sabato 27 luglio 2019

Henry James Johnston-Lavis


Johnston-Lavis Collections – Una stampa del vulcano Solfatara

Henry James Johnston-Lavis
Da Londra a Pozzuoli, dalla medicina ai fossili, dalla geologia al colera

Henry James Johnston-Lavis nasce a Londra il 19 luglio dell’anno 1856.
Discende da una vecchia famiglia ugonotta francese, i "de Levis", che, causa le persecuzioni religiose, emigrano in Gran Bretagna nel diciassettesimo secolo; alla fine si insediano nel Devonshire, dove è acquisita della terra ancora oggi in possesso della famiglia.
Il loro nome è anglicizzato e trasformato in Lavis ed a questo Henry James aggiunge il cognome della madre, Johnston [1].

Henry riceve la sua educazione primaria presso la “Grammar School” di Iver, Bucks, sotto la direzione del Rev. W. E. Oliver, in seguito Vicario di Ealing. Pieno di buon umore, è sempre nei guai con i suoi maestri per qualche scherzo innocente o altro, durante le ore di scuola.
Il suo vecchio compagno di scuola, il signor Harry Kimber, scrive:
“… di conseguenza riceveva più frustate di tutti i ragazzi messi insieme, ma presto dimenticava le sue pene e teneva la classe in allerta con ulteriori battute, seguite da ulteriori punizioni " [2].

E’ a Iver che si verifica un semplice incidente che determina il suo interesse in geologia per tutta la vita; un sasso lanciato contro di lui da un compagno di scuola altro non è che il guscio di una conchiglia di Echinoderma. Henry è colpito dall'aspetto curioso della pietra, ora conservata tra le reliquie di Famiglia, che così diventa il primo esemplare di una collezione che alla fine diventerà unica nel suo genere [3].

A diciannove anni Henry si unisce alla Società Geologica e scrive diversi articoli su questa materia, uno dei quali pubblicato sul “Journal of the Geological Society”, prima che abbia vent'anni. 
Dopo l’educazione primaria inizia la sua formazione medica presso l'University College, a Londra, e qui subisce l'influenza del Prof. John Morris, dal cui insegnamento rafforza la passione per gli studi geologici.
Dopo aver conseguito la laurea in “MRCS” a Londra, e ricoperto alcuni incarichi medici minori sia in Inghilterra che in Francia, si dedica con passione alla sue ricerche di fossili ed ai suoi studi geologici.
Per diversi anni Lavis fa uno studio attento dei Terziari della Bassa Londra esposti ora a Charlton e Lewisham, nel Kent.
Nel suo lavoro sanitario la Fisiologia lo attrae più dell’Anatomia, tuttavia trasforma le sue conoscenze mediche in un resoconto pratico conducendo corsi serali sulla Fisiologia Animale presso il vecchio Politecnico, in Regent Street; sedute che gli permettono di guadagnare dalla sua passione.


Nel gennaio del 1879 sposa Mademoiselle Antonia Francoise Bourdariat de Saint-Aupre, conosciuta a Marsiglia, delle cui qualità così testimonia nella dedica alla sua ultima opera pubblicata:
"… attraverso una lunga vita matrimoniale mi ha incoraggiato nel lavoro medico e scientifico, offrendomi un valido aiuto e apprezzamento, favorendomi a superare difficoltà quasi insormontabili" [4].

Abbandonando Stalbridge a febbraio, trascorre la maggior parte del 1879 come assistente medico a Plaistow e, dopo aver preso il grado di "B.-es-Sci. Paris", alla fine dell’anno si trasferisce a Napoli.

Qui apre uno studio come medico consulente e inizia a praticare tra coloro che parlano inglese, siano essi britannici, americani o delle colonie, che si trovano a Napoli come residenti o visitatori.
Una delle prime osservazioni fatte nel corso del suo lavoro medico è quello di tracciare la connessione tra alcuni disturbi gastrici prevalenti e il consumo di molluschi, un argomento che è stato poi ampiamente da lui trattato in un secondo momento.
L'anno 1882 lo trova a ricoprire la carica di consulente medico presso il “Naples Sailors' Rest” (Casa o Riposo del marinaio, strutture presenti nei maggiori porti mondiali) in cui la signora Johnston-Lavis funge segretario [5].

Offertagli la opportunità, dalla “Compagnia di Navigazione Trinacria” con la quale firma un contratto, fa un viaggio negli Stati Uniti dal 3 al 28 giugno del 1883. Sfortunatamente soffre così gravemente il mal di mare che quando si presenta l’unico caso in cui si richiedono i suoi servizi professionali non si regge in piedi e deve essere sostenuto da due marinai su entrambi i lati. L’unico beneficio di questo viaggio lo riceve visitando varie località geologicamente interessanti, tra cui Niagara.
Una volta tornato in Italia, per meglio poter svolgere il suo lavoro professionale, Johnston-Lavis consegue la laurea di "Dottore di Medicina e Chirurgia" all'Università di Napoli nel gennaio 1884.

Nell’estate del 1884, importata da alcuni operai provenienti da Marsiglia e Tolone, arriva in Italia una epidemia di colera che colpisce principalmente il meridione e Napoli in particolare. Le condizioni igieniche dei cosiddetti “bassi” sono molto precarie e Napoli conterà circa ottomila morti [6].

Proprio nel corso di questa estate Johnston-Lavis trascorre circa quindici giorni a indagare sulla struttura geologica dell’isola di Ponza. Il colera sta infuriando sulla terraferma e gli isolani, non comprendendo l’operato di un uomo che con un martello rompe pezzi di roccia avvolgendoli poi nella carta "come se fosse formaggio", arriva alla conclusione che questo personaggio sia stato inviato dal governo per diffondere "Polvere di colera" [7].

E’ purtroppo questa una credenza abbastanza diffusa e pertanto gli ordinano di andarsene dall’isola con il primo piroscafo disponibile; cosa che per sicurezza è costretto a fare.
Per debellare l’epidemia il 15 gennaio 1885 è emanata la cosiddetta “legge per Napoli” che segna un punto di svolta nella politica governativa dell'Italia unita con l’imporre norme igienico-sanitari pubbliche e private che le municipalità debbono far osservare a tutti i cittadini. Prioritario è un sistema fognario, l'edificazione di nuovi quartieri, la costruzione di nuove strade e piazze e il risanamento dei luridi “bassi” e “tuguri”.

Nel mentre sono attuate le norme varate dalla legge per il risanamento di Napoli, e sebbene la principale epidemia di colera si sia placata, ricadute della malattia sono registrate nel 1886 e nella tarda estate del 1887 quando un ultimo focolaio epidemico colpisce ferocemente Pozzuoli e il suo circondario.
Il capoluogo flegreo conta un elevato numero di case malsane al Rione Terra, nei quartieri ad esso addossati e al borgo marinaio; al Pendio San Giuseppe e in tutto quel groviglio di abitazioni fatiscenti che sono tra il borgo del Rosso, il rione Torre e il Palazzo Pollio [8].

Come racconta Rosario Zanni, nel suo “Malaria”, il 1887 è anno, di lutti e cambiamenti, che i puteolani non avrebbero più dimenticato. Una repentina aggressione di epidemia colerica sta colpendo moltissime famiglie; i negozi sono chiusi, le strade deserte; la contrada Ospizio è completamente abbandonata.
Strade dissestate, carenza di fogne, di cessi, mancanza di acqua corrente nelle abitazioni provocano una notevole mortalità infantile. Le pessime condizioni igieniche della città sono poi aggravate dalla presenza delle acque stagnanti del mare e del sottosuolo che hanno invaso la parte bassa della città.
Dal 1891 si inizia ad affrontare quest’ultimo inconveniente con la sistemazione della banchina, preludio al futuro risanamento delle zone limitrofe a Santa Maria delle Grazie, e nel 1892 si fa giungere a Pozzuoli l’acqua del Serino. Necessaria è la creazione di un lazzaretto, alle pendici di Monte Nuovo, ma la maggior parte dei puteolani nasconde alla vista dei medici i familiari colpiti dal morbo.
Nel marzo dello stesso anno 1887 Johnston-Lavis è stato nominato “Chief Medical Officer” per i grandi cantieri di recente aperti a Pozzuoli dalla “Sir W. Armstrong, Mitchell & Co., Ltd.” di Newcastle. Il suo compito è quello di dirigere il settore medico della fabbrica e curarsi della salute delle maestranze provenienti dall’Inghilterra [9].

Ma ben presto Henry è completamente assorbito dall’emergenza colerica che minaccia tutti indistintamente, inglesi e italiani.
Così scriverà nelle sue memorie il dottor Louis Westenra Sambon, un medico italo inglese, che sarà un pioniere della “Medicina Tropicale” e dei “vermi parassiti”, all’epoca residente a Napoli e giovanissimo amico di Henry [10]:

"Lavis si è occupato dei dipendenti stranieri colpiti e ha preso tutte le misure sanitarie necessarie per la protezione degli operai italiani. So che aveva una tremenda paura di questa terribile malattia “Gangetica” [dal Gange indiano da cui proveniva il ceppo colerico] che era considerata insidiosa, rapida e mortale come il morso del cobra. Ma nessuno avrebbe mai pensato di vedere con quale apparente disprezzo della vita lavorava giorno e notte, spesso senza cibo, sempre stanco, per salvare la vita degli altri.
Quando il suo collega di Pozzuoli [probabilmente il dottor Ivo Fiaccarini] ha contratto l'infezione Henry è venuto da me. Non lo dimenticherò mai, sembrava orribile, e io gli ho promesso di sostituirlo e di andare quella stessa notte a condizione che lui si riposasse".
Fortunatamente le sue occupazioni professionali non assorbono tutto il suo tempo ed è proprio a Napoli che inizia i suoi studi vulcanologici.
Al giovane, energico e ardente geologo, il Vesuvio, con i suoi numerosi affascinanti problemi, rappresenta una pietra miliare cui dedicare, nel tempo libero, il suo studio e le sue ricerche.
Innumerevoli sono i suoi scritti su argomenti legati al Vesuvio e ai vulcani dell’Italia Meridionale incluso uno studio esauriente sul grande terremoto di Casamicciola. Johnston-Lavis si precipita nell’isola di Ischia, dopo la prima scossa, inizialmente per prestare la sua opera di medico e poi per studiare gli effetti del terremoto e comprenderne l’origine. Lo studio dura più settimane e lui torna più volte sull’Isola, ma non è sul luogo quando avviene il terremoto del 28 luglio 1883. Studia in dettaglio anche gli effetti di questa scossa e dimostra, in polemica con tutti gli altri scienziati ma in accordo con Mercalli, che tutte le scosse avvenute hanno un ipocentro molto superficiale. Il suo lavoro sul terremoto ha come risultato una serie di raccomandazioni da seguire nel progettare la ricostruzione [11].

Ma forse il suo lavoro più importante è il completamento, con grandi difficoltà, del suo studio sul Vesuvio nel 1880-88 e la pubblicazione della sua Carta Geologica, poi aggiornata con l'aggiunta di alcuni flussi di lava durante l'eruzione del 1906; mappa su cui ancora oggi c'è poco da modificare.
Il 14 dicembre 1892 è nominato Professore di Vulcanologia nella Reale Università di Napoli; nel 1893 è eletto membro onorario del Società Geologica di Edimburgo.

Nel suo zelo, per far bene il suo lavoro, non si è mai risparmiato e spesso ha preso grandi rischi. Suo frequente compagno di quei giorni è ancora il dott. L. Sambon che racconta:
"Molte volte ho temuto per Lavis il cui nome dovrebbe essere scritto sulla stessa tavoletta che porta quelli di Empedocle, Plinio il Vecchio e Louis Coutrel. L'ho visto cadere da altezze pericolose, mentre cercava di raggiungere alcuni esemplari di minerali particolarmente interessanti; in due occasioni il vulcano irato gli ha lanciato pietre mentre stava fotografando il cono eruttivo a distanza ravvicinata.
Ma l’avvenimento più pericoloso che ricordo avvenne il 7 giugno 1891; in quel pomeriggio, avendo notato una apparente strana attività eruttiva tra il cono vesuviano e la cima del vecchio cratere del Monte Somma, ci siamo diretti verso la sede dell'attività. Che notte abbiamo passato nell'inferno vesuviano!
Avendo raggiunto la piana di lava dell'Atrio, iniziammo ad ascendere il cono eruttivo, che sembrava un enorme mucchio di farina gialla di mais a causa di sublimati di percloruro di ferro che rivestivano i suoi materiali di superficie. Una notevole parte del cono era già caduta, e il cratere allargato misurava trecento piedi nel suo diametro più largo. Il bordo rotto era tutto fessurato e pericoloso da approcciare.
Grandi quantità di tumultuoso vapore bianco usciva da questo grande calderone che non era più un cratere eruttivo ma un cono fumante a bocca aperta. Abbiamo lottato contro le scorie incoerenti e raggiunto ad est l'apertura da cui la lava stava uscendo.
Grandi raffiche di dell'acido solforoso ci soffocavano impedendo il nostro progresso e, sebbene in fondo avessimo avuto il coraggio di saltare oltre la fessura dove era larga solo tre o quattro piedi, siamo stati costretti a fare un ritiro affrettato per evitare di essere scottati o soffocati dai vapori riscaldati e soffocanti.
Alle 2.30 di notte il terreno sotto i nostri piedi tremava violentemente e, tra lampi di luce, un nuovo spacco si spalancò ai piedi del cono eruttivo, riversando un grande flusso di lava fusa, che sembrava calpestarci precipitosamente. Terrorizzati dall'improvvisa e inaspettata esplosione ci siamo ritirati il ​​più velocemente possibile, ma abbiamo trovato la nostra strada sbarrata dal flusso precedente, che era abbondantemente fuoriuscito.
Credendo d’essere completamente tagliati fuori, e temendo d’essere travolti dalla lava rovente o dalla scottatura di vapori irrespirabili, procedemmo a scalare la quasi perpendicolare scarpata del Somma. Fortunatamente, Lavis l'aveva scalata in un'occasione precedente, mentre studiava esposte dighe di lava, e siamo riusciti a raggiungere la sicurezza in una pietosa condizione di esaurimento.
Dalla vetta del Somma, ancora senza fiato, abbiamo assistito al grande spettacolo dell’eruzione. La lava sgorgò a ondate, tuonando come un mare tempestoso che esplode.” [12]
Foto scattata da Lavis

E’ poi Lavis a raccontare questa stessa e pericolosa avventura:
“Io e il Dr. L. Sambon, che era allora il mio assistente, eravamo quasi sopraffatti, il pericolo era molto reale e noi lo avevamo cercato come Semele che, volendo vedere Zeus in tutto il suo splendore, fu consumato dai fulmini.
Un compagno gradevole, il dr. L. Sambon, i cui allegri spiriti tiravano fuori il lato amichevole del Natura Italiana."
A Johnston-Lavis (e Flores, E.) dobbiamo le intriganti notizie ed ipotesi circa l’antico lago di Pianura e sulle ossa di un cervo in esso rinvenute, argomento che meriterebbe un apposito articolo [13].

Sempre sua è l’interessante relazione circa le “Osservazioni geologiche lungo il tracciato del Grande Emissario Fognone di Napoli dalla Pietra sino a Pozzuoli”.

Nel dicembre del 1894 Johnston-Lavis lascia l’Italia e si trasferisce nella Francia meridionale dove continua la sua attività medica e la sua passione per la geologia.
Verrà a Napoli saltuariamente, anche subito dopo l’eruzione del Vesuvio nell’aprile del 1906. Nel corso di questa grande eruzione sono rinvenute e descritte per la prima volta al mondo tre nuove specie: “bassanite”, “palmierite” e “chlormanganokalite”. Quest’ultimo minerale è esclusivo del Vesuvio ed è a Lavis che va il merito della sua scoperta [14].

Il 10 settembre 1914, in piena prima guerra mondiale e con parte della Francia occupata dai tedeschi, deve ritornare verso il sud del paese e, causa il blocco delle ferrovie, ricorre ad un trasferimento a mezzo auto. L’itinerario è tortuoso e lo chauffeur corre troppo; a Bourges, nel dipartimento di Cher, una gomma scoppia e l’auto esce di strada. Capovolgendosi colpisce alla testa Hanry che muore istantaneamente.
E’ questa la triste fine di una esistenza impegnata e utile che ancora aveva la prospettiva di molti anni fruttuosi; un uomo che non possiamo dimenticare e che, come detto da Sambon, meriterebbe una tavoletta a Napoli o Pozzuoli.

GIUSEPPE PELUSO

BIBLIOGRAFIA
Antonia Johnston-Lavis – Bibliography of the Volcanoes of Southern Italy - 1918
Massimo Russo – I minerali della grande eruzione vesuviana del 1906 - 2006
Gerald Hugo Rée – Pioneer of Tropical Medicine - 2017
Rosario Zanni – Mal’aria -
P. Gasparini – Scienziati ad Ischia -
W. L. Kirk, R. Siddall & S. Stead - The Johnston-Lavis collection -

venerdì 19 luglio 2019

Piroscafo Bagnoli I



La storia del Piroscafo Bagnoli I

Nasce a Bagnoli, per la presenza dell’ILVA, e fuma troppo.
Acquistato da Agnelli finisce in compagnia della Juventus.

Ma non è quello che state pensando.

Naturalmente non è nostro intento narrare la storia di un noto personaggio che sta compiendo lo stesso percorso ma di un mercantile; ovvero un piroscafo che, con una lunghezza d’oltre 120 metri ed una stazza superiore a 6.000 tonnellate, possedeva rispettabili dimensioni e ancora oggi molti napoletani ignorano sia stato costruito presso l’ILVA di Bagnoli.

Nel 1919, causa la strage di mercantili provocata principalmente da sommergibili tedeschi nel corso dell’appena terminata Grande Guerra, s’avverte una forte crisi nei trasporti marittimi. I cantieri navali italiani sono ancora impegnati sia con le costruzioni militari da completare sia con le riparazioni di tutte quelle unità che necessitano d’essere ripristinate.
I grandi stabilimenti siderurgici ILVA di Bagnoli, di Piombino, di Portoferraio, hanno necessità di un costante rifornimento di materie prime per i loro altiforni; pertanto decidono di costruire, nei rispettivi cantieri, una serie di piroscafi da carico alla rinfusa e stabiliscono di battezzarli, a seconda di dove sono costruiti e con non molta fantasia, BAGNOLI I, BAGNOLI II e BAGNOLI III; oppure PIOMBINO I, PIOMBINO II, etc.
D’altronde negli stessi anni lungo la costa flegrea è tutto un fiorire di nuove fabbriche navali, dai grandiosi “Cantieri ed Officine Meridionali” di Baia voluti dalla compagnia “Navigazione Generale Italiana” di Genova ai più piccoli “Cantieri Navali ed Officine Meccaniche” di Arco Felice voluti dalla ereditiera signorina Maria De Sanna e dal finanziere e armatore Tommaso Astarita.
Anche nel cantiere della De Sanna, nato per beneficiare dei finanziamenti statali elargiti per lo stato di belligeranza in corso, le costruzioni di serie sono battezzate ARCO FELICE I, ARCO FELICE II, etc.

Dopo aver allestito uno scalo sulla linea di costa, poco prima dell’attuale Città della Scienza provenendo da piazza Bagnoli [1-cartolina del 1930], nel 1920 le maestranze iniziano la costruzione della prima unità che è varata nel 1921 e completata nel 1922 [1bis - rara immagine del Bagnoli I in costruzione - foto fornita da Genny Casella].

Il piroscafo che ha una macchina a vapore, che purtroppo emette troppo fumo attraverso il suo funile, è fornito di una sola elica che imprime una velocità di 9nodi; disloca 6.168tsl, è lungo 120,19mtr e largo 15,75mtr.
Con il nome di BAGNOLI I entra a far parte della compagnia “ILVA S.A.” ed iscritto nel compartimento marittimo di Genova.
Ma la grande acciaieria partenopea, come le altre consorelle italiane, attraversa una profonda crisi che la costringe alla chiusura dello stabilimento nello stesso anno 1922. Questo nonostante la fusione con i “Cantieri Armstrong S.A.” di Pozzuoli che stanno subendo, come tante realtà industriali specialmente nel nostro mezzogiorno, la stessa mancanza di commesse, dopo essersi ingranditi a dismisura durante la guerra.

La società “ILVA S.A.” blocca la costruzione dei previsti altri piroscafi ed è costretta a vendere quelli costruiti alla società “Lloyd Mediterrano” di Genova, una compagnia di navigazione specializzata nei trasporti di carichi alla rinfusa.
Questa nuova compagnia battezza VALTELLINA [2-foto Phoca Thumb] 

l’ex BAGNOLI I; poi battezza VALSUGANA l’ex PIOMBINO I e VALSESIA l’ex PIOMBINO II.

Intanto nel 1924 il senatore Giovanni Agnelli, presidente della FIAT di Torino, fonda la “Società Commerciale di Navigazione” con sede amministrativa a Torino e sede operativa a Genova.
Lo scopo della nuova compagnia di navigazione è, oltre quello commerciale e di diversificazione delle attività del grande gruppo piemontese, quello di sponsorizzare i Motori Marini FIAT Diesel costruiti a Torino.
Nel 1925 questa nuova compagnia di navigazione acquista sul mercato sei piroscafi con motrici a vapore con l’intento di sostituirle con dei diesel FIAT e di ribattezzarli con nuovi nomi legati a ricordi ed affetti della Famiglia Agnelli:
-       L’ex BAGNOLI I, poi VALTELLINA della “Lloyd Mediterrano”, a cui nel 1928 è installato la nuova motrice FIAT ed è ribattezzato CHISONE [3-foto Phoca Thumb]; nome del torrente che attraversa le tenute della Famiglia Agnelli.

-       L’ex PIOMBINO I, poi VALSUGANA della “Lloyd Mediterrano”, di 6.255tsl costruito presso l’ILVA di Piombino nel 1920, riceve nuovi motori ed è ribattezzato VILLARPEROSA; la valle con la quale la famiglia Agnelli ha un legame indissolubile.
-       L’ex PIOMBINO II, poi VALSESIA della “Lloyd Mediterrano”, di 6.604tsl costruito presso l’ILVA di Piombino nel 1921; non fa in tempo a ricevere nuovi motori e nuovo nome poiché il 25 agosto 1926 naufraga presso Treharne Point (Galles).
-       L’ex ANSALDO VIII [4–foto L’Ora del Pellice], di 5.350tsl costruito nel 1921 a Sestri Ponente, riceve nuovi motori ed è ribattezzato PELLICE, altro torrente che si immette nel Chisone prima di confluire nel Po.

-       L’ex MONTGOMERYSHIRE della “Royal Mail Steam Packet Co.” di Londra, di 6.630tsl costruito a New Castle nel 1921, riceve nuovi motori ed è ribattezzato RIV [5-foto Phoca Thumb]; 

    acronimo di “Roberto Incerti & C. Villar Perosa”, azienda metalmeccanica italiana fondata nel 1906 a Villar Perosa da Roberto Incerti, costruttore di biciclette, e da Giovanni Agnelli. L'azienda, fin dall'inizio, si è specializzata nella produzione di cuscinetti a sfera. 
-       L’ex VALDIERI del “Lloyd Sabaudo” di Genova, di 4.920tsl costruito a Taranto nel 1920, riceve nuovi motori ed è ribattezzato JUVENTUS; in questo caso credo non ci sia necessità di spiegare il legame tra questo nome e la Famiglia Agnelli.
Mario Pennacchia, nel suo libro “Gli Agnelli e la Juventus” scrive: “Tra gli anni venti e trenta l’intera Nazione stravede per la squadra di Edoardo Agnelli: un fenomeno di esaltazione popolare congiunge le Alpi alla Sicilia. Un distintivo del club bianconero diventa una preziosa rarità, un biglietto per la partita dei campioni diventa premio ambito, Torino, dove gioca la Juventus, è inserita negli itinerari dei viaggi di nozze. E in mare scende perfino una grande motonave battezzata Juventus fatta costruire dalla società di navigazione di proprietà della Famiglia Agnelli”.

Nel corso della seconda guerra mondiale la CHISONE [6-foto Agenzia Bozzo] 

è utilizzata come trasporto truppe e materiali fino all’armistizio dell’otto settembre 1943 quando è catturata dai tedeschi. Il 29 aprile 1944 è affondata a Tolone da un bombardamento aereo alleato ed è recuperata solo nel 1947 quando è restituita ai legittimi proprietari.
Da notare che le altre quattro motonavi della FIAT vanno tutte perdute nel corso della Seconda Guerra Mondiale:
-       La VILLARPEROSA è catturata a Willington (USA) nel 1941 e rinominata COLIN presta servizio per la “U.S. Maritime Commission”. E’ affondata il 26 aprile del 1944 dal sommergibile tedesco U 859.
-       La PELLICE il 10 giugno 1940, giorno della dichiarazione di guerra, si trova a Newcastle (GB) e tenta di fuggire alla cattura. Il tentativo non riesce e con il nuovo nome di EMPIRE STATESMAN inizia a servire per conto del britannico “Ministry of Transport”. L’undici dicembre del 1940, mentre è in navigazione da Pepel per Middlesbrough, è affondata dal sommergibile tedesco U 94.
-       La RIV è adibita ai i rifornimenti verso la Libia e il giorno 31 agosto 1941 è affondata da aerei inglesi a Tripoli; sarà recuperata e demolita dagli stessi inglesi una volta conquistata questa città.
-       La juventus è anch’essa adibita ai rifornimenti verso l’Africa Settentrionale e il giorno 16 gennaio 1941 è silurata da aerei inglesi mentre è in viaggio da Napoli verso Sfax. E’ portata ad incagliare a 3 miglia da Kuriat dove è abbandonata e dopo un mese nuovamente silurata questa volta da un sommergibile britannico.

Il 30 aprile 1947 l’armatrice “Società Commerciale di Navigazione”, cambia ragione sociale in “Società di Navigazione Italnavi S.p.A.”, con sede a Genova, e terminati i lavori di ripristino della CHISONE, tra cui la trasformazione in turbonave, la ribattezza ITALVALLE.
Nel 1952 l’ex piroscafo bagnolese è ceduto alla “Navigazione Libera Giuliana S.p.A.” di Venezia che, in omaggio ad una tradizione onomastica veneto-tridentina, lo battezza CESARE BATTISTI [7-foto Agenzia Bozzo].

Nel 1962 il vecchio “Bagnoli I”, dopo quaranta anni di tribolate navigazioni, smette di fumare ed è demolito a Vado Ligure.

Giuseppe Peluso 

- Articolo pubblicato sul Notiziario CSTN di Luglio 2019

domenica 14 luglio 2019

Ammiraglio Eugenio Minisini


EUGENIO MINISINI E IL SILURIFICIO DI BAIA.
Tra Realtà, Fantasia , Sabotaggi, Agenti Segreti, Fughe e Film

Nel 1935 il “Silurificio Italiano SpA”, con stabilimento a Napoli in via Emanuele Gianturco e poligono di prova (siluripedio) sull’isolotto di San Martino, si trasferisce a Baia nei locali del fallito cantiere navale “Società Cantieri ed Officine Meridionali” [1].

Riprende così il travagliato cammino di questo silurificio che ha vissuto un periodo difficile fra inadempienze, manomissioni e lamentele dei committenti esteri e nazionali. Problematiche che, nel 1933, hanno portato al rilevamento della società da parte dell’I.R.I. (Istituto Ricostruzione Industriale) con conseguente cambio dei vertici che ha visto la sostituzione del trio Bianchini – Raffaelli - D’Agostino con la coppia Gorleri - Minisini.

Eugenio Minisini nasce ad Ospedaletto di Gemona il 19 novembre 1878. Il padre Francesco, farmacista, appartiene ad una facoltosa famiglia locale, la madre, Eugenia Fremont, è originaria di Fiume. A 15 anni entra nell’Accademia Navale di Livorno, uscendone guardiamarina nel 1898. Con la nave “Elba” opera nell’Estremo Oriente, per ben tre anni, dove è decorato con l’Ordine di San Stanislao dallo zar per aver partecipato con le truppe russe alla spedizione italiana al Pe-chili (golfo a NW del mar Giallo in Cina). Rientrato in patria, imbarca prima sulla nave “Affondatore”, poi sulla “Regina Margherita” ed infine sul primo sommergibile italiano, il “Delfino”, ove mette in mostra il suo talento e la sua ingegnosità sull’ideazione di apparecchiature importanti per quel battello.
Creativo, fantasioso, eclettico, Minisini si congeda nel 1907 e lascia la Marina, forse perché appassionato della ricerca ed il servizio militare non gli permette di sviluppare appieno la sua inventiva, tant’è che frequenta corsi, in Italia e all’estero, addirittura sui motori della nascente aeronautica. Egli trova utili impieghi anche in Francia e in Gran Bretagna.
Nel 1914, all’approssimarsi della “Grande Guerra”, è richiamato in servizio e nel periodo bellico è assegnato nella zona costiera tra l’Isonzo ed il Piave. Per meriti di guerra viene promosso capitano di corvetta e prosegue quindi la sua carriera nella Regia Marina. Da allora questa forza armata gli permette di sviluppare le sue eccezionali doti intellettive, per cui diviene responsabile nell’arsenale di Venezia della “Commissione Permanente” per gli esperimenti del materiale bellico.
In Marina viene ricordato per la sua attività nel campo delle applicazioni elettriche, elettroacustiche e in quelle della chimica di guerra. Progetta e realizza impianti di artiglieria navale, in particolare rammoderna il vecchio impianto binato navale ed anti aereo a culla unica, su affusto a piattaforma, derivato dallo Skoda mod.1910. Dopo le modifiche questo risulta dotato di un affusto a ginocchiello, variabile automaticamente in funzione dell'elevazione, e viene ora definito cannone 100/47 OTO mod.1928 “Affusto Minisini”.
Diventa famoso quale ideatore delle tenaglie di trasporto e di lancio di siluri applicate sui “M.A.S.” italiani; un apparato che sarà giustamente ricordato come “Sistema Minisini”. Questi lanciasiluri, ad impulso laterale, sono di tipo pneumatico ed hanno la caratteristica di essere molto semplici e leggeri e quindi specificamente adatti per l'impiego sulle piccole siluranti, permettendo di raddoppiare i punti di tiro senza ricorrere ai pesanti ed ingombranti tubi di lancio. Particolarità questa in comune solamente con le “Pt Boats” americane su cui nel 1943-1944 è introdotta un'arma chiaramente derivata dalla pratica ed efficiente apparecchiatura italiana [2].

Eugenio Minisini, che in Marina ha raggiunto il grado di ammiraglio di divisione delle Armi Navali, dalla metà dell’anno 1934 resta praticamente solo al vertice del silurificio. Egli è anche membro del Comitato Tecnico per lo studio dei problemi della siderurgia bellica; speciale ente creato nell’estate del 1934 per suggerire proposte di sistemazione di questo importante settore. Inoltre ricopre la carica di Direttore Generale dell’I.R.I.; per tutte queste attività gli è conferita l’onorificenza di Cavaliere del Lavoro nel settore industriale, mai prima assegnata ad un ufficiale in servizio.

A Baia i lavori di adattamento procedono lentamente sotto la direzione dell'ing. Raffaelli tanto che il trasferimento che si prevede per il 1938 è completato solo nel 1939 quando finalmente ha inizio la produzione di siluri.
Nello stesso 1939 l’Azienda incarica una ditta di Bacoli ad iniziare i lavori, che terminano alla fine dell'anno successivo, affinché l’isolotto di San Martino sia collegato alla terraferma mediante un suggestivo pontile a palafitte ed uno stretto tunnel lungo 1.150 metri che in località Cappella si riconnette alla viabilità stradale [3a/3b].


In origine il collegamento fra gli impianti pensato da Minisini contempla una funivia, così come si evince da un suo promemoria del 17 maggio 1935 intitolato "Riorganizzazione del Silurificio Italiano". Probabilmente Minisini pensa a questa soluzione osservando alcune funivie che esistono nelle vicine cave di pozzolana, ma il progetto non è realizzato perché questa funivia avrebbe dovuto superare ben due dislivelli rappresentati dal Parco Monumentale di Baia e dal promontorio di Monte di Procida.
Il Podestà di questo comune chiede che la costruendo galleria sia adeguata a permettere il passaggio di autocarri e sia fornita di un binario ferroviario ad eventuale uso del vicino porto di Acquamorta raggiungibile, allora come oggi, da una inadatta e scoscesa strada caratterizzata da molti tornanti. Questa aspirazione non viene accolta e la galleria risulterà a malapena adatta al transito di automobili.

Nel contempo anche sull’isolotto è scavata una galleria di 250 metri che permette un agevole collegamento tra la parte iniziale dell’isola, in cui arriva il ponte di calcestruzzo ed in cui ci sono gli edifici di ricezione, con l’altra estremità dove sono ubicati i locali più riservati con relativo pontile di lancio [4a/4b].


Locali sono ricavati anche sotto la collinetta, all'interno del tunnel, dove c’è il reparto dei compressori che caricano l’aria indispensabile al lancio dei siluri. Gli edifici costruiti nella parte superiore dello scoglio sono utilizzati come torre telemetrica e posti di controllo durante i lanci di prova.

Dato l'abbondare delle commesse l'ammiraglio Minisini pensa ad una collaborazione con la “Navalmeccanica”, controllata sempre dall'I.R.I., per la costruzione dei lanciasiluri e anche per quelle parti di siluro già affidate ad altre ditte; inoltre propone all'azienda collaboratrice l'utilizzazione del macchinario e delle maestranze di via Gianturco. Poiché la collaborazione procede con difficoltà Minisini pondera di adibire un capannone del nuovo impianto di Baia alla costruzione di lanciasiluri e di varia meccanica da attivare nel caso di rottura degli accordi con la Navalmeccanica. Questo progetto è osteggiato dall'I.R.I. che lo ritiene un oneroso doppione che, mentre toglie alla Navalmeccanica un campo di lavoro su cui essa conta, costituirebbe per il silurificio un'attività disperditrice di mezzi e di energie.

Nel corso della seconda guerra mondiale le esigenze belliche impongono di aumentare la produzione per la continua assegnazione di commesse; pertanto la direzione del silurificio decide di realizzare un nuovo impianto nella vicina zona pianeggiante del Fusaro [5].  

I lavori terminano verso la metà del 1943 ed il nuovo stabilimento viene collegato a quello di Baia mediante una galleria lunga 1.300 metri. Questa con un percorso rettilineo sbuca nella parte retrostante di quella che sarò la Selenia. In merito a questi lavori, che per abbreviare i tempi si avvalgono di cavamonti del posto tra i più esperti allora esistenti nelle cave di tufo, c’è una fitta corrispondenza tra il silurificio, il comune e la Soprintendenza Archeologica (diretta da Amedeo Maiuri) che ha forti perplessità perché i lavori interessano aree di alto valore storico - archeologico come il Parco Monumentale di Baia. Dal cantiere di Baia, e precisamente dall'area attualmente occupata dal parcheggio antistante l'IRSVEM, esce un binario, a scartamento ridotto che attraversa il tunnel e termina nel cantiere del Fusaro [6].

Da qui a San Martino c'è un altro tratto riservato che porta a Cappella, alla già menzionata galleria ed al susseguente pontile; in questo modo i tre impianti vanno a costituire un unico complesso. Inoltre lo stabilimento del Fusaro viene allacciato ai binari della vicina Ferrovia Cumana a mezzo della quale risulta praticamente collegato alla rete nazionale.
A Baia continuano le prove alla vasca oltre al montaggio di alcune parti dell'arma. Al Fusaro vengono trasferite le lavorazioni meccaniche e la fonderia. Secondo alcune fonti in piena guerra il silurificio arriva ad impiegare 4.674 dipendenti; secondo Simon Pocok i dipendenti diretti arrivano a 5.100 unità più altri 2.000 nello indotto [7].

All’età di 62 anni, il 1° maggio 1940, il Minisini va in pensione, tuttavia proprio in quel periodo, siamo all’inizio del secondo conflitto, il Capo di Stato Maggiore della Marina dà una incisiva svolta ad ogni genere di ricerca tra cui il rivoluzionario programma sviluppato dal nostro ammiraglio sui sommergibili d’assalto. Un interessante progetto coperto dal massimo segreto e portato avanti all’interno del silurificio di Baia che pertanto Minisini dovrà continuare a presiedere per ordini superiori.
Praticamente l’ammiraglio continua un piano di lavoro derivato dall’iniziale studio, per un sottomarino tascabile, effettuato da Pericle Ferretti negli anni ‘30.
Ferretti, già inventore di un dispositivo da lui contraddistinto dalla sigla “ML” (iniziali del nome della moglie Maria Luisa) precursore di quello che poi sarebbe stato lo “schnorchel”, sta pensando non più ad un sommergibile ma ad un sottomarino. Ovvero ad un battello che a mezzo del suo dispositivo “ML” non abbia più bisogno di affiorare per il ricambio d’aria ed inoltre, a mezzo di un particolare e modificato motore Isotta Fraschini Asso 100 detto a “circuito chiuso”, non abbia necessità di scaricare i gas nell’atmosfera rimettendoli in ricircolo. Questo motore, unico per la navigazione sia in superficie che in immersione, è alimentato ad alcol ed imprime il movimento ad una coppia di eliche controrotanti sistemate a prua. La velocità prevista in immersione è di circa 15 nodi, contro i 5/6 nodi qualsiasi altro sommergibile, mentre l’autonomia è pari a 8/10 ore. Le prove a terra nel 1936 dimostrano l’impossibilità di raggiungere grandi potenze con questo sistema che ne riduce l’utilizzazione a battelli di piccole dimensioni e quindi di limitato valore strategico.
Da questa limitazione nasce l’idea di Minisini di un piccolo sottomarino d’assalto. Questo, costruito in acciaio, è lungo 13 metri e pesa circa 13 tonnellate; l’armamento è costituito da un siluro esterno da 450 mm appeso sotto la chiglia. A Baia sono costruiti sicuramente due prototipi; il primo S.A.1 (Sommergibile d’Assalto 1) viene impostato nel 1941, completato nel 1942 e chiamato “Sandokan” dalle maestranze; il secondo S.A.2 viene impostato qualche mese dopo, chiamato “Yanez”, e presenta lieve differenze e miglioramenti tra cui l’armamento aumentato a due siluri.
I due nomi “esotici” sono dati dalle maestranze influenzate dal film “I Pirati della Malesia” uscito proprio nel 1941 [8].

I battelli sono dotati di uno scafo resistente di forma cilindrica con terminali conici molto raccordati e la navigazione in immersione, alla quota massima di 25 metri, è assicurata dinamicamente dai timoni di profondità. Lo scafo ha una poppa affilata e a punta poiché si pensa di metterlo in mare di poppa, a breve distanza dall’obiettivo, facendolo scivolare da una apposita slitta posta a poppa di un cacciatorpediniere. Le prove a mare, svolte in gran segreto nel tratto di mare tra Procida e le isole Pontine, danno buoni risultati, ma il vero ostacolo all’impiego immediato di questo mezzo rivoluzionario è la complessità e delicatezza dell’apparato motore e della sua conduzione.
Così nel 1942 come ulteriore perfezionamento Ferretti sperimenta con successo, al banco dell’Istituto dei Motori di Roma, un nuovo motore che questa volta è un Diesel, probabilmente un O.M. a due tempi, la cui miscela comburente è costituita, oltre al gasolio, da una base di ossigeno allo stato liquido che successivamente è diluita nell’elio che è un gas neutro. I gas di scarico usati per diluire l’ossigeno liquido vengono direttamente espulsi in mare, mentre il loro residui, arricchiti di ossigeno, vengono iniettati nei cilindri.
Si crede (?) che questo motore sia applicato ad un nuovo sottomarino impostato anch’esso in un reparto isolato e segreto del silurificio di Baia. Questo prototipo riceve la sigla S.A.3 e sembra che dalle maestranze sia chiamato “Kammamurì”; altro personaggio di Salgari, un ragazzino indiano, il cui nome (con un semplice spostamento di accento) ben si presta alla espressione dialettale “Qua dobbiamo morire”.
Esso è realizzato modificando il progetto S.A.2, in particolare la parte poppiera dello scafo non resistente, che è del tipo a “castoro“ con il timone di profondità incorporato, e sormontata da una coppia di timoni direzionali. I due tubi lanciasiluri da 450 mm, con lancio verso poppa, sono all’interno dello scafo non resistente. Il sottomarino S.A.3 è accreditato di una velocità subacquea di oltre 20 nodi, ma Ferretti si propone di poter raggiungere i 25 nodi con un motore esotermico a turbina.
Incerta e aleatoria resta l’affascinante ipotesi della sua costruzione, o almeno del suo parziale completamento e della sua fine misteriosa.
Secondo alcune fonti lo S.A.3 parte alle 19.30 dell’8 settembre da Baia per l’ultimo collaudo a bordo del pontone “G.I.S.7”, accuratamente coperto con reti mimetiche. Lo stabilimento è ormai chiuso, ma a bordo, come d’altronde in tutta l’Italia, nessuno sa ancora della proclamazione dell’armistizio. Si afferma che il misterioso danneggiamento di un incrociatore americano nel Golfo di Salerno, avvenuto nella notte tra l’8 ed il 9 settembre del ’43, più volte attribuito a bombe teleguidate tedesche, ad aerosiluranti o al sommergibile italiano “Vellela“, successivamente affondato presso “Punta Licosa”, potrebbe essere in realtà attribuito al piccolo S.A.3.
Questo, non ancora consegnato ufficialmente alla Regia Marina ma in collaudo operativo di accettazione con equipaggio militare, si sarebbe inoltrato tra il naviglio alleato impegnato nello sbarco a Salerno ed avrebbe effettuato il lancio.
Proprio l’esistenza o meno di quest’ultimo battello è accennata o negata da Minisini a varie riprese negli interrogatori cui viene sottoposto dagli agenti americani. L’ammiraglio parla delle caratteristiche dello S.A.3, di cui poi non si trova traccia; pertanto in alternativa indica il secondo prototipo, lo S.A.2, che fa ritrovare agli americani affondato nelle acque prospicienti lo stabilimento di Baia [9].

Ma ripercorriamo con ordine gli ultimi tristi mesi di guerra del silurificio.
Il 28 aprile 1943 l’Ufficio di Sorveglianza Tecnica Armamento Aeronautico presso il Silurificio Italiano rileva una grave infrazione. Ai siluri sottoposti al collaudo, presso il pontile di Baia, sono stati sostituiti i guida siluri (la parte più delicata dell'arma) con altri già collaudati, alterando cosi i risultati delle prove [10].

Denunce e sospetti di pratiche simili sono emersi anche in anni precedenti, ma ora i tempi sono cambiati. L'indagine interna condotta dall’ammiraglio Minisini esclude un intendimento doloso da parte degli accusati i quali sarebbero stati animati soltanto dal desiderio di aumentare la produzione. Ma quando il ministero dell’aeronautica comunica l’irregolarità a quello della marina che, per ragioni di competenza, nomina una commissione d'inchiesta, questa rileva la responsabilità indiretta della direzione del silurificio e diretta di un ingegnere addetto ai collaudi, di un capoperaio e di tre operai che sono deferiti al T.S.D.S. (Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato).
Il Duce, il ministro della produzione bellica ed il sottosegretario di stato alla marina dispongono lo scioglimento del consiglio di amministrazione del “Silurificio Italiano” con l’immediato esonero dell’ammiraglio Minisini che però resta come consulente tecnico.
Il 26 maggio 1943 il Consiglio di Amministrazione del silurificio lo sostituisce col presidente della Navalmeccanica Vincenzo Tecchio, che mantiene le due cariche, con conseguente appesantimento burocratico e perdita di snellezza indispensabile in quei momenti di battaglia, così come lamenta lo stesso Minisini, con una lettera non esente da rancori e gelosie pregresse.

All’8 settembre 1943, alla dichiarazione dell’armistizio, la direzione del silurificio ha già preso buona nota di una direttiva emessa il 31 agosto da Francesco Giordani, vicepresidente dell’I.R.I., la quale ordina che in caso di occupazione gli stabilimenti ancora in grado di funzionare non debbono essere in condizione di lavorare per il nemico.
Un tentativo del tenente Giuliani, affiancato da Pasquale Schiano figlio di Ernesto podestà di Bacoli e noto antifascista, di difendere lo stabilimento dall’occupazione tedesca non riesce anche per la opposizione dell’ex presidente Eugenio Minisini. Pertanto lo stabilimento viene occupato e sembra che all’atto dell’ingresso da parte dei tedeschi fosse già stato saccheggiato dai civili con la distruzione e l’asporto di molto materiale.
E questo nonostante l’apparente atteggiamento ostile mostrato da Minisini che in questo frangente trova rifugio presso il siluripedio dell’isolotto di San Martino che i tedeschi, non del tutto consci del completo collasso italiano, ancora non hanno occupato.

Questa circostanza fortuita (o pianificata?) dà inizio alla "Mission Mc Gregor", una delle più famose azioni condotta dall’O.S.S. (Office of Strategic Service), i servizi segreti americani predecessori dell’attuale C.I.A., il cui rapporto del novembre 1943, denominato “Three-man assault submarine”, è stato di recente declassato. Gli americani hanno problemi con i loro siluri ed in questo campo hanno bisogno della più precisa tecnologia italiana sviluppata sia dall'ammiraglio Minisini sia dal professor Calosi [11].

Carlo Calosi, nato nel 1905, è ritenuto un esperto ricercatore in merito alle nuove tecnologie sottomarine e durante la seconda guerra mondiale partecipa allo sviluppo del siluro filo alimentato e filoguidato progettato per la Marina Italiana; il miglior siluro marittimo disponibile sulla piazza.
La storia di Calosi comincia con un "click" quello prodotto dal sensore elettromagnetico di sua invenzione che, inserito nella testata del siluro, consente l'esplosione per prossimità col bersaglio e non più per impatto diretto; nasce così il S.I.C. (Siluro Italiano Calosi). Questa tecnologia è ora in possesso anche dei tedeschi (cui la Regia Marina ha venduto un grosso quantitativo di questi siluri) pertanto gli americani, che ancora non fanno molta differenza tra Minisini e Calosi, hanno bisogno di questi tecnici per sviluppare un antidoto alla loro stessa invenzione. Nel frattempo sembra che Calosi, che risiede a Roma, sia accusato, non si sa bene se dagli italiani o dai tedeschi, di spionaggio a favore degli americani per la qual cosa qualche fonte riporta che si sia rifugiato in un convento della capitale per sfuggire alla caccia dei tedeschi che occupano la città.

La sera del 24 settembre i commando britannici della “30° Assalt Unit” prelevano l’ammiraglio Minisini e la sua seconda moglie (rimasto vedovo nel 1929 ha sposato nel 1932 Adele Dozzi di anni 46) dall’isolotto di San Martino e con una “Patrol Boat” lo portano a Capri, che è già occupata dagli alleati, facendolo alloggiare presso l’albergo “La Palma”. L’ammiraglio, in mancanza di addetti inglesi, è interrogato dal famoso agente americano dell’O.S.S. Peter Tompkins, in quel momento a Capri per convincere Benedetto Croce ad appoggiare il governo Badoglio. Tompkins consente a Minisini di scegliere se collaborare con gli inglesi o con gli americani; Minisini, abbagliato dal miraggio americano, sceglie questi ultimi e da questa decisione prende il via l’accennata missione "Mc Gregor".
L’ammiraglio cede agli agenti dell’O.S.S. cianografie e campioni di congegni segreti, ampie descrizioni di mezzi sottomarini in costruzione, risultati di esperimenti aerei e navali, particolari di siluri radiocomandati e di un acciarino magnetico di nuovo tipo. Disegna anche una pianta del Silurificio di Baia, indicando dove possono trovare un sottomarino tascabile e parti di un siluro speciale in costruzione.
Gli americani, che solo da poco hanno messo piede sul suolo europeo, non riescono a trattenere il loro entusiasmo per aver messo le mani su quello che valutano una specie di “Dottor Stranamore”; scienziato tuttofare e pentito che non vede l’ora di collaborare con i novelli liberatori. Subito sono avvisati i responsabili della "Mission Mc Gregor" che è guidata dal tenente John M. Shaheen ed è inoltre composta da E. Michael Burke, John Ringling North e Marcello Girosi. Quest’ultimo è un ex uomo d'affari di New York (poi produttore di film con Carlo Ponti) fratello dell’ammiraglio Massimo Girosi che in quel momento ricopre delicati incarichi al Comando Supremo della Marina Italiana (sic …e non nel senso di Siluro Italiano Calosi).
Viene coinvolta la marina americana che mette a disposizione una sua “Patrol Boat” dalla quale i quattro agenti sbarcano a Capri, sottraggono nottetempo Minisini alla custodia degli inglesi, e lo trasportano in una località (o probabilmente una unità navale) sotto giurisdizione americana.  Da un rapporto dell’O.S.S., diretto al generale Donovan, apprendiamo poi che Minisini il giorno 18 è inviato negli Stati Uniti dove arriva il 23 ottobre 1943.

Il 17 dicembre lo raggiunge un gruppo di 11 ingegneri e tecnici italiani (Giuseppe Buono, Antonio Calandrelli, Raffaello Gentile, Alfonso De Luca, Salvatore Lucci, Franco Pasqualigo, Umberto Russo, Francesco Rosapepe, Alfredo Sciarrotta, Ferdinando Stahly, Fabio Calcabrini) selezionati e richiesti dallo stesso Minisini, unitamente a 40 tonnellate di materiale tecnico prelevato presso il silurificio di Baia per facilitare il suo lavoro in America. L’intero gruppo di italiani (di cui 8 sicuramente tecnici ed altri amici o parenti di amici) è inviato a Newport (Rhode Island) presso la “U.S. Navy Torpedo School” [12].

La maggior parte della collaborazione tra la “U.S. Navy” e la “Regia Marina” si svolge in modo ambiguo e questa cooperazione è definita dagli americani come “delicate relationship”; un delicato rapporto con balzi che alternativamente vanno dal tragico al comico. I 12 italiani richiesti da Minisini in America non solo hanno problemi con la “U.S. Navy” ma anche con il servizio segreto italiano. Quando il Tenente Fabio Calcabrini è trasportato dalla O.S.S. da Napoli negli Stati Uniti, per lavorare al progetto, viene accusato di diserzione dal ministro della Marina, l’ammiraglio de Courten, che non è ben informato non concede i relativi permessi. Questi sono rilasciati solo il 16 dicembre 1943 quando Minisini stesso dichiara che Calcabrini è essenziale al suo progetto.
Il 30 dicembre l’ammiraglio Minisini chiede, per se e per i suoi collaboratori, migliore sistemazione logistica, automobili, salari, indennità ed altri “benefit”, tutte cose che ottiene generosamente dagli americani con gli accordi del 12 gennaio 1944.
Intanto il giorno 11 gennaio anche il professor Carlo Calosi aderisce all’appello di Minisini. Fugge da Roma ed è raccolto in mare da operatori della stessa O.S.S. che prontamente lo conducono in America.

Il 14 febbraio gli americani reclamano la loro insoddisfazione e delusione per il lavoro svolto dal gruppo di Minisini, in particolare pensano che non siano sviluppabili oltre gli studi sui sottomarini sperimentali di cui hanno di già constatato i limiti. Sono ora maggiormente interessati all’elettronica ed alle spolette di prossimità del siluro studiato da Calosi, pertanto il 3 marzo lanciano proposte e raccomandazioni per studiarne e migliorarne le contromisure. Il 10 maggio 1944 Minisini e Calosi sono pronti a dare dimostrazioni delle contro misure da loro studiate per annullare i sistemi del siluro S.I.C., pertanto viene richiesto alla Regia Marina, per scopi di ricerca, d’inviare verso gli Stati Uniti otto di questi siluri muniti delle famose testate realizzate da Calosi. La Marina cobelligerante riferisce che non è possibile poiché la documentazione, circa l’uso dei siluri, è a Roma, in quel momento occupata dai tedeschi, e quindi se pure inviasse qualche siluro nessuno saprebbe poi lanciarli.
Il gruppo Minisini cerca di sopperire “a memoria” ma intanto le loro richieste diventano sempre più pressanti e la U.S. Navy non può fornire tutto ciò di cui hanno bisogno.
E’ incredibile, riferisce la marina americana, la quantità di materiale che essi acquistano direttamente a livello locale con costi a carico della base.
Inoltre desta scalpore il “menage” quotidiano condotto dalla moglie di Minisini che alloggia presso il “Muenchinger King Hotel” di Newport. L’ammiraglio italiano ha richiesto per lei un trattamento a norma ed in linea con il suo rango. Per gli americani sembra che i protagonisti di questa avventura si siano dimenticati di una guerra in corso e che l’importante sarebbe solo collaborare con maggior impegno al progetto che riveste una certa importanza per il loro servizio sottomarino.

La U.S. Navy sebbene burocraticamente ubbidiente al progetto approvato dal Segretario di Stato alla Marina, ma recalcitrante ad ammettere di avere qualche cosa da imparare dagli italiani, il 22 giugno 1944 riferisce che, ad eccezione di Calosi al quale è richiesto di rimanere, non è più interessata all’intero gruppo di lavoro che pertanto può tornare in Italia. Il 24 settembre 1944 l’ammiraglio de Courten dall’Italia approva sia il ritorno di Minisini e del suo gruppo sia la richiesta di prolungare la permanenza di Calosi. Per esso la U.S. Navy auspica il collocamento in qualche collegio universitario (che saranno poi la Harvard University e il Massachusetts Institute of Technology). Si pensa che dopo la guerra possa essere utilmente impiegato in qualche industria privata; come effettivamente avverrà con il gruppo Raytheon.

Intanto il 5 gennaio 1945 Minisini parte da Newport per far ritorno in Italia ed arriva a Napoli il giorno 13. Tutti i suoi collaboratori riescono a restare oltre oceano ottenendo un provvisorio permesso da visitatori; faranno ritorno in Italia alla conclusione delle ostilità ed otto di loro saranno assorbiti dalla Microlambda fondata nel 1951 al Fusaro ad opera di Carlo Calosi. Tra essi il solo Alfredo Sciarrotta (1907-1985) resta a Newport dove impianta un laboratorio di argenteria diventando un famoso cesellatore orafo.

Il giorno 7 febbraio 1945 viene dichiarato ufficialmente concluso il progetto “Mc Gregor” e gli agenti Burke e North ricevono la “Stella d’Argento” per il buon lavoro svolto.
Nel 1946 dalla vicenda viene tratto un film più o meno aderente alla storia dal titolo "Cloak and Dagger" (“Maschere e Pugnali” il titolo italiano) a cui partecipa lo stesso Burke; produttore è Milton Sperling, anch’esso un agente O.S.S. in tempo di guerra [13a/13B].


La storia è basata sulle esperienze reali del consulente tecnico Michael Burke che, come agente O.S.S., si vede assegnata la missione di contrabbandare l'ammiraglio Minisini fuori d'Italia.
Burke, completando con successo la missione, impedisce ai nazisti di entrare in possesso del meccanismo elettronico per siluri sviluppato da Minisini.

Eugenio Minisini muore a Varese il 16 maggio 1946, non se ne conosce la causa nè si sa se abbia lasciato figli. In lui sono da riconoscere alti meriti unitamente a grosse perplessità che assolutamente non scalfiscono la sua incrollabile creatività e laboriosità.
Per descriverlo e capirlo basta la frase che pronunciano tutti i friulani:
“E fasìn di bessói”, (facciamo da soli).
Gran gente i friulani”. 
E questo fu anche Minisini.

Giuseppe Peluso





Bibliografia

Roberta Lucidi – Il Silurificio Italiano dal 1922 al 1945 - Quaderno SISM 1995

Admeto Verde – Monte di Procida tra XIX e XX secolo – I Campi Flegrei n. 1/3 – 2009

Ammiraglio Antonio Fioravante Volpi – Pari Avanti Turra - Gemona del Friuli – Apr./Set. 2011

Enrico Cernuschi - Il Regio Sottomarino Sandokan – Rivista Marittima, ago./set. 2002

Charles T. O'Reilly - Forgotten Battles: Italy's War of Liberation, 1943/1945

General William J. Donovan – Selected O.S.S. Domuments  - 1941/1945

Franco Harrauer – www.altomareblu.com/sommergibile-sa3-kammamuri/ - mag. 2011

AA.VV. - www.betasom.it/forum/ - Il Silurificio di Baia

Simon Pocock – Campania 1943 – Volume II – Parte II – 2009


P.S.: Pubblicato su “Sibilla Cumana – La fonte del sapere” . nel Dicembre 2012