martedì 3 settembre 2013

La Scuola San Marco








Il San Marco
La scuola delle monache negli anni ‘50


Nei primissimi anni ’50 inizio a frequentare quella che è chiamata la scuola delle monache. Trattasi del San Marco, ovvero del “Collegio Vescovile Sacro Cuore” presso cui ha sede l’Istituto Parificato San Marco.
Qui è possibile ultimare il completo ciclo scolastico dall’asilo infantile alla maturità classica. Alla scuola media, al ginnasio ed al liceo classico possono accedere solo ragazze dagli undici ai diciotto anni; ma la scuola materna e la scuola elementare sono frequentati da bambini e bambine dai quattro ai dieci anni. L’asilo infantile, un unico grande ambiente che dalla strada pubblica appare come seminterrato, è praticamente a livello con il cortile interno adornato a giardino. All’asilo si accede da questo cortile ma lo si può raggiungere anche scendendo le scale situate vicino l’ingresso dell’Istituto. Allo stesso livello dell’asilo trovasi il grande refettorio con la contigua cucina. Le aule delle elementari sono al piano rialzato e sono cinque, tante quante le classi, dalla prima ubicata lontana in fondo al lungo corridoio fino alla quinta situata vicina all’entrata; sempre mi son domandato perché non fossero disposte in modo inverso, così da far risparmiare strada ai più piccoli. La quinta classe viene così a trovarsi vicino al grande ufficio dove la Madre Superiore svolge la sua funzione di direttrice. A questa “direzione” si accede dal citato vasto ed accogliente ingresso.
Al primo piano, già zona tabù per il sesso maschile, troviamo le aule occupate dalle tre classi di scuola media e dalle due classi del ginnasio. Al secondo piano le tre classi del liceo e le camerate occupate dalle “interne”; così chiamiamo le ragazze che vivono in collegio. Al piano più alto, già zona di clausura, si trovano gli ambienti occupati dalle stesse suore. Il complesso è, allora come oggi, imponente perché comprende anche l’annessa chiesa di San Marco, numerosi corridoi, molte scale, depositi e vari ambienti semibui. Tutto contribuisce a farlo apparire immenso e misterioso ai bambini che lo frequentano.
L’anno scolastico dura oltre nove mesi, dal primo ottobre fino a tutto giugno e, poiché ci si fa ricreazione e doposcuola, l’uscita è fissata alle ore 15,45.
Il sabato si va a scuola, ma il giovedì si resta a casa come la domenica.
Il mio asilo inizia nell’ottobre del 1952 e la mia prima maestra è una monaca, che fa tutto da sola, scelta in questo delicato ruolo per avere al suo attivo, tra tutte le sorelle presenti al San Marco, il più basso grado d’istruzione.
La piccola suora ci legge qualche storia di genere religioso e per il resto o facciamo un po' di “casino” o ci fa "dormire"; cioè dobbiamo stare fermi con le braccia acciambellate sul banco, la testa china e gli occhi chiusi. Non ci sono giochi, non c’è materiale didattico; verso fine anno per farci esercitare a tenere bene  la penna ci fa riempire pagine e pagine di aste, le famose “mazzarelle”. Al bagno ci si va tutti assieme, a due a due tenendosi per mano, maschietti e femminucce, poi ordinatamente si attende il proprio turno sollecitando chi è già in bilico su quei piccoli servizi igienici.
C’è poi il pranzo in piatti di stagno; zuppe e minestre che non mi piacciono, servite nel comune refettorio. Il problema è il dopo pranzo, quando c’è una lunga ricreazione e chi ha portato qualcosa da casa, e ha ancora fame, può mangiarla. Durante questo riposo la monaca scompare e si chiude a chiave in una vicina stanza; una volta guardammo dal buco della serratura e vedemmo la monaca in camicione e senza il velo in testa. Poi da una giovanissima aiuto bidella, che di tanto in tanto entrava a controllarci, sapemmo d’aver fatto peccato mortale. Non ci sono urla, schiamazzo o disastro che faccia ricomparire la nostra suora prima di un’ora abbondante. Ma è pur vero che a questa monachella debbo l’aver appreso tante piccole ma utili cose. A lei debbo il saper ben sbucciare un’arancia, conoscere “l’Inno di Mameli” ed anche il saper bere da una fontanella, come quella posta nel cortile dove ci porta nelle belle giornate.
Ricordo che una primaverile mattinata del 1953 ci conduce nel refettorio trasformato in sala cinematografica. Ci sediamo sulle piccole seggiole, le porte vengono chiuse, gli stretti ed alti finestroni oscurati da pesanti drappi, si spengono le luci ed inizia la proiezione. Ad un certo punto della visione si sentono i leoni ruggire; i loro versi sono ampliati dagli altoparlanti posti alle nostre spalle e rimbombanti nell’ambiente chiuso. Nella trama del film le belve arrivano in un anfiteatro sbucando dalle laterali aperture poste sotto le tribune, ci sembra sentirli saltare dagli alti finestroni del refettorio e appaiano intenzionati a sbranare proprio noi e non i cristiani al centro dell’arena. Pianti, grida, tentate fughe verso le sbarrate porte; si è costretti a sospendere la proiezione del film (anni dopo ho capito trattarsi di Quo Vadis) e riprenderla solo dopo aver calmato i piccini; annullando comunque la proiezione delle fatidiche scene che hanno reso “Kolossal” questa pellicola.
Ancora film durante tutti gli anni delle elementari; sempre nel refettorio, con pellicole come “Marcellino pane e vino” o “Senza Famiglia”, ancora scelte dalle monache, ma sicuramente meno traumatiche.
L’anno seguente quasi tutti noi dell’asilo passiamo al piano superiore dove resteremo altri cinque lunghi anni per frequentarci la scuola elementare.
Mi ritrovo con una insegnante civile; la classe è numerosa, oltre quaranta bambini, ed ancora oggi mi sorprende la dolcezza, la severità, l’autorevolezza e l’impegno della maestra Maria Di Matteo, sorella dell’allora sindaco di Pozzuoli, e di come sia riuscita a far leggere e scrivere un così elevato numero di allievi. Con tutti questi scolaretti, ben 41 nella foto di seconda (oltre qualche assente tra cui sicuramente Fulvio La Rana e mia cugina Rita), sono rimasto in amicizia o almeno ci si rivede ben volentieri; qualcuno è lontano da Pozzuoli e qualche altro ci ha lasciati per sempre; tranne il ricordo.
Della mia classe rivedo i neri banchi di legno con agganciata una panca per sedersi e poi la cattedra della maestra posta in alto, su di una pedana. La lavagna non è fissata al muro, ma ha dei supporti e può essere girata. Su di essa vedo per la prima volta le lettere dell’alfabeto e su di essa faccio i primi conti.  La mia cartella è rigida, di colore marrone, senza disegni, senza colori; sembra una piccola valigetta. Nella cartella il corredo scolastico composto da poche cose: quaderni, libri di testo, l’album da disegno e astuccio; quest’ultimo di legno, adatto a raccogliere i pennini, le penne e i pastelli. Non esistono pennarelli, non usiamo la colla. I quaderni sono tutti piccoli, non ci sono né quadernoni né diari, e non esistono copertine colorate come adesso; esse sono di cartoncino nero e quando il quaderno è chiuso si vede una sfumatura rossa lungo i bordi. Ogni quaderno ha poi un foglio di carta assorbente, da usare ogni qualvolta si finisce di scrivere una pagina. Quelli a righe sono di diverso formato a seconda dell’anno che si frequenta; quelli a quadretti sono unici e nell’ultima pagina c’è un bel quadrato con scritte le “tabelline”. Come libro il solo abecedario in prima e in seconda elementare; un libro di lettura ed un sussidiario, che contiene le diverse materie, dalla terza alla quinta.
Le penne stilografiche sono rare e costose e si usa la penna col pennino e l'inchiostro. I pennini sono di due tipi, “ciucciariello” per le scritture semplici giornaliere e “cavallotti” per la “bella copia”. Ogni tanto viene la bidella "Titina" con una bottiglia nera col beccuccio e ci rabbocca i calamai di vetro inseriti in un buco situato sul piano dei banchi. Questa operazione porta Titina ad una giornaliera distribuzione di scappellotti destinati principalmente al mio compagno di banco Aldo Maddaluno che ha trasformato i calamai in una indesiderata piscina per le mosche catturate con molta destrezza. Ovviamente le macchie su dita, grembiuli, quaderni e libri, sono all'ordine del giorno;  il tutto per la gioia delle nostre mamme.
Chi non sta attento, disturba e non si comporta bene, finisce in castigo dietro la lavagna, sta in piedi a guardar per aria più di mezz’ora, una vera noia; per le cose più gravi la maestra fa mettere le mani sul banco e le bacchetta con un legnetto lungo e sottile.
Nell’aula c’è un capoclasse che tiene la disciplina durante le assenze della maestra. La procedura è la seguente: non appena la maestra esce il capoclasse, o meglio la capoclasse perché tale è quasi sempre stata in tutti i miei anni di elementari, con il gesso divide la lavagna in due parti ed in alto alla prima colonna scrive ”BUONI” ed in alto alla seconda scrive “CATTIVI”. Tutti debbono mettersi "con le mani conserte" sul banco o in posizione di riposo con le mani unite dietro la schiena. La capoclasse va alla lavagna e segna il nome di chi parla o si agita. Se l'infrazione è ripetuta, mette una linea sotto il nome e poi, e qui risalta la sua delicata funzione, riporta a sinistra il nome di quei pochi che si son ben comportati. Al ritorno della maestra vengono impartite a ciascun "segnato nella lista di destra" un numero di bacchettate sulle mani pari al numero di linee più uno. La bacchetta, usata per impartire la punizione, qualche volta l'ho "assaggiata" anch’io, nonostante fossi tranquillo e sempre cercavo di non rendermi antipatico alla capoclasse. Ricordo il bruciore intenso sulle mani… ma c’è tanta disciplina, grande stima per la maestra, tante regole da rispettare. Quando in classe entra la direttrice, oppure altre maestre, la capoclasse dice “ATTENTI!” e noi tutti scattiamo in piedi aspettando il segnale di “RIPOSO” per sederci.  Ai “segnalati nella lista di sinistra”, qualche particolare giorno, va l’ambita fascia tricolore che si indossa come quella dei sindaci. La si mostra con orgoglio a casa ed agli amici perché generalmente è rilasciata come testimonianza dell’aver studiato con diligenza.
D’altronde se non si è svelti ad apprendere si va incontro a drastici metodi pedagogici. La maestra arrotola due fogli di carta a forma di imbuti (cuoppi) che poi schiaccia trasformandoli in due lunghe orecchie da asinello. Ricordo il giorno, ero in quarta, che sono state fissate vicino alle mie orecchie a mezzo di due mollette ferma capelli da femminuccia. Ho fatto il giro di tutte le altre aule delle elementari dove la capoclasse che mi accompagna bussa ed una volta entrata invita la scolaresca a strillarmi per tre volte “asino, asino, asino”. Tutti gridano con entusiasmo, solo mia sorella, che si trova in terza elementare, è ammutolita; una volta a casa riferisce del triste spettacolo.
La guerra è terminata solo da pochi anni ed alle pareti, accanto alla carta geografica (che ancora riporta come italiane Pola, Fiume e Zara) due manifesti: uno per i funghi velenosi e l'altro per gli "ordigni bellici". Si sa che i bambini sono curiosi pertanto l’invito è a non toccare né gli uni, né gli altri. Ancora si racconta di invalidità provocate per la imprudente raccolta in strada, o nelle campagne, di esplosivi apparentemente somiglianti a giocattoli.
A mezzogiorno bisogna raggiungere il refettorio in fila ed in silenzio. In linea di massima si mangia quasi sempre pasta o minestra, una confezione piccolina di marmellata cotognata oppure un formaggino, un panino e una mela; il tutto di provenienza “UNRRA” (United Nations Relief and Rehabilitation Administration).
Durante la ricreazione spesso ci sono cricche di bambini grandi, quelli che frequentano le classi “superiori” che se la prendono con i più piccoli; minacciano e poi picchiano; anche se la maggior parte non lo fa con violenza, il risultato è immaginabile.
Intanto gli anni passano e cambiano anche i fiocchi che portiamo al bianco colletto e che le femminucce hanno anche tra i capelli; rosso in prima elementare, giallo in seconda, verde in terza, blu in quarta e verde – bianco – rosso (il tricolore italiano) in quinta elementare. Da ricordare che nelle scuole pubbliche si sostengono gli esami solo in seconda ed in quinta (oggi, nemmeno più quelli di quinta per il passaggio alla scuola media) ma noi della scuola delle monache gli esami li facciamo tutti gli anni ed alla presenza di Rosario Baldanza, Direttore del Circolo Didattico, che viene apposta in sede.
Nostra direttrice e madre superiore negli anni ’50 è suor Maria Graziani, originaria della provincia di Frosinone, sorella del maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani. Ella nasce in una famiglia borghese, con il padre medico condotto, e viene indirizzata inizialmente dai genitori verso gli studi religiosi presso un istituto femminile di Subiaco. La ricordo nelle sue giornaliere visite alle varie classe e ricordo la sua frase che sempre pronuncia nell’accomiatarsi: “Bambini pregate affinché Gesù mi faccia diventare Santa”. Noi bimbi abbiamo pregato tanto per lei, però dubitiamo d’essere riusciti ad aiutarla.
Foto n. 1 – Cartolina ufficiale San Marco

Foto n. 2 – 1954/1955 - Seconda elementare

Foto n. 3 – Manifesto ordigni bellici

Foto n. 4 – 1957/1958 – Quinta elementare

Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 20 aprile 2013