venerdì 23 dicembre 2011

Loise De Rosa - Un puteolano del ‘quattrocento





La considetta "Tavola Strozzi" prima conosciuta immagine di Napoli.
Siamo nel XV secolo al tempo degli Aragonesi.


Loise De Rosa - Un puteolano del ‘quattrocento

La nostra Pozzuoli, nonostante i suoi 2500 anni, non ha dato natali a grandi personaggi che possano essere commemorati a livello nazionale.
Ricordiamo che Sofia è nata a Roma ed il Pergolesi ad Iesi. Il cuore mi dice che il più importante “pozzolano” di nascita è uno scrittore del quattrocento; sconosciuto alla gran parte dei nostri concittadini. Trattasi di Loise de Rosa, cronista popolare, noto per un suo scritto, il racconto dei suoi “Ricordi”, che è anche uno dei primissimi prodotti in lingua volgare, nella Napoli aragonese. Critici e saggisti stanno riscoprendo e valorizzando quest’opera che sta rilevandosi sempre più un documento essenziale per la conoscenza e la storia del dialetto napoletano.
Loise de Rosa nasce a Pozzuoli, forse il 14 o forse il 16 ottobre 1385; come lui racconta: "lo nassive a Pezzulo". In seguito, rivolgendosi a se stesso incessante continua: "Tu nassiste de ottufro, o a li quattordice o a li sedice, uno più de li quindice o meno de quindice".
Continua dicendo che quando nacque suo padre stava sul terrazzo di casa a guardare le stelle e disse a sua madre, che si chiamava Fiore, di averlo in buona cura perché sarebbe diventato uomo avventurato, gran maestro, governatore di popoli e signore dei propri genitori e dei fratelli e sorelle, e avrebbe fatto bene a tutti; come per l’appunto accadde.
Quando aveva 20 anni un “astrolaco” che predice i destini gli profetizza che avrebbe corso pericolo di morte ma che se ciò gli accadeva un giorno di venerdì sarebbe scampato; che sarebbe stato più volte per cadere nelle mani della giustizia; che avrebbe trovato oro; e altre cose, che tutte si avverarono. Gli dice pure che avrebbe avuto tre mogli poco affettuose che gli avrebbero dato molte figlie. Sarebbe stato ben visto dagli uomini, ma non amato dalle donne; e infatti egli non poté mai avere, da nessuna delle mogli, un bacio, se non per forza; e peggio gli accadde quando cercò amori fuori dalle mura domestiche, come poi racconta con umorismo.
Dal suo scritto si apprende anche che ebbe fratelli e sorelle, ai quali è costretto a provvedere quando, saccheggiata Napoli da Alfonso d'Aragona, la famiglia si rifugia ad Aversa. Si dedica alla scrittura in tarda età, dopo aver speso un'intera vita come capo della servitù, cioè “mastro di casa” nelle corti angioine e aragonesi del Regno di Napoli. La stesura dei “Ricordi” sembrerebbe formalmente iniziata nel 1452, data a cui rimanda l'avvio della prima scrittura. "Anno Domine MCCCCLII, io, Loise de Rosa, haio comenzato chisto libro, e so' omo de anne sessantasette";
Va però notato che subito dopo l'inizio de Rosa elenca le sei regine presso cui ha prestato servizio, tra cui Isabella di Clemont, prima moglie di Re Ferrante d’Aragona morta il 30 marzo 1465, il che rinvia subito a un'epoca posteriore al 1452. Quindi è evidente la ripresa di annotazioni anteriori, provenienti da un precedente brogliaccio o diario, inizialmente indirizzato a Re Alfonso; infatti spesso inizia i capitoli con “O signor donno Alonso”.
In seguito integra in un unica cronaca tutti i suoi “Ricordi” in gran parte scritti tra il 1467, quando è a servizio di Ippolita Maria Sforza, andata in sposa due anni prima ad Alfonso II, e il 1475, quando nell’ultima scrittura si dichiara novantenne. "ché mo' che scrivo haio più de anne novanta".
In questo ultimo periodo è al servizio di Re Ferrante che lui così definisce: “..che chiamasse Afferrante, che afferra omne cosa, che prio Dio che pozza campare anne ciento in felice stato.”
Il libro dei suoi ricordi, di settantatre fogli probabilmente autografi dello stesso de Rosa, è conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Proviene dalla “Biblioteca Aragonese” nella quale vi fu depositato per dono di Ippolita Maria Sforza. Contiene tre distinte scritture; le “Memorie”, compreso il capitolo “Ly miracule che eo aio vedute”, l'unico che abbia un suo titolo; la “Lode di Napoli”; e la “Cronaca di Napoli”, che va dall'imperatore Corrado IV fino ai suoi giorni, che a sua volta contiene le “Lodi della donna”. Loise è un grande ammiratore del gentil sesso ed in quest’ultimo paragrafo il suo elogio corre così veloce che deve interrompersi improvvisamente per rivolgersi ai suoi lettori: “Ora vui porrissevo dire: Loise, tu si’ innamorato, però dice bene delle donne, perché li nammorate sempre so soggiette delle donne.
Io ve iuro che, per mia fè, che non so nammorato”.
La sua è una cultura orale assorbita dalle conversazioni sentite a corte, nelle ville dei signori e degli umanisti o nelle riunioni dei "Seggi". Dalle prediche, dal chiacchiericcio colorito e sentenzioso dei vicoli di Napoli e dalle novelle d'intrattenimento. Nei suoi ricordi gli storici hanno notato alcune storture e imprecisioni, se non vere e proprie invenzioni favolose, che in parte incidono sull'attendibilità dei fatti narrati; ponendo limiti storici e documentali. Però nella caratteristica prosa, pressoché priva di qualsiasi elaborazione letteraria, risiede uno dei pregi dell'opera; la scrittura di de Rosa, discostandosi appena da quello che doveva essere il parlato della Napoli del Quattrocento, è un documento linguistico di rilevante importanza per la storia e lo studio del dialetto napoletano. Nel ‘400 il toscano è già prevalente nel linguaggio di tutti gli autori del sud Italia; invece nei “Ricordi” di Loise appare per la prima volta un'espressione linguistica tutta meridionale in una forma genuina di semplicità dialettale; così come genuini sono gli aneddoti e i ricordi riferiti.
Ad esempio Loise racconta che a Roma moltissimi penitenti accorrevano, soddisfatti e rassenerati, da un confessore chiamato “donno Janne”; tanto che alcuni invidiosi lo accusarono al Papa. E il Papa interrogatolo sulle cagioni della mirabile efficacia del suo ministero di confessore udì spiegarsi il semplicissimo metodo delle compensazioni che egli teneva. Un penitente confessava di avere rubato cento ducati: “Bene, e a te è stato mai rubato niente? Si, una volta ottanta ducati. Quando te ne ruberanno altri venti non fare rimostranze; vada l’uno per l’altro! Un altro penitente confessava di aver sedotto la moglie altrui. E la tua ti è stata mai sedotta? Si. Vada l’uno per l’altro! Sicchè (concluse Loise), signor don Alonso, “eo so stato confessato da donno Janne, che multi anni so stato bene e mo sto male. Vaga l’uno per l’autro, e stammo pace otto e otto!”
Lo scritto di de Rosa è riscoperto da un monaco francese nel corso del ‘700 ed in Italia solo nel 1879 è parzialmente pubblicato dal De Blasiis. Di questa opera ne parla poi Benedetto Croce nel 1913 nel suo “Sentendo parlare un vecchio napoletano del Quattrocento”. Solo in tempi recenti lo si è ripreso e Loise de Rosa è addirittura additato come il più grande autore napoletano dell'epoca da Gianfranco Contini, che lo considera al di sopra non solo di Masuccio Salernitano ma anche di Jacopo Sannazaro.
Vittorio Formentin scrive che il testo è un vero monumento della letteratura napoletana, al quale il bonario rimprovero di vanteria mosso da studiosi quali il De Blasiis e il Croce nulla toglie della sua straordinaria importanza, sia storica sia linguistica.
Loise scrive in tarda età e spesso molto tempo lo separa dagli avvenimenti narrati; eppure, nonostante confusioni ed errori, il suo racconto ha ancora per lo storico un valore non trascurabile, e non è raro che la sua testimonianza consenta di aggiungere o chiarire particolari tralasciati da altre fonti. E’ il primo a segnalare la presenza degli zingari nel Mezzogiorno quando annota che, al tempo della Regina Giovanna II d’Angiò, vide “..lo duca de Egitto co’ la mogliere e li figlie andare pezzendo per Napole”.
Cesare Segre riferisce che bisogna riconoscere che Loise ci offre pagine affascinanti, in cui la vita di corte dell'epoca è descritta dall'interno, con la conoscenza profonda dei fatti, sia politici sia familiari, di chi vi è stato direttamente implicato. Lo storico può trovarvi infinite notizie di prima mano, scene di grande effetto ed episodi segreti che Loise descrive col gusto della pura narrazione, ma conoscendo bene i retroscena del potere.
Nella storia del Regno Loise non vede che scompiglio e guerre intestine ad opera dei baroni. Quindi esclama: “Chisto riame èi de la santa Eclesia, e io dico che èi de lo santo Diavolo. Non vidite che tutti li signuri so li dimonie, che non cercano se no guerre?”
Ma i "Ricordi" non sono soltanto un'opera storica; nei testi che li costituiscono è riversato infatti un tesoro di leggende e aneddoti tramandati dalla tradizione orale e narrati in uno stile semplice ma efficace, che ne rende la lettura piacevole e affascinante anche per il lettore non specialista. Ad esempio così descrive il Regno in cui vive: “La divisa de lo Riame èi uno aseno co la barda vecchia, e vòltase e mangiasela, e tene mente a la nova.”
I suoi “Ricordi” sono opera d'un vecchio che vuole soprattutto vantare il proprio ruolo e raccogliere leggende e dicerie. Loise ci racconta tutto, storie spesso tragiche, col tono del saggio che conosce i capricci del destino e le debolezze umane, ma sa anche riportarli all'insegnamento dei testi sacri, che cita in un latino gustosamente storpiato.
Loise ha saputo conservare il tono della propria voce, la naturalezza delle esclamazioni, il piacere della sorpresa e delle interrogazioni rivolte a un pubblico con il quale pare discutere direttamente: “O vui che liggite”.
A volte ci fa partecipare ad avventure con colpi di scena e conclusioni impreviste, altre volte pare mostrarci gli avvenimenti attraverso il buco d'una serratura o le incontrollabili voci del popolino. Ma lui è sempre presente, e gode nello esporci un pezzo importante delle vicende napoletane.
Loise servì sette re (Ottone di Brunswick, ultimo marito di Giovanna I, Ladislao, Giacomo II di Borbone, marito di Giovanna II, Luigi III d'Angiò, Renato d'Angiò, Alfonso d’Aragona e Ferdinando d'Aragona) e sei regine (Margherita, moglie di Carlo III di Durazzo, Giovanna II, Maria di Cipro e Maria di Taranto, mogli di Ladislao, Isabella di Lorena, moglie di Renato d'Angiò, e Isabella Chiaramonte, moglie di Ferdinando). Come gli aveva predetto l’astrologo cadde in disgrazia presso Giovanna II e corse pericolo di vita, accusato ingiustamente di aver abusato di una cameriera della regina; restò rinchiuso nella fossa di Carlo Martello, finché il vero colpevole non fu smascherato. Sette volte fu preso il giorno in cui venne catturato il gran siniscalco Pandolfello Alopo. Fu "mastro de casa" di re Giacomo II; del gran siniscalco Gianni (Sergianni) Caracciolo; del cardinale Latino Orsini e del cardinale di Cipro Ugo di Lusignano; del patriarca d'Alessandria Giovanni Vitelleschi; dei principi di Salerno, gli Orsini e i Sanseverino; dei duchi di Sora e del Vasto; dei conti di Troia e di Ariano; di Cola d'Alagno e di altri signori. Fu "viceré de lo contado" di Bisceglie e di Val di Gaudo; due volte viceammiraglio; la prima per conto di Giovanni Fregoso, fratello del doge di Genova; la seconda per conto del principe di Salerno. Dichiara di essere capitano di Teano e scrivendo di sé e delle sue "imprese"; all'inizio dell'opera sottolinea: "... io deveva essere omo d'assai, e mo' che commenzo chisto libro, non so' da niente".
Quasi certamente la maggior parte delle suddette cariche sono vanterie del de Rosa, che altro ruolo non ebbe che quello di capo della servitù; oltre la innocente persuasione di aver maneggiato grandi affari.
Negli appunti più vecchi, quelli dell’encomio a Napoli, volendola qualificare nei confronti delle altre grandi città italiane la definisce “gentile”. Loise dice che tredici cose sono necessarie a rendere perfetta una città; a costituirne la “nobbeletà”. Quattro caratteristiche sono topografiche (mare, piano, montagna e boschi). Quattro sono elementi naturali (acqua, aria, terra e fuoco). Cinque sono pregi storici-urbanistici (strade, chiese, case. mura e fontane). Napoli è l’unica città che ne possiede dodici su tredici. Solo le mura non sono belle, ma tutte le altre cose sono “mirabbellemente”. In più vi si ritrovano “tutti la gente de lo mondo” e di tutte le più nobili qualità sociali, e c’è agevolezza di mercato, nonché di tutto quanto possa toccare alla “consulacione” del corpo e dell’anima. E’ l’armonia di tutte queste qualità a rendere Napoli “gentile” e preminente rispetto alle altre grandi città. Il de Rosa esprime così, a modo suo, una idea che ha avuto una precedente larga diffusione; così come Roma è definita “la santa”, Firenze “ la bella”, Milano “la grande”, Venezia “la ricca”.
Poi parlando dei napoletani dice: «Una bona novella voglio dire a ly nostre napoletane, yo Loyse de Rosa. La novella èy chesta: che ly napoletane so' de lloro natura ly meglio omene de lo mundo, et provalo. State ad audire le mey raiune. Dio criò lo mundo, et èy spartuto in tre parte, Asia, Africa et Oropa. Se non sai, ademanda, che, delle tre, Eoropa èy la meglio. Lo napoletano èy nato a la meglio provincia de lo mundo, perché Napole sta fundata in Oropa.
L'autra: quale èy la meglio parte de Oropa? Sàilo? No, et tu 'de ademanda. Yo dico che Ha meglio de Oropa èy Italia, et yo dico che Napole sta dello meglio de Italia: adunca so' de ly meglio nate.
L'autra: quale ey lo meglio de Italia? Sàilo? No. Sacczelo da me. Èyo lo Riamo de Napole, czoè Cicilia. Adunca Napole èy la meglio cita de lo Riame: lo nepoletano èy de meglio nato.
L’autra: quale èy lo meglio de Terra de Lavore? No'llo say? Sy. Quale? Èy Napole. Adunca lo napoletano èyo lo meglio omo nato de omo dello mundo!»
Loise parla sempre in modo emozionato della sua città che la sua scrittura è da considerarsi una licenza poetica. Va ad elencare nobili, conti marchesi, duchi, principi e re, medici, ospedali, scuole, fontane, bagni, e miracoli.
Dedica un intero paragrafo a: “Ly miracule che eo aio vedute”.
«Et più ve dico che ave Napole la più bella rellicuia che sia per tutto lo mundo: ave la testa de santo Iennaro, che fo arcepiscopo de Napole, et ave una carrafella de lo sango suo, et sta como una preta et, come vede la testa, se fa licuido como mo fosse insuta ("uscito") de la testa et fa et ave fatte più miracule. Ora, che ve pare delle cose stupende de Napole?».
Non manca di parlare delle fonti descritte nel "De Balneis Puteolanis". Tra queste è la "Fons Silvanae" nota per cure ginecologiche ed eliminazione della frigidità e della sterilità; potere quest’ultimo che suscita le battute di Loise che in gustoso dialetto puteolano - napoletano scrive:
"..se volisse imprenare tua mogliere, portala a la vagno de Sarviata, ma tu fa lo tuo dovere con tua mogliere, ca la donna non se ne imprena de acqua cauda".
Dopo tanta esistenza il de Rosa muore a Napoli nell’anno 1475.
Cosa lascia? Cosa ha detto il compaesano Loise? “O vui che liggite”.
Ci ha esortato a leggerlo per poi proferire: “Ora vui porrissevo dire….”
E Pozzuoli che fa? Se non una strada, almeno una targa!



Giuseppe Peluso

domenica 18 dicembre 2011

Sbarchi a Cuma - Le spie venute dall’Oriente












Sbarchi a Cuma
Le spie venute dall’Oriente

Tra i racconti di mio Padre ricordo un episodio di fine 1942.
E’ appena ritornato, dopo una permanenza di tre lunghi anni, dall’Africa Settentrionale dove il conflitto lo ha coinvolto prima sul fronte tunisino; poi nella riconquista della Cirenaica; nell’assedio di Tobruk; ed infine nella prima battaglia di El Alamein del luglio 1942. Il 4 ottobre, finalmente in Italia, lascia la 25° Divisione di Fanteria “Bologna” ed è inviato alla 5° Compagnia del 230° battaglione di Fanteria Costiera. Questa unità rappresenta il nucleo iniziale del costituendo “Comando Difesa Porto di Napoli” con competenza territoriale lungo tutto il litorale flegreo dalla Foce di Licola a Nisida.
Papà raccontava che nei primi giorni della sua nuova destinazione un'altra compagnia del suo battaglione aveva catturato delle spie inglesi sbarcate da un sommergibile. Era presente quando furono condotte al comando di battaglione e qui interrogate. Per anni non ho dato peso a questa narrazione ma poi, incuriosito, ho fatto delle ricerche e verificato.

Fin dal 1941, lungo tutte le coste italiane, inizia a crearsi un sistema di difesa e pattugliamento volto ad evitare lo sbarco di “commando” e “spie” nemiche intenzionate a contrastare collegamenti e rifornimenti verso i lontani fronti africani e balcanici. Dalla fine del 1942 tale dispositivo di difesa inizia ad essere enormemente rafforzato anche allo scopo, ormai evidente, di bloccare una eventuale invasione che diventa sempre più probabile.
Le fonti consultate riportano che la mattina del 9 ottobre 1942, intorno alle 4.45, due fanti appartenenti al 79° battaglione costiero di stanza a Foce di Napoli, in servizio di pattuglia, trovano un battello semi arenato sulla spiaggia di Licola (foto n.1). Il menzionato 79° battaglione rappresenta il fulcro della difesa costiera che va dalla Foce di Licola al Garigliano. E’ schierato lungo il litoraneo Domizio che fin dal 1941 è definito “Settore Costiero di Reggimento Villa Literno” e poi dal 1° agosto 1942 rinominato 16° Reggimento Fanteria Costiero. In seguito, ma non interessa la nostra storia, il reggimento sarà inserito nella XXXII Brigata Costiera costituita il 25 luglio 1943.
I due fanti avvisano il loro comando che, sospettando un’incursione di commando inglesi, subito procede al rastrellamento della zona di sua competenza. Nello stesso tempo viene allertato anche il comando del 230° Battaglione costiero, con sede ufficiale a Pozzuoli ma comando a Baia, che ha competenza nel confinante territorio flegreo. Poche ore dopo, nella campagna di Cuma, una pattuglia ferma due ufficiali, un tenente di fanteria ed un tenente medico, che stanno mangiando dell'uva. I due destano sospetti per la non perfetta "pronuncia italiana" e sono in possesso di una notevole quantità di danaro e di tessere contraffatte. In seguito, nelle vicinanze del canotto, altri soldati trovano dei pezzi di ricambio per apparecchi radio.

Le due presunte spie vengono portate al comando del 230° battaglione e qui interrogate dal maggiore di fanteria Zecchin che vediamo nella seconda foto, scattata da mio Padre qualche mese dopo il corrente episodio. Al maggiore rivelano i loro veri nomi, Amauri ed Egone Zaccaria e si dichiarano "italiani genuini". Ma nel corso dell’interrogatorio cadono in diverse contraddizioni; finiscono quindi con l’ammettere di essere stati sbarcati da un sommergibile per trasmettere via radio informazioni agli inglesi. Aggiungono però di essere cittadini italiani residenti in Egitto e di aver accettato la missione solo per tornare in patria ed evitare l’internamento in un campo inglese di prigionia. Gli argomenti sono tutt’altro che convincenti; i due vengono condotti al comando dei Carabinieri di Pozzuoli che li prende in custodia e li denuncia al “TSDS - Tribunale Speciale Difesa dello Stato”. Questo Istituto provvede ad avviare il procedimento ed a farli trasferire a Roma. Le note informative che giungono sul tavolo degli inquirenti peggiorano la loro posizione. Viene appurato che trattasi di Zaccaria Amauri, nato a Fiume il 26 giugno 1913, di professione meccanico e militare in congedo del Regio Esercito. Del fratello Zaccaria Egone, nato a Fiume il 6 gennaio 1917, disertore del Regio Esercito. Entrambi figli di Alessandro Zaccaria e di Maria Soucek.
Dal rapporto del maggiore dei carabinieri Carmelo Cocco risulta che i due fratelli appartengono a una famiglia di "antiitaliani" e di "filocomunisti". Amauri, militare in congedo, è sospettato da tempo di attività antifascista; Egone è colpito da mandato di cattura come disertore, entrambi hanno diversi precedenti per furto. I genitori, Alessandro e Maria sono definiti agenti stranieri "accertati"; lei è internata a Montefusco, mentre Alessandro, dopo aver lavorato per i servizi inglese e iugoslavo, per sottrarsi all'arresto, nel febbraio 1941 è fuggito in Jugoslavia dove è diventato "un capo del movimento Partigiani della Croazia". Secondo una nota del “SIM – Servizio Informazioni Militari”, i fratelli Zaccaria avrebbero fatto parte dell'Armata britannica del Medio Oriente, agli ordini del generale Wavell.
Durante l’istruttoria Amauri ed Egone sono costretti a modificare la versione fornita al momento dell’arresto e rivelano tutta l’attività da loro svolta a favore degli inglesi tentando di giustificare la collaborazione offerta. Amauri sostiene di aver lasciato l’Italia nel 1940 alla ricerca di un lavoro. Giunto a Susak, in Jugoslavia, si è rivolto al consolato francese per ottenere un impiego nelle colonie francesi, ma senza risultato. A Susak però ha conosciuto un inglese, tale Peter che gli ha assicurato un’occupazione in Oriente. Desiderando offrire la stessa opportunità al fratello, che si trovava in servizio di leva presso un battaglione di "sloveni" ad Avellino, è tornato in Italia, ha raggiunto Egone e lo ha convinto a disertare conducendolo con sé a Susak. Dalla città croata i due fratelli, tramite un tale Haimes (o Evens) del consolato inglese, hanno raggiunto Istanbul dove è avvenuto il loro effettivo arruolamento nel “IS”, “Intelligence Service" britannico. Dalla Turchia sono stati inviati a Haifa, Gerusalemme e, infine, a Il Cairo. In Egitto, dove la loro permanenza è relativamente lunga, hanno accettato di interrogare gli internati italiani e sono stati addestrati all’uso delle radio trasmittenti e alla decodificazione dei cifrari. Terminato l’addestramento sono stati assegnati alla base operativa di Malta da dove è partito il sommergibile che li ha sbarcati sulla costa flegrea.
Rinviati a giudizio, i due confermano quanto dichiarato nell’istruttoria e ribadiscono di aver collaborato con gli inglesi per avere l’opportunità di tornare in Italia "allo scopo di renderci utili al nostro paese". Il 9 novembre vengono condannati a morte "per essere agenti del “IS” britannico e per avere fra l’agosto 1940 e il 9 ottobre 1942 commesso in Italia e all’estero fatti diretti a favorire le operazioni militari del nemico a danno dello stato italiano.."

Questa ricostruzione presenta alcune anomalie o ingenuità incomprensibili anche per novelli agenti segreti. Ne cito solo alcune tra le più evidenti.
- Il battellino abbandonato e non affondato o occultato; indice di ingenuità tendente alla probabile volontà di farsi scoprire.
- Il materiale radio abbandonato nelle vicinanze dell’approdo; indicatore del proposito di non voler utilizzare queste apparecchiature a favore degli inglesi.
- Il gustarsi serenamente dell’uva (sembra che la stessero rubando nel fondo dei Poerio) quando sicuramente erano stati da poco rifocillati a bordo del sommergibile; indice questo della tranquillità con cui avevano intrapreso la loro passeggiata flegrea.
- Il non essersi allontanati rapidamente dal luogo di sbarco ed essersi al contrario diretti verso Cuma che già allora inizia ad essere un guarnito caposaldo della difesa costiera; indice questo della loro determinazione nel volere incontrare subito truppe italiane.
- Il non essersi liberati, nell’imminenza della cattura, delle monete e delle tessere contraffatte; indice questo del desiderio di voler documentare la fantastica storia che di li a poco avrebbero raccontato.

Chi furono veramente i fratelli Zaccaria? Ingenui fuoriusciti? Incalliti ladri speranzosi di prendersi gioco di italiani ed inglesi? Desideravano ritornare in Italia per aiutare il nostro ed il loro Paese? Furono veramente eroici agenti britannici che, tenendo ben nascosta fino all’ultimo la loro vera missione, seppero affrontare dignitosamente il loro martirio? Purtroppo non sapremo mai la verità!

La sentenza viene eseguita da un plotone della “Milizia” il 10 novembre 1942, il giorno dopo il suo pronunciamento, presso il Forte Bravetta (foto n. 3). Questo forte è costruito alla fine dell’Ottocento, assieme agli altri ancora oggi esistenti, per cingere Roma con una linea fortificata. Nel 1919 viene adibito a deposito di munizioni e di artiglieria e i vasti spazi interni sono utilizzati come poligono di tiro. L’abitudine di addestrare le reclute all’uso dei fucili nell’area poligonale suggerì, probabilmente, la decisione di utilizzare gli stessi spazi per le esecuzioni. Così per 13 anni, dal 1932 al 1945, il Forte Bravetta è il luogo deputato per le esecuzioni capitali da eseguirsi a Roma.
Queste avvengono di mattina presto per poter trasportare i cadaveri al Verano, prima che lo stesso cimitero venga aperto al pubblico. I condannati sono rinchiusi nel carcere di “Regina Coeli” e sono svegliati dagli agenti di custodia. Fatti uscire dalla cella vengono ammanettati e condotti nel cortile dell’edificio dove li attende un furgone. Saliti sull’automezzo si unisce a loro il cappellano del carcere mentre le guardie collocano in un angolo dell’automezzo l’occorrente per l’esecuzione: corde, sedie, bende e paletti di legno. L’autocarro percorre velocemente le vie di Trastevere, raggiunge il Gianicolo, supera Porta San Pancrazio e giunge in via di Bravetta. Il furgone entra all’interno dell’edificio dove, su un terrapieno, attendono un gruppo di funzionari e un plotone di “militi” armati di moschetto modello ’91 comandati da un “capomanipolo”. Gli agenti consegnano i detenuti al plotone e sistemano le sedie una accanto all’altra fissandole al terreno con i paletti. Poi il comandante ordina che i condannati siano bendati e legati alle sedie con le spalle rivolte al plotone e dispone i soldati su due file. Infine l’ufficiale legge la sentenza e ordina il fuoco: la prima fila di soldati mira alla schiena, l’altra alla testa. Finita l’operazione il giudice istruttore, il medico legale e il rappresentante del Governatorato di Roma stendono il verbale su cui viene scritta l’ora: le 5,15.

Il cappellano del carcere di Regina Coeli, don Cosimo Bonaldi, che ha assistito spiritualmente i fratelli Zaccaria al momento dell’esecuzione, dichiara, nella sua breve relazione che i due "..dimostrando resipiscenza e rassegnazione si sono mantenuti calmi.."
Mio Padre non ha mai saputo di questa tragica conclusione; oggi i nomi dei due militari sono annotati nella lapida, posta nel punto in cui avvenivano le esecuzioni, che riporta i nominativi di tutti i fucilati a Forte Bravetta. Gli stessi sono anche ricordati, con i nomi slavizzati di Zakarija Amauro e Zakarija Agon, tra i martiri partigiani prima dalla Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija e poi dalla odierna Repubblica di Croazia.

Giuseppe Peluso 

BIBLIOGRAFIA
Roberto Zanni - Forte Bravetta - Roma
Carmine Peluso - Diario Fotografico - 1939/1943
WWW.freebacoli.wordpress.com/
AUSMMU - Schede detenuti - 1940/1943


giovedì 1 dicembre 2011

Il “Sereno” di Rizzoli












Il “Sereno” di Rizzoli
La dolce vita in terra flegrea


Si dice che Pozzuoli e Casamicciola, o meglio i loro amministratori dei primi anni ‘50, abbiano respinto le offerte di sviluppo turistico avanzate dal Angelo Rizzoli. Se ciò fosse avvenuto l’odierno “Waterfront” sarebbe ben misera ed inutile speculazione.
Nel 1951 Angelo Rizzoli sbarca ad Ischia dal suo panfilo “Sereno” (foto 1) e ha proprio l'aspetto di un commendatore, giacca a righe ben tagliata che comunque non maschera la pancetta, cappello leggero, immancabile sigaretta all'angolo destro della bocca. Attraversa la banchina dispensando sorrisi, e stringe una banconota da "diecimila" per l'ormeggiatore. Viene a controllare se ha ben investito i 50 milioni prestati al ginecologo milanese Piero Malcovati, deciso a rilanciare le terme. Sceso, si guarda attorno e s'invaghisce di Ischia, specialmente di Lacco Ameno. In pochi anni costruisce alberghi, terme, ospedale e il cinematografo in cui Charlie Chaplin tiene la prima mondiale di “Un re a New York”. Fa dell'isola la capitale del cinema italiano; richiama attori, reali incoronati e decaduti, finanzieri, stilisti e altra bella gente. Così Ischia diventa la periferica dolce vita romana.
Questa è la descrizione che tutti fanno di Angelo Rizzoli (1889-1970), figlio di un ciabattino analfabeta che muore prima che nasca il figlio. Da bambino conosce l'angoscia della povertà e della miseria e viene inviato nel Collegio dei “Martinitt”; orfanotrofio dove cresce e impara il mestiere di tipografo. A vent'anni inizia la sua carriera di imprenditore nel campo dell'editoria in una piccola sede e subito dopo la “Grande Guerra” in un moderno stabilimento. Nel 1927 acquista, dalla Mondadori, il bisettimanale “Novella” sul quale, all’epoca, vengono pubblicati racconti di D'Annunzio e Luigi Pirandello; poi seguono “Annabella”, “Bertoldo”, “Candido”, “Omnibus”, “Oggi” e “L'Europeo”. Dopo i periodici, Rizzoli inizia nel 1949 a pubblicare anche libri; specialmente classici a prezzi popolari. Sposa Anna Marzorati (foto 2) dalla quale ha due figli, Andrea (1914-1983), che lo rende nonno di Angelo (detto Angelone) Rizzoli jr. (1943) e Giuseppina. Il “cumenda”, così viene chiamato Angelo Rizzoli, inizia, con la “Cineriz”, anche l'attività cinematografica; con tale casa di produzione sono infatti girati “Umberto D." di Vittorio De Sica e la serie “Peppone e Don Camillo”.



Simbolo del successo e della potenza economica del “cumenda” è il suo lussuoso ed esclusivo panfilo “Sereno”, all’epoca il più grande del Mediterraneo (foto 3). Era stato questo, in precedenza, un dragamine della U.S.Navy; acquistato da Rizzoli sul mercato civile e fatto trasformare dai cantieri di Viareggio. Ha una stazza di 316 ton ed è lungo 43 metri. Possiede otto grandi cabine per gli ospiti, tutte con bagno, oltre agli alloggi per l’equipaggio, la cucina ed altri saloni. E’ fornito, oltre a due grosse lance di salvataggio, di due bei motoscafi che l’Armatore usa raramente nelle rade in cui non può accostare alle banchine. Una scaletta laterale abbattibile permette l’imbarco e lo sbarco degli ospiti; oltre che dalla classica passerella di poppa. Il “Sereno” è comandato da un esperto marinaio, il capitano Renato Molino, del quale il commendatore ha completa fiducia. Ricordo benissimo questo panfilo, a cavallo degli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo, attraccato all’ultimo e stretto tratto di banchina di Pozzuoli. Nella sua prima versione ha i teloni parasole ed i teli copri imbarcazioni di un colore azzurro che stacca elegantemente con il bianco dello scafo.
Negli anni 50 Rizzoli compra altri due ex dragamine in disuso e, sempre dai cantieri di Viareggio, li fa trasformare per la pesca del tonno; l’investimento non funziona e, data la carenza di un regolare servizio pubblico per Ischia, li fa ritrasformare in motonavi atte a trasportare i turisti tra Napoli ed i suoi alberghi di Lacco Ameno. Le due motonavi vengono battezzate col nome del suo albergo, “Regina Isabella I” e “Regina Isabella II”. Questo collegamento quotidiano dura 6-7 anni e l’ischitano armatore Agostino Lauro se ne preoccupa e lo contatta. Alla fine Rizzoli fissa, per il biglietto delle sue motonavi, un prezzo così alto, 1500 lire, che la sua non diventa mai una reale concorrenza per Lauro; inoltre la sua motonave parte alle 12,30, cioè in mezzo a 2 corse di Don Agostino, e questo per danneggiarlo il meno possibile. Nel 1961 vende uno di queste motonavi proprio ad Agostino Lauro, che la battezza “Celestina Lauro”. Quando va a firmare il contratto, Lauro chiede a Rizzoli di firmare con la sua penna d'oro di cui ha sentito favoleggiare; questi acconsente e poi gliela regala. Successivamente Agostino acquista anche l'altra motonave che battezza “Rosaria Lauro”. Queste due motonavi, fornite di poppa piatta tipo militare, ben si prestano ad essere trasformate in moto traghetti a mezzo della installazione di una rampa poppiera. In precedenza Lauro possedeva solo una piccola motonave, la “Freccia del Golfo” che a sua volta era una vecchia “VAS” (Vedetta Anti Sommergibile) della Regia Marina Italiana.
Il “Sereno” invece trasporta solo “VIP” o comunque amici del commendatore ed a tale scopo, per i collegamenti Terraferma - Ischia si serve del vicino porto di Pozzuoli. Qui, e nelle eleganti cabine di questo panfilo, passano i più bei nomi del jet set. Lo Scia di Persia in cerca di una nuova sposa, Walter Chiari e la focosa Ava Gardner, Liz Taylor che allontana dalla camera Richard Burton, Paolo Stoppa impegnato a litigare con Vittorio De Sica, Christian Barnardcon qualche sua amante, John Wayne, Maurizio Arena, Sofia Loren e Carlo Ponti (foto 4), Catherine Spaak e Fabrizio Capucci, diciottenni al sole. Moltissimi i protagonisti dei film prodotti dalla “Cineriz” del cumenda e, a volte, girati proprio sull’isola come “Vacanze a Ischia”, del ‘57, una commedia che illustra le bellezze del luogo dove Rizzoli, già abile “comunicatore globale”, ha tanto investito. Con la stessa lungimiranza, accetta di produrre il film “La dolce vita”. Federico Fellini non è ancora un maestro indiscusso e l’impresa si prospetta molto costosa. Rizzoli spiega, a un perplesso Montanelli, che ha deciso di rischiare: «…perché quel tipo lì... come si chiama? ... se riesce a far recitare gli altri come recita lui, farà certamente qualcosa che magari non si vende, ma che valeva la pena di fare... Perché quello lì per metà è un ciarlatano, ma per l’altra metà è un genio...».
Il Commenda ha cercato diverse volte di convincere Giovanni Guareschi ad andare in America per le presentazioni dei film della serie “Don Camillo” o per l’inaugurazione della “Libreria Rizzoli” di New York, ma sempre senza successo. Guareschi ha paura di volare e non se la sente di stare costretto su un nave per tanti giorni. Non si è neppure lasciato convincere a salire sul “Sereno” perché teme di soffrire il mal di mare, in giro si dice che balla molto in acqua e, soprattutto, perché non vuole incontrare a bordo alcuni personaggi familiari al Commenda, fra questi Pietro Nenni.
Nel 1958 l'albergo della Regina Isabella fa da sfondo anche al primo incontro tra lo Scià di Persia Reza Pahlevi e la principessa Maria Gabriella di Savoia, che hanno scelto Ischia per conoscersi meglio e decidere se sposarsi. Le cronache di allora riferiscono che l'ipotetico matrimonio tra il "re dei re" e la "principessa italiana" sia caldeggiato da Enrico Mattei, poiché quell'unione avrebbe certamente favorito gli interessi petroliferi dell'ENI in Iran. Dopo il pranzo l’imperatore s'imbarca verso mezzanotte sul “Sereno”, il panfilo di Rizzoli, che l’avrebbe portato a Pozzuoli da dove avrebbe poi proseguito per Roma (foto 5). All'uscita del porto è speronato da uno di quei barconi senza luce che vengono da Baia. La piccola imbarcazione cola a picco, ma anche il “Sereno” ha danni alla prua, tanto da dover essere scortato da un altra nave di Rizzoli, la Regina Isabella I°. La cosa è messa a tacere, per ovvii motivi, comprando il natante andato a fondo e poi facendo la pratica per la distruzione dello stesso. Purtroppo questo caso, alquanto strano e che si verifica in un periodo di notevoli tensioni internazionali, è consegnato all'oblio; sta di fatto che, già prima della cosiddetta "guerra fredda", l'interesse delle multinazionali del petrolio ha prevalso finanche sulla “raison d'etat”.
A proposito della permanenza ad Ischia dello Scià, Enzo Biagi riferisce un incredibile "incidente formale" che sconcerta il cerimoniale. Rizzoli ha invitato l'imperatore persiano, ad Ischia, ma non vuole incontrarlo, perché non saprebbe reggere la conversazione in una lingua straniera. Invece resta bloccato proprio davanti all'ascensore ed è obbligato a sentire un discorso, intercalato da molti inchini, di cui non capisce assolutamente nulla. Dopo diventa furioso: «Lo sapevo che non dovevo vederlo, perché non so una parola di francese o di inglese. E io non potevo rispondere. Almeno avesse parlato in scià». Questa affermazione di Biagi merita di essere ricordata, soprattutto perché essa è sintomatica delle tante stramberie raccontate su Rizzoli.
Angelo Rizzoli è anche il produttore di molti film di Comencini, il regista cui è legato da un rapporto di amore e odio. Entrambi sono di casa a Ischia, perché anche Comencini vi acquista una villa nel 1961 dove trascorre per molti anni le vacanze con la sua famiglia. Un giorno, imbarcati sul panfilo “Sereno”, Rizzoli indica a Comencini un promontorio dell’Isola e glielo promette in dono per permettergli di costruire una nuova casa. Ma qualche mese dopo gli confida: «Caro Luigi, se sapessi a quante persone ho regalato quel promontorio...».
Altro aneddoto, avvenuto sempre sul “Sereno” è raccontato da Dino Risi e riguarda il maestro Nascimbene. Il maestro scrive musiche per film. E’ un uomo educato, elegante, riservato. Una sera a Napoli incontra il grande editore e produttore cinematografico Angelo Rizzoli, che è lieto di conoscerlo. Cenano insieme al ristorante da “Zi’ Teresa”. Il maestro divora un enorme piatto di “impepata di cozze” annaffiato con del Falerno ghiacciato, mentre il “cummenda” gli dice: «Senta, io avrei un progettino per lei, se lei vuole, domani mattina s’imbarca con noi a Pozzuoli sul mio “Sereno”, così avremo tempo per parlarne». Nascimbene aderisce felicissimo all’invito e l’indomani parte in compagnia di belle donne e uomini ricchi per una crociera che promette di essere una svolta nella sua vita. La scritta “Musica di Mario Nascimbene” nei titoli di testa di un film di Angelo Rizzoli è un sogno che finalmente si realizza. A mezzogiorno, sullo yacht mangia leggero. Già la notte le cozze di “Zi’ Teresa” si sono fatte sentire. Da anni soffre di stipsi. Nelle prime ore del pomeriggio prende un blando lassativo e si distende su una sdraio per un sonnellino. Lo sveglia un dolore al basso ventre. La fronte gli si copre di un sudore freddo. Dalla piscina una ragazza gli grida: «La palla. La palla, per favore». Si alza per prenderla, ma un dolore lancinante lo piega in due. Gli si annebbia la vista, sente gridare: «La palla! la palla!». Spicca una corsa, sale una rampa, trova il corridoio dove s’affaccia la sua cabina, entra, si strappa via i pantaloni, raccoglie nelle mutande la lava di un vulcano, fa un pacco, apre l’oblò e lo getta in mare. Ma non c’è il mare sotto. Il pacco centra il tavolo verde dove Rizzoli gioca a carte con tre amici (foto 6). Quella stessa notte il lussuoso panfilo “Sereno” attracca al porto di Civitavecchia dove il maestro Nascimbene, senza mutande e senza contratto, viene fatto scendere in tutta segretezza.
Se la gente di talento lo incanta, Angelo Rizzoli, invece, non ama i ricchi. A cominciare da suo figlio Andrea. Spesso gli rimprovera di non essere nato povero e di non aver provato i morsi della fame. Enzo Biagi ricorda che durante una cena, il “cumenda” prende una bottiglia e dice: «Questo monte alto sono io». Poi afferra un bicchiere: «E questo è il Col di Lana: Andrea». La foto n. 7 mostra al centro Andrea Rizzoli con il figlio Angelo jr ed il padre Angelo senior. Angelo Rizzoli dice anche: «Ho messo in piedi un impero così grande e solido che ci vorranno almeno tre generazioni per distruggerlo». Sarà il suo unico abbaglio, ma non avrà il tempo di rendersene conto perché muore nel 1970, a 81 anni.
Tutto passa ad Andrea che nel 1974 acquista, dalla famiglia Crespi, da Angelo Moratti e Gianni Agnelli il 100% delle quote di "Editoriale Corriere della Sera". L'operazione viene a costare più di 40 miliardi di lire, una cifra enorme per quel tempo, ma in tal modo Andrea viene a capo di un impero mediatico potentissimo. Su progetto dell'architetto Gipo Viani costruisce “Milanello”, sede della squadra di calcio del “Milan”, di cui è anche presidente. Con la “Cineriz” produce ancora film tra cui “Amici miei” di Mario Monicelli. Nel 1978 lascia il gruppo in mano al figlio Angelone, ritirandosi a vita privata in Provenza. Per dimostrare l’inettitudine di suo figlio, Andrea che ha sempre evitato i giornalisti, rilascia interviste di fuoco, piene di pettegolezzi. Racconta di quella volta che Angelone con la moglie, l’attrice Eleonora Giorgi, e il figlio è partito con l’aereo privato per un weekend a Portofino. E ha anche fatto venire il “Sereno” da Ischia per farci dormire le guardie del corpo. Poi, per rientrare a Roma, la coppia ha noleggiato un altro aereo. «Uno yacht e due aerei per mezzo fine settimana a Portofino!» dice il padre. Un’altra volta, in Costa Azzurra, Eleonora Giorgi in una sola notte manda tre volte l’autista in Italia a cercare la Sangemini...». Andrea Rizzoli muore di infarto poche settimane dopo l'arresto dei figli Angelone e Alberto cui viene contestato il reato di bancarotta. L'erede della più grande casa editoriale italiana, viene a trovarsi con un cumulo di debiti e con aziende non più profittevoli; pressato da un sistema bancario nel quale un ruolo importante viene rivestito dalla massoneria. Cede al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, Licio Gelli ed altri iscritti alla loggia P2 il controllo del Gruppo “RCS” - Rizzoli Corriere della Sera.
Finisce, tra scandali e dissesti, un grande impero mediatico e l’ultima immagine del “Sereno”, ripreso nel 1996 a Fiumicino abbandonato e semi affondato (foto 8), ben si presta a simboleggiare la caduta di questa dinastia.

Giuseppe Peluso - Pozzuoli Magazine del