L’inchino dell’incrociatore San Giorgio
Il Capitano Albenga tra Anna Boccardi Doria e zia Babà
Il San Giorgio, quello impostato nel 1905, è un incrociatore corazzato della Regia Marina Italiana che partecipa alla guerra italo turca, alla prima guerra mondiale, alla guerra civile spagnola ed alla seconda guerra mondiale. Nel corso di quest’ultima resta memorabile la sua eroica resistenza a difesa della piazzaforte di Tobruk.
Gli incrociatori corazzati rappresentano un modello ridotto delle contemporanee navi da battaglia; come queste sono completamente rivestiti da corazzatura differentemente dagli incrociatori protetti che sono muniti di sola leggera e limitata protezione. Entrambi i tipi non saranno più costruiti a far data dal 1910 quando saranno sostituiti dagli incrociatori da battaglia i primi, e dagli incrociatori leggeri i secondi. Il primo incrociatore corazzato italiano è il Marco Polo del 1890; il tipo più famoso resta il Giuseppe Garibaldi, la cui numerosa classe sarà costruita fino ai primi anni del ‘900 sia per la marina italiana che per molte marine estere.
La perfezione viene raggiunta dai due San Marco e San Giorgio [1] i cui piani di costruzione sono affidati ad uno dei migliori progettisti, il Tenente Generale del Genio Navale Edoardo Masdea. Nasce così questa nuova classe costruita presso il Regio Cantiere di Castellammare di Stabia.
Le unità dislocano 11.300 tonnellate a pieno carico, sono lunghe metri 140,9 e larghe metri 21,00. L'apparato motore è costituito da 2 motrici alternative verticali a triplice espansione alimentate da 14 caldaie tipo Blechynden a combustione mista con una potenza di 18.000 CV su due assi, che consentono alle unità una velocità che alle prove risulta di 23 nodi (43 Km/h ). Lo scafo in acciaio cementato ad elevata resistenza è a quattro ponti: il ponte di coperta, il ponte di batteria, il ponte di corridoio e il ponte paraschegge. La protezione è assicurata da una cintura corazzata da 203mm oltre che dal ponte paraschegge e da altri rivestimenti protettivi sui ponti superiori.
Il San Giorgio è impostato sugli scali il 4 luglio 1905, varato il 27 luglio 1908 e consegnato il 1° luglio 1910.
L’armamento di cui è dotato è quasi tutto prodotto a Pozzuoli dal Cantiere Armstrong. Esso è costituito da 4 cannoni da 254/45mm mod.1907 ripartiti in due impianti elettrici binati, uno a prua ed uno a poppa; 8 cannoni da 190/45mm mod.1908 ripartiti in quattro torrette binate, due sul lato destro e due sul lato sinistro; 18 cannoni singoli da 76/40mm mod.1897; 3 tubi lanciasiluri subacquei da 450mm mod.A95. Solo 2 piccoli cannoni da 47/50mm e 2 mitragliere non sono di produzione puteolana. Dopo il varo, e al termine dell’allestimento, l’incrociatore viene a Pozzuoli dove, attraccato al pontile dell’Armstrong, i nostri tecnici completano l’installazione dei nuovi e complessi meccanismi elettrici e di puntamento.
Primo comandate del San Giorgio, designato fin dal 1 settembre 1908 con la nave ancora in costruzione, è il capitano di vascello Guglielmo Capomazza di Campolattaro, ramo napoletano della puteolana Famiglia Capomazza. Guglielmo come contrammiraglio, dal 24 maggio 1915 al 18 ottobre 1915, sarà aiutante di campo di Vittorio Emanuele III presso il Quartier Generale del Re a Villa Linussa di Martignacco e terminerà la sua carriera in marina con il grado di vice ammiraglio.
L’incrociatore rappresenta il fiore all’occhiello della Regia Marina, una nave di cui andare fieri e che tutti vorrebbero comandare. Forse anche per questo cambia spesso comandante e il 1° febbraio 1911 viene affidato ad uno dei più stimati Capitano di Vascello italiani, il marchese Gaspare Alberga; un glorioso passato carico di medaglie e riconoscimenti.
La nave riceve la bandiera di combattimento il 4 marzo 1911 a Genova (città di cui San Giorgio è simbolo senza esserne il Patrono) dalla Duchessa di Genova, Isabella Maria Elisabetta di Baviera, moglie di S.A.R. Tommaso di Savoia duca di Genova. Il motto della nave, "Tutor et ultor", viene poi cambiato in "Protector et vindicator" nel corso del primo conflitto mondiale.
Il pomeriggio del 12 agosto 1911, dopo una giornata di esercitazioni nel Golfo di Napoli e mentre si appresta a far ritorno nel porto partenopeo, il San Giorgio incaglia all’estrema propaggine della “Caldera Flegrea”; la secca della Gaiola, uno scoglio tufaceo posto a 6 metri di profondità [2]. La velocità è di 16 nodi per cui lo scafo percorre e rasa tutta la scogliera lacerando e deformando le lamiere e le ordinate. Sono allagati cinque scompartimenti della zona prodiera, dove attraverso falle enormi, una delle quali sfiora i 20 metri , penetrano 4.300 tonnellate d’acqua che potrebbero trascinare a fondo lo scafo se questo non si fosse fermato in bilico sulla scogliera.
La nave resta in quella spiacevole posizione per oltre un mese ed è necessario alleggerirla di notevoli pesi come le artiglierie e le torri, i portelli e le piastre corazzate, i fumaioli prodieri, il ponte delle imbarcazioni e tutti i carichi mobili. Sono poi ostruite le falle e svuotati i locali dall’acqua con potenti mezzi di esaurimento; vengono assicurati allo scafo mezzi di spinta e galleggiamento come cilindri e barconi pontati e dalla scogliera vengono eliminate alcune sporgenze che potrebbero impedire il varo della nave di prora. Quando tutto è pronto il 15 settembre la corazzata Sicilia, a mezzo di quattro cavi di rimorchio, riesce a liberare dalla secca l’incrociatore che viene portato in un bacino napoletano per le opportune riparazioni [3].
In città la notizia si diffonde rapidamente, nel giro di qualche ora migliaia di napoletani accorrono in quel tratto di Posillipo e nei giorni successivi la folla dei curiosi s'ingrossa sempre più mentre tutti si domandano come è potuto accadere e cosa ci faceva una nave da guerra così sotto costa.
Il capitano Albenga dopo il suo interrogatorio presenta, a mezzo del suo avvocato fiscale militare, un lungo memoriale difensivo nel quale sostiene di aver ritardato il rientro a Napoli per far mangiare i marinai e di aver navigato seguendo le carte e le prescrizioni di navigazione. Il presunto spostamento della boa è il punto culminante della difesa e poi Albenga non esita a rovesciare la responsabilità del disastro su Bordigioni, suo ufficiale di rotta.
Ma la stampa dà subito seguito alle voci e ai pettegolezzi che per giorni si sussurrano sui maggiori giornali della città.
Si narra che il 12 agosto, alle 16.50 di quel caldo e pazzo pomeriggio, a bordo oltre l’equipaggio c’è qualche ospite. Amici del marchese cui è stato offerto un piccolo giro sotto costa e che poi, prima di sera, una scialuppa dovrà riportare a Napoli. Sono un uomo e una donna, Lui è a bordo per “accompagnare” Lei ed evitare i commenti irriverenti dei marinai. Ma, come gustosamente racconta Ciro Sabatino su “Metropolis Web”, c’è poco da fare, non ci sono dubbi; è la misteriosa donna la vera ospite del capitano. La signora tanto attesa e tanto desiderata; colei per la quale Albenga sta per mettere a rischio la vita di decine di persone. Si chiama Anna Boccardi Doria e nel rapporto della Marina viene definita “antica amica del comandante”. Natali illustri, sangue blu e un titolo nobiliare che le permetterà di evitare l’inevitabile polverone che sta per scatenarsi.
Intanto il capitano deve giocarsi l’ultima carta; l’ultima occasione per sciogliere le fievoli, residue resistenze, della splendida donna che ha al suo fianco. Il capitano acconsente ad un capriccio della passeggera, che vuole ammirare da vicino la costa, quindi la nave fa il suo “inchino” per stupire, stordire, affascinare chi ama il pericolo. Albenga governa l’incrociatore con destrezza, spinge la nave quanto più vicino alla costa per farle “accarezzare” l’isolotto che ha di fronte; la Gaiola.
E’ un attimo e il gioiello della Marina finisce in una secca che anche i pescatori più sprovveduti conoscono, la secca della Cavallara, nel cuore della baia di Trentaremi. La signora è immediatamente sbarcata su di una scialuppa di salvataggio, calata furtivamente dalla nave, sulla quale prende posto anche l’altro ospite, l’avvocato Parascandolo.
Qui si inserisce un episodio che vede protagonista Immacolata Ferraro, figlia di Luigi Ferraro (avvocato, vicesindaco di Napoli, Ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia), proprietario dell’allora “Casina alla Starza” [4], attuale “Villa Maria”. Il tutto è raccontato dall’ammiraglio Renato Ferraro di Silvi e Castiglione, nipote di Immacolata in quanto figlio del fratello Guido che fu sposo della nobile e bella Hildegard Rupprecht von Virtsolog, viennese di Baden (vedi link: first-life-original-life).
§ Mia zia Immacolata era da tutti amatissima, per la sua dolcezza, e perciò chiamata Zia Babà. Aveva un carattere mite, sdrammatizzava tutto ed era sempre in pace con se stessa e con il mondo. Una volta, quando da ragazzina frequentava quella che allora si chiamava Scuola Normale, che era l'istituto solitamente frequentato dalle fanciulle delle buone famiglie, poiché non brillava per diligenza negli studi, era stata rimandata a ottobre in non so più quante e quali materie. A quei tempi, siamo prima della Grande Guerra, la famiglia di mio nonno possedeva un "casino di delizie" a Pozzuoli, dove passava tutta l'estate ed anche oltre, servendosi i suoi membri della storica “Ferrovia Cumana” per andare e venire da Napoli. Anche Babà si servì della cumana per andare a sostenere gli esami di riparazione, che si sarebbero dovuti prolungare per alcuni giorni. Nella tarda mattinata, o forse nel primo pomeriggio, ritornò a Pozzuoli e da lontano salutò la sua mamma, la mia nonna Matilde, che l'attendeva trepidante sul balcone della villa, gridando raggiante: "Una bellissima notizia, una bellissima notizia!"
La bellissima notizia era che era stata già bocciata alla prima prova: "Che gioia, così domani non devo tornare a Napoli!"
Babà, comunque, aveva una grandissima dote: era un'eccellente marinaia, e mio padre la portava molto volentieri con sé quando usciva per mare con la sua famosa barca Zizià (si vantava ancora, tantissimi anni più tardi, che ai suoi tempi era la più bella barca di Pozzuoli). Le eccezionali doti marinaresche d'Immacolata ebbero una definitiva consacrazione quando una volta, vedendo dalla finestra della villa di Pozzuoli una nave da guerra che dirigeva verso Napoli, e sembrandole che si tenesse troppo a terra, cominciò a urlare: "Ma chillu capitane è pazze? Vo' purtà 'o bastimento a perdere?"; e non si dava pace! Più tardi il Padre, mio nonno Luigi, tornò (con la cumana, naturalmente) da Napoli, e riferì: "Ma sapete ch'è successo? L'incrociatore San Giorgio s'è incagliato sulle secche della Gaiola, fuori Marechiaro!" Correva l'anno 1911 ... Il comandante, capitano di vascello Albenga, finì sotto processo, invece Zia Babà vantò quella sua intuizione per tutta la vita! §
Il caso San Giorgio viene rapidamente archiviato dal tribunale; il marchese Albenga subisce una lieve condanna “…per grave responsabilità, per trascuranza e leggerezza nella condotta della navigazione in paraggi che imponevano la massima costante oculatezza e diligenza di manovra…”; La condanna per l’ufficiale di rotta è di tre mesi di fortezza e il comandante in seconda se la cava con gli arresti di rigore. In pratica vera colpevole è dichiarata la secca della Gaiola con “l’aggravante” della premeditazione perché appostata in quel sito da migliaia di anni con la precisa intenzione di danneggiare le navi.
Giuseppe Peluso - Pozzuoli Magazine del 27 ottobre 2012