Mela
Annurca
La Mala
Orcula di Plinio
Nel 1950 Giuseppe Fiorito pubblica l’opuscolo
“Annurche e Sergenti nei melai della Campania” incentrato proprio sull’annurca,
la “regina delle mele”. Sfogliando questo opuscolo si comprende subito che
l’annurca non è una mela qualsiasi, ma un vero e proprio capolavoro, risultato
della grande cura mostrata nei confronti di questo frutto dagli
agricoltori.
La mela “annurca” è senza dubbio il frutto che
maggiormente caratterizza la “Campania Felix”, anche perché fortemente legata a
questa regione da tempi remotissimi; almeno da due millenni, come dimostrano i
dipinti rinvenuti negli scavi di Ercolano ed in particolare nella Casa dei
Cervi.
Le sue origini così come riporta Gaio Plinio
Secondo, conosciuto come Plinio il Vecchio e Comandante della flotta tirrenica
di stanza a Miseno, sono nella campagna puteolana, considerata all’epoca sede
eletta degli Inferi. Proprio per la sua provenienza Plinio, nella sua
“Naturalis Historia”, la chiama la “Mala Orcula”, in quanto prodotta intorno all’Orco
(oltretomba, inferi). Da qui i nomi di “anorcola” e poi “annorcola” utilizzati
nei secoli successivi fino a giungere al 1876, quando il nome “annurca” compare
ufficialmente nel “Manuale di Arboricoltura” del botanico Giuseppe Antonio
Pasquale.
Nel 1583 il filosofo e commediografo Gian
Battista della Porta (la cui fama è tale che verso la fine del XVI secolo si
dice fosse ritenuto, insieme ai bagni termali di Pozzuoli, la principale
attrazione per i visitatori di Napoli) nel suo “Pomarium”, nel descrivere le
mele che si producono a Pozzuoli cita testualmente “… le mele che da Varrone, Columella e Microbio sono dette orbiculate,
provenienti da “Puzzoli”, hanno la buccia rossa, da sembrare macchiate nel
sangue e sono dolci di sapore, volgarmente sono chiamate Orcole…”.
Della Porta cita il
letterato romano Marco Terenzio Varrone (116 a.c. – 27 a.c.) che nasce a Rieti dove è
educato con disciplina e severità dai familiari di nobili origini. Varrone ha
rilevanti proprietà terriere in Sabina ed altre zone, che poi integra con l’acquisto
di lussuose ville nella nostra terra flegrea, a Baia. Nel suo “de re rustica” elogia l'agricoltura nelle sue varie forme;
sia da un punto di vista economico ma anche per il piacere che da essa si
ricava. L’opera di Varrone è divisa in tre libri, di cui il primo “de agricoltura”,
dedicato alla moglie, tratta dell’amministrazione delle proprietà terriere, dai
piccoli campi alle grandi “villae”. Il secondo libro “de re pecuaria”,
dedicato all'amico Turranio Nigro famoso allevatore, tratta dell’allevamento
degli armenti e della pastorizia. Il terzo libro “de villatica pastione”
o “de villaticis pastionibus”, dedicato all’amico Quinto Pinnio, tratta
degli altri animali allevabili nelle grandi “villae”. L'opera si colloca
nell'emergente crisi agricola nella Roma post-guerra civile; ed a tale scopo
intende fornire consigli che possano ottimizzare la resa dei terreni, allora
coltivati con metodi estensivi e in verità poco fruttuosi.
Della Porta cita
anche Lucio Giunio Moderato Columella (4 d.c – 70 d.c) altro scrittore romano di
agricoltura che dopo la carriera nell'esercito incomincia l'attività di
fattore. Il suo trattato “De re rustica”, in dodici volumi, rappresenta una
delle maggiori fonte di conoscenza circa l'agricoltura romana. Suo zio Marco
Columella, da lui definito "un uomo astuto ed uno splendido fattore",
ha condotto esperimenti vari a livello zoologico, tra cui anche incroci di
specie, ed influenza molto gli interessi del nipote. Columella possiede
fattorie in Italia e parla più volte della propria esperienza pratica in
agricoltura.
Nei secoli la mela annurca si sposta dall’agro
puteolano, suo luogo di origine, ed approda in terre dove le caratteristiche
del frutto si esaltano; prima nell’area aversana ed esattamente nel “quadrilatero”
al confine tra Sannio e Caserta, poi via via nel Nocerino, nell’Irno, nel
Picentino e successivamente nell’Alto Casertano.
L’annurca non va semplicemente raccolta, ma
va trattata e selezionata perché la maturazione del frutto non avviene sulla
pianta; i pomi vanno raccolti ancora acerbi. E non per un semplice cruccio
degli agricoltori, bensì per un motivo ben preciso; il peduncolo,
particolarmente corto e che va in genere dai 7 ai 14 millimetri , si
mostra poco resistente e non garantisce la completa maturazione sugli alberi.
La raccolta avviene nei primissimi giorni del
mese di ottobre; le mele vanno messe in apposite ceste per poi essere
delicatamente trasportate nei “melai”, il luogo dove avviene la successiva
maturazione. I frutti vanno raccolti con il bel tempo, in condizioni di
asciutto e non devono essere bagnati nemmeno di rugiada. Ovviamente la raccolta
dei frutti dalla pianta viene effettuata a mano, così come l’intero processo
lavorativo che avviene nei “melai”.
Il melaio, composto da piccoli appezzamenti
di terreno di larghezza non superiore ad un metro e mezzo, è sistemato
adeguatamente in modo da evitare ristagni idrici. Vi vengono costruiti dei veri
e propri letti formati da materiale soffice vario (paglia, aghi di pino,
trucioli di legno,…). Fino a pochi decenni addietro venivano impiegati i
cosiddetti “cannutoli”, le parti di minor pregio che derivavano dalla
lavorazione della canapa, una fibra tessile che si ottiene da una pianta
erbacea annua, particolarmente diffusa nella terra campana. Fino alla metà
degli anni Sessanta la
Campania , insieme all’Emilia Romagna, produce la quasi
totalità di canapa che in quel periodo viene prodotta in Italia.
Percorrendo le strade che congiungono i
centri di Valle di Maddaloni con Dugenta e Sant’Agata dei Goti nel periodo
ottobre - novembre si resta particolarmente colpiti dal “rossore” che questi
frutti vanno acquistando adagiati sui morbidi “letti”. I melai donano una
colorita vivacità a questo angolo della campagna che va abbandonandosi al riposo
invernale.
Sui “letti” vengono adagiate soltanto le mele
sane, indenni da attacchi parassitari e prive di residui antiparassitari e di
sapori estranei. I frutti sono disposti su file, esponendo alla luce la parte
meno arrossata. Per la protezione dall’eccessivo irraggiamento solare e da
eventuali intemperie climatiche i melai sono coperti da appositi teli; una
volta venivano impiegate a questo scopo delle frasche, generalmente di
castagno. Altra precauzione è quella di innaffiare le mele nelle ore serali,
una pratica che fa sì che i frutti non perdano parte della percentuale d’acqua
contenuta all’interno evitando, quindi, la possibilità di raggrinzimento del
frutto, e nello stesso tempo rallenta la maturazione mantenendo più bassa la
temperatura.
In genere la maturazione ottimale delle
annurche arriva a metà dicembre, in tempo per il periodo natalizio; non a
caso costituiscono il modo migliore con cui in Campania terminano i luculliani
pranzi delle feste legate all’Avvento.
Dalla raccolta al termine dell’arrossamento
le mele vengono girate (“passate”) diverse volte, in media ogni 8 -15 giorni, a
seconda dell’andamento climatico. Ed ogni volta si esegue anche lo scarto dei
frutti intaccati o marciti. La faticosa pratica per la maturazione e
il laborioso processo per l’ottimale conservazione presentano notevoli
costi di produzione rispetto alle mele che finiscono sul mercato subito dopo la
raccolta; un punto certamente a sfavore per il posizionamento di questi pomi
che, nonostante ciò, vede allargarsi la platea dei consumatori, oltre a quelli campani
e laziali che da sempre apprezzano questo frutto.
AnnaMaria D’Isanto racconta: L'annurca e' la regina
delle mele. Ha rischiato l'estinzione per l'incapacita' nostrana di valorizzare
le nostre eccellenze. Ora abbiamo le melinde, le fuji......., ma non hanno le
qualita' della nostra annurca. Papa' e mamma mi dicevano "Per individuare l'annurca guarda
bene il buco dove c'e' il peduncolo, deve essere ben profondo, altrimenti si
tratta della sergente che e' una varieta' inferiore".
Antonella Marotta riferisce che comunque le sergenti erano
squisite, succose e croccantissime. Così continua: Le annurche erano, a
casa mia, la mano santa per decotti e per la nutrizione dei bambini e grattugiate
ai vecchietti. Che bontà, mio padre le prendeva in campagna e non mancava mai
una cassetta di sergenti e annurche fuori al balcone. Il nostro snack.
AnnaMaria D’Isanto rincalza: E' vero, le
sergenti non mancavano mai per fare i decotti specialmente d'inverno mattina e
sera. E che dire al forno con lo zucchero "una bonta'! Anche ai piccoli si
facevano grattugiate durante lo svezzamento! Ricordo quando si andava in
vacanza me le portavo per i miei bambini…
Sibilla racconta: Mia Madre faceva il decotto di mele annurche per curare catarri e raffreddori: Mele
spaccate, fico secco, lauro... cottura lenta per ore, poi lo sciroppo veniva dolcificato e te
l'aviva bevere,,,senò erano mazzate, però poi, ù catarr, spariva come per
magia! Io lo faccio ancora!
Eppure stiamo parlando di un frutto che ha
rischiato addirittura di scomparire; l’annurca, particolarmente consumata fino
al periodo del secondo conflitto bellico mondiale, nei decenni Cinquanta - Sessanta
era finita ad occupare un ruolo veramente marginale, presa d’assalto dalle
“nuove mele”, soprattutto quelle che arrivavano dal Nuovo Continente, più
“belle” e soprattutto di più facile produzione.
Negli ultimi anni, poi, la rivincita; questo
frutto, contrariamente al passato di defilippiana memoria, non finisce come
cibo per i maiali. Anzi, come spesso succede nelle favole a lieto fine, ha
conquistato le tavole dei buongustai più esigenti, tanto che oramai in
riferimento alla mela annurca si usa contraddistinguerla con la definizione di
“regina delle mele”; inoltre essa si fregia del marchio “IGP” (Indicazione
Geografica Protetta).
Eppure a guardarla non si direbbe. Tra le
tante mele che espongono i banchi frutta dei supermercati, l’annurca è quella che
a vista si presenta come la meno bella, molto piccola, poco accostabile alle
tipologie dalle grandi dimensioni e dalle bucce lisce e lucidissime. Ma
per coloro che riescono ad andare oltre l’apparenza ecco aprirsi un ventaglio
gustativo senza confronti; dolce, succosa, aromatica, piacevolmente acidula e
soprattutto con la particolarità di mantenere per lungo tempo queste unicità
organolettiche.
Giuseppe Peluso
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