non abbia mai pronunciato la frase:
“Chi credi di essere? Sei forse figlio della gallina bianca?”
Ovvero in dialetto: “sì u’ figlio ‘ra gallina janca?”

Giuseppe Peluso