L’UCCISIONE DEL MAIALE
Nella tradizione delle campagne
flegree
Nei giorni scorsi ho inviato ai figli di
Franco Di Bonito, un carissimo amico recentemente scomparso, la richiesta di
eventuali vecchie foto della Masseria che la loro Famiglia possedeva in
località Sciarrera, tra l’Averno e Cuma.
Franco, fratello scout [1] ed amico di una gioventù
ormai lontana, appena laureato e sposato si trasferisce a Somma Lombardo.
Qui nascono i suoi figli e, al termine di una prestigiosa carriera culminata con la presidenza di un importante plesso scolastico, ha goduto pochissimo della meritata pensione.
Qui nascono i suoi figli e, al termine di una prestigiosa carriera culminata con la presidenza di un importante plesso scolastico, ha goduto pochissimo della meritata pensione.
Da ragazzo sono stato numerose volte nella sua
antica Masseria ma allora ignoravo che essa sorgesse sui ruderi di una imponente
villa romana trasformata poi, nel corso del medioevo, in “ricietto fortificato”
munito di torre circolare con base scarpata. Incuriosito dalle rilevanze
archeologiche, ho richiesto agli eredi eventuali foto di Famiglia scattate in
questo luogo.
Il figlio Renato mi ha gentilmente inviato alcune
istantanee, conservate tra i ricordi di famiglia, che, pur mostrando ben poco
dei ruderi cui sono interessato, si sono svelate oltremodo intriganti nel testimoniare
un rito contadino altrettanto antico: l’uccisione del maiale.
Queste foto mi riportano dietro nel tempo
quando, fino ai primi anni sessanta dello scorso secolo, lo stesso rito,
considerato allora una festa gioiosa, si celebrava pure nella natia Villa Maria
alla Starza [2].
Fino a quell’epoca il maiale (‘o puorco) è allevato
in modo artigianale in tutte le campagne flegree e non può mancare
nell’altrettanto antica Masseria alla Starza dove viene custodito in un locale
che dista poche decine di metri da dove sono nato.
Il porcile, che nei vecchi “istrumenti” che
conservo è definito “locale ad uso neri” (perché custodiva la razza suina di
colore nero ora quasi scomparsa) in passato si trovava direttamente sul retro del
cellaio e della casa colonica dove era pure addossato il “locale ad uso
cavallini”.
Poi dalla metà dell’ottocento entrambi i
locali sono spostati, unitamente al forno, nella zona delle stalle, al confine
con l’antico mulino ad acqua; praticamente dove io lo ricordo e dove tutti lo
chiamavamo “casariello”; per distinguerlo dal casone che costituisce la dimora
dei contadini.
Si tratta, come ben definito dal suo stesso
nome, di un piccolissimo locale angusto e basso in cui l’animale si ripara per
le notti e per le intemperie.
Questo “casariello” è dotato di una
scalcinata porticina a vento che, mossa dalla stessa forza d’inerzia
dell’animale, immette in un ridotto recinto esterno delimitato da bassa
muratura e munito di una piccola vasca di fabbrica in cui si versano i pasti
[3].
Qui il maiale trascorre gran parte del giorno
e qui si trova una ulteriore porta, anch’essa scalcinata, che funge da ingresso
all’intero porcile.
Allevatori del maiale sono i coloni ai quali
i proprietari del fondo hanno nel tempo affidato la conduzione della Masseria
dietro pagamento di uno “staglio” annuale. Nel Territorio alla Starza si sono
avvicendate, dalla metà del settecento ai primi anni sessanta del novecento la
Famiglia Daniele con sei generazioni, la Famiglia Monaco con tre generazioni ed
infine la Famiglia Biclungo anch’essa con tre generazioni.
Proprio i Biclungo nel corso dell’ultima
guerra, spinti dalle “necessità” hanno “inciarmato” una cucina casareccia
principalmente per i marinai dei sommergibili, fermi per riparazioni presso il
molo della vicina Ansaldo, che dormono nelle aule di quella che è stata la “Scuola
Marittima” collocata nella stessa Villa Maria.
Gli avventori siedono su sgabelli attorno ad
un paio di traballanti tavolini dispiegati nel cortile, nei mesi caldi, o nel
cellaio, nei mesi più freddi.
Ai marinai, cui ben presto si aggiungono
quelli di guardia al nuovo oleodotto che collega, attraversando anche lo stesso
Territorio della Starza, le zone portuali (Molo Caligoliano e Molo Armstrong)
con i Depositi di Nafta (Via Campana, Via Celle e Via Vigna), è offerto un
pasto frugale ma genuino con vino e prodotti derivati dalla coltivazione e
dall’allevamento proprio.
All’inizio del 1943 ai marinai italiani si
aggiungono militari tedeschi che sempre più numerosi sono dislocati nei Campi
Flegrei; all’accantonamento del Fusaro, all’Albergo dei Cesari di Lucrino,
nella dirimpettaia “Ansaldo Artiglierie” [4].
A loro, con una cordiale fraternità d’armi
incoraggiata dal regime, i Biclungo mostrano orgogliosi il loro cellaio con le
botti contenenti “Per’e Palummo” e “Aglianico”; mostrano gli insaccati e il
lardo appeso, e con autocompiacimento ancora maggiore mostrano il “casariello”
con il maiale che sta venendo su molto bene; li invitano alla festa che gli
faranno il prossimo inverno.
Dopo l’otto settembre gli amici diventano
nemici e gli stessi vecchi avventori tedeschi si ripresentano a Villa Maria; con
la violenza portano via tutto quanto custodito nel cellaio e lo stesso maiale.
I coloni, forti della loro amicizia che hanno
creduto inossidabile come il “patto” che unisce le loro due Nazioni, non hanno
voluto nasconderlo, come loro suggerito, al di là della recinzione che divide
il fondo con il confinante terreno dei Mirabella; un giardino interno occultato
alla strada e ad occhi indiscreti.
Ma tutto passa, la vita riprende, e nel
dopoguerra per noi ragazzi il maiale, ritornato ad essere allevato, costituisce
una attrattiva irresistibile nonostante il deterrente costituito dal suo
tremendo fetore che appesta gli immediati dintorni.
Quando è possibile raggiungerlo, dopo aver
evaso la vigilanza di genitori e coloni, ci arrampichiamo ai bassi muretti del
recinto per meglio guardarlo e, se per caso è all’interno del “casariello”, lo
attiriamo fuori con qualche foglia o qualsiasi altra cosa che possa apparire
per lui appetibile.
Una volta uscito nel cortiletto il porco è
sempre fatto oggetto di lancio di pietre, legna e altro che sia a nostra
portata di mano fino a che le nostre grida ed i suoi grugniti non richiamino l’attenzione
degli adulti.
Ricordo la fetida poltiglia, di fango ed
escrementi, che copriva sia il recinto esterno che l’interno del casotto;
intruglio in cui il maiale sguazzava e poi, cosa strana che attirava la mia
curiosità, la presenza di una stretta striscia non dico pulita, ma quasi senza
fango, dove l’animale dormiva.
Il porco è nutrito con un pastone di crusca e
grano turco e lo si abbevera con l’acqua sporca con cui si lavano piatti e
recipienti agricoli; comunque mangia di tutto e gli si porta qualsiasi avanzo
organico della cucina.
Fino all’avvento dei frigoriferi casalinghi
d’estate, almeno nell’Italia meridionale, non si mangiava carne del maiale che
pertanto era macellato solo nei mesi freddi. La sua uccisione seguiva un antico
rito della cultura contadina flegrea ed era festa gioiosa e occasione di
socializzazione con la partecipazione dell’intera famiglia patriarcale, di compari,
di amici e di vicini.
Ricordo che fin dall’alba tutto il complesso
colonico è messo in agitazione e la povera bestia è prelevata dai coloni maschi
con l’aiuto di parenti. E’ di già spaventata perché vede molte figure
sconosciute e non vede arrivare il solito pastone fumante. Legata con una corda
è trascinata di forza fuori dal porcile dove inizia una lunga processione con
in testa il patriarca Domenico Biclungo (detto “Menechiello”) ed in fondo noi
bambini. Si attraversa il breve viale occidentale che conduce alla stalle,
l’intero cortile che fu l’aia dell’antica masseria e l’animale è condotto
all’inizio del lungo viale orientale dove già bolle un enorme pentolone d’acqua
[5].
Al centro del viale si trova, capovolto, il
più grosso tino del cellaio, il suo fondo originario va a formare un largo ma
basso tavolo che ora sembra una “ara cerimoniale” su cui sacrificare il nostro
maiale.
Con sforzo sovrumano tutti gli uomini
presenti, escluso “Menechiello” che li guida, cercano di sollevare il porco sul
tino; la fatica è enorme e le voci diventano concitate. I maschi iniziano a
imprecare, più bestemmiano e più il porco emette acuti grugniti; questo
spettacolo genera, nei bambini tenuti a debita distanza, curiosità e timore.
Quando il porco è finalmente sul tino inizia la
parte più cruente, tutti gli uomini tentano di bloccarlo; quattro ne trattengono
le zampe che si agitano, altri due il dorso per evitare che dia spallate, uno
la testa e l’ultimo lo sgozza recidendo la giugulare. A questo punto si sentono
ancora più irriferibili imprecazioni degli uomini e tremendi lamenti del maiale
che sta morendo [6].
Poi, col passare dei minuti, sia i latrati
dell’animale che le imprecazioni degli uomini diventano sempre più deboli fino
a cessare del tutto, a questo punto sopraggiunge, per qualche istante, un
rispettoso assoluto silenzio; solo allora noi bambini riadattiamo le orecchie a
riascoltare e gli occhi a rivedere.
Davanti a noi la Rosina, l’anziana moglie del
patriarca, avanza verso il tino sorreggendo un ampio recipiente e questo,
tenuto basso sotto la gola dell’animale morente, ne raccoglie il sangue; a
tutti sembra rivedere la Santa Donna che ai piedi della croce, in un calice,
raccoglie il sangue che sgorga dal costato.
Il sangue raccolto è poi filtrato e versato
in apposita pentola, andando così a costituire un essenziale componente per un
dolce tradizionale: il sanguinaccio; la prima utilizzatrice di questo fluido è
la mia stessa mamma che, rimestandolo con cacao e spezie, ne fa una delizia
oggi vietatissima.
Dopo averlo sgozzato e dissanguato un
giovane nipote del Biclungo, non ricordo se “Mimì” o “Gennarino”, inizia a
bagnare ripetutamente la pelle del maiale con l’acqua bollente, prelevata dal
fumante grosso pentolone. Quindi si procede alla spelatura con grossi coltelli
che, unitamente a quelli che poi serviranno per il taglio delle pezzature, sono
stati preventivamente fatti affilare dal “molaforbice” ambulante che nella
precedente settimana si è soffermato a lungo nel cortile di Villa Maria.
Questa raschiatura, operata dalle mani rugose
ed esperte degli uomini, attira la curiosità di noi bambini che ora ci
avviciniamo e osserviamo senza più timore il “depilè” che l’inerme suino sta
subendo.
Dopo si praticano precisi tagli sugli arti
posteriori per infilare tra i tendini un resistente asse di legno di quercia leggermente
arcuato ed intagliato alle estremità. Tale attrezzo gelosamente conservato allo
scopo per tutto il resto dell’anno, e che significativamente è chiamato “croce”
dai nostri coloni, permette di agganciare le zampe e appendere il maiale al
primo albero sulla sinistra del viale; ultima operazione questa che richieda la
forza congiunta di più persone.
L’albero è un vecchio arancio che, a
differenza degli altri ben potati, presenta una non alta diramazione a forcone comoda
per l’uso che ora gli è richiesto; probabile che l’arancio serva a questo scopo
fin dall’ottocento quando il porcile era situato nelle sue vicinanze e questo chiarisce
il motivo dell’ultimo lungo percorso che si è costretti a far compiere
all’animale.
Inizia quindi la lavorazione, si incide lentamente
il maiale sulla pancia iniziando in alto dall’attaccatura delle zampe, giù allo
sterno per arrivare giù fino alla testa. Vescica, fegato, polmoni, cuore e tutte
le parti interne sono subito estratte e adagiate in delle tinozze.
Asportate le interiore si procede con la
pulitura a mezzo lo strofinamento di sale e limone; segue una seconda
raschiatura con un grosso coltello e infine si sciacqua con acqua corrente e si
asciuga con strofinacci da cucina.
Poi con una grossa “accetta”, e sempre sotto
la guida del patriarca, si incide la spina dorsale del maiale, sempre dall’alto
in basso, in modo da divederlo in due parti.
I rumorosi colpi della mannaia sono, per noi
bambini, gli ultimi della lunga sequenza “horror” cui assistiamo.
Dopo poco il maiale è diviso in esatte due
metà che si differenziano solo perché una delle due conserva la coda.
Intanto le donne, tra queste “Brigidina”
la figlia nubile che ancora abita nel grande casone paterno, puliscono e
sciacquano gli intestini e la vescica che sono raccolti in altra tinozza;
i primi serviranno per confezionare salumi e salsicce, la seconda per contenere
i grassi che diventeranno “n’zogna” [7].
Successivamente le mani esperte, questa volta
di “Menechiello” entrato direttamente in azione, sezionano le parti che costituiscono
i vari tagli in cui il suino è scomposto: guanciale, coppa, spalla, arista,
pancetta, filetto, coscia, zampe, lardo e… altro ancora: del porco nulla è
sprecato.
Negli immediati giorni successivi si
consumano, dopo averle divise con parenti e compari con i quali si è
prestabilito il comune calendario delle uccisioni, le parti non suscettibili
d’essere a lungo conservate.
Il grosso della carcassa sarà invece
accuratamente trasformato in insaccati di cui una parte servirà a fornire
calorie alla Famiglia ed una parte, tra cui i pregiati prosciutti, saranno
venduti per permettere l’acquisto di altri beni.
Nella stessa giornata dell’uccisione segue
una grande festa ed una lunga tavolata, non molto ricca ma significativa, dove
la Famiglia, i Parenti e i Compari consumano frattaglie bollite e sangue fritto,
unitamente al pane cotto il giorno prima nel forno e all’immancabile fiasco di
vino appena spillato dalla botte “buona” [8].
Non ho foto che possano testimoniare tale
festa presso la Masseria di Villa Maria alla Starza ma i figli di Franco ne
hanno inviato una che riprende la loro grande Famiglia con al centro il
bisnonno, vecchio patriarca dei Di Bonito, lo stesso Franco ancora bambino e
poi il Padre, per gli eredi nonno Renato, che alza al cielo un fiasco di
“falanghina”.
Avrei voluto chiedere, a chi non c’è più, come
si svolgeva questo rito nelle campagne di Cuma; l’amico fraterno non potrà più
rispondermi ma son sicuro che da bambini abbiamo assistito alle stesse
tradizioni e vissuto le stesse emozioni.
REFERENZE
Famiglia Di Bonito - Ricordi
Famiglia Peluso – Ricordi
Antonio De Minco – L’uccisione tradizionale del maiale
Sergio Strafece – Un antico rito della tradizione
contadina
Giuseppe Peluso