Giuseppe,
primo enfiteuta della Famiglia Daniele
Verso la metà del XVIII secolo, regnando Carlo III di
Borbone, il territorio su cui sorge la masseria detta “La Starza ” è domino diretto
della Mensa Vescovile di Pozzuoli ed è condotto in enfiteusi da Giuseppe
Daniele, un contadino puteolano.
E’ bene ricordare che l’enfiteusi è un diritto reale di
godimento su fondo altrui, che comporta per il titolare l’obbligo di coltivare
e migliorare il fondo e di pagare un canone annuo in denaro o natura. Il
contratto d'enfiteusi si afferma nel quinto/sesto secolo e spesso esiste un
concedente che, oltre a percepire il canone, ha il diritto di affrancare il
fondo qual’ora l’enfiteuta viene meno ai suoi obblighi. Durante il medioevo,
con l’accentuarsi dell’obbligo di migliorare il fondo come carattere essenziale
di questo tipo di contratto, l’enfiteusi contribuisce largamente alla
redenzione economica di molte regioni italiane.
Il nostro fondo è conosciuto come “La Starza ”, toponimo molto
diffuso in tutta la Campania ,
che deriva dalla parola latina, tardo medioevale, “Startia - Starcia” che indica
“terreno da seminare”. Il significato primitivo del nome rimane comunque
alquanto oscuro in quanto alcuni studiosi lo inquadrano come indicante un
vigneto con le vite sposate (appoggiate) all’olmo. Nel gergo napoletano “starza”
acquisisce per estensione anche sinonimo di “fattoria” o, comunque, di “vasto
podere”.
Ma come nasce questo toponimo nella nostra Pozzuoli?
Tutta la piana marina, sottoposta al costone marino che va da
Pozzuoli ad Arco Felice, si inabissa in tarda epoca imperiale (quando ancora ospita
quartieri, templi ed opere portuali), e poi riaffiora a seguito del bradisisma
ascendente che culmina nell’eruzione di Monte Nuovo del 1538. Questo nuovo
territorio è incorporato dal Regio Demanio così come accaduto per le prime e
più antiche porzioni emerse molto prima dell’eruzione. Nel contempo è riaperta
ai viandanti la strada che seguendo il tracciato dell'antica via Erculea
collega Pozzuoli con Baia attraverso questo nuovo territorio che così riprende
nuova vita e vigore anche se sempre più minacciose diventano le incursioni dei
saraceni che proprio su questi lidi trovano sicuro e veloce approdo.
Subito dopo l’eruzione tutto il territorio si presenta in
uno spettacolo devastante. Non c’è albero che non abbia avuto tutti i rami
troncati, né si conosce che albero sia stato. Tutte le fabbriche sono cadute e
sono morti gli animali domestici. I raccolti sono stati distrutti dai lapilli e
dalla cenere che raggiunge lo spessore di oltre venti centimetri.
Ma tutto passa e, con la caparbietà degli abitanti e la
volontà del viceré Pedro
Álvarez de Toledo y Zúñiga,
la vita riprende lentamente. Si ricostruiscono le fabbriche rovinate, si
ritorna a coltivare e si ricomincia a pescare. Il viceré Don Pedro ha fatto
bando che tutti i puteolani possano rimpatriare, facendoli franchi d'ogni
pagamento per molti anni. Egli stesso, per dare loro coraggio, fa erigere un
palazzo con torre, giardino e fontane, quale sua dimora. Fa costruire anche
fontane e strade pubbliche, nonché una “starza” di lunghezza di un miglio tutta
coltivata, arbustata e ricca di giardini e fonti. Proprio da questa fattoria vicereale
l’iniziale nome “Starza” finisce per estendersi passando ad indicare tutta la
zona circostante, compreso piana e costone marino.
Tra la fine del sedicesimo e l’inizio del diciassettesimo secolo
troviamo gran parte di questo territorio in dominio della diocesi puteolana o
comunque amministrato a beneficio dalla sua “Mensa Vescovile”. Essa ha
provveduto a frazionarlo e concederlo in enfiteusi a contadini puteolani ed il
fondo più significativo ed esteso che su di esso insiste, con annesse
costruzioni rurali, è correntemente conosciuto come “Masseria alla Starza”.
A metà del settecento questa masseria risulta molto più
estesa dell’ultima porzione residua che, tramandata nei secoli, costituisce
l’attuale “Villa Maria alla Starza” della Famiglia Peluso.
Questi sono i suoi termini nel 1750, circa.
a - A settentrione confina con il costone
detto “Terrazzo Marino della Starza” e ne comprende tutta la scoscesa parete verticale,
esclusa la sommità che rientra nei beni del Cavaliere Don Ambrogio Cordiglia.
Solo l’estremo versante, verso il Vallone Mandria, appartiene ad altra
proprietà che in seguito, alla fine del diciannovesimo secolo, sarà assorbito
nelle proprietà della famiglia Caracciolo, unitamente a quelle appartenute ai
Cordiglia.
b - Ad oriente confina con l’alveo
naturale che, proveniente dalla piana su cui insiste l’antica Consolare Campana
(attuale via Celle), discende attraverso il Vallone Mandria e sfocia in mare in
località Calcara. Detto alveo, attualmente ricoperto ed in parte attraversato
da condotte di nafta, divide in modo naturale la “Masseria alla Starza” da
altro fondo sottoposto sempre al dominio della Mensa Vescovile di Pozzuoli che
ancora oggi ne possiede alcune porzioni. Esattamente quella su cui sorge la Chiesa e l’Istituto San
Marco e quella dirimpettaia adibita a parcheggio auto; entrambe queste porzioni
costituiranno un territorio unico fino alla realizzazione della via Antonio
Maria Gaspare Sacchini che, attraversandolo, andrà a dividerlo quasi a metà.
c - A mezzogiorno confina con la palude
marina appartenente al demanio della “Università di Pozzuoli” che la ottenne
per mezzo dei regi decreti antecedenti l’eruzione di Montenuovo. Tale palude,
formatasi in seguito al nuovo moto discendente del bradisisma, è separata a
malapena dal mare dalla strada che conduce a Baia e che ora, nel 1750, è già
quasi completamente sommersa.
d - Ad occidente confina parte colli beni
del Signor Agostino Barletta e parte con l’antico mulino ad acqua che utilizza
(mediante condotte forzate, vasche e cisterne) l’antico acquedotto campano
ancora funzionante perché ben protetto nelle visceri del costone. Secoli di
incursioni barbariche e d'eventi tellurici ed alluvionali nulla hanno potuto
contro questa meraviglia dell’ingegneria idraulica romana; solo i tecnologici
progettisti della Ferrovia Cumana sono riusciti a cancellarne ogni traccia dopo
circa ventidue secoli.
Oltre l’antico mulino ad acqua, ed oltre l’attuale complesso
“borgo mulino” (ex proprietà Mirabella) esistono, nel diciottesimo secolo,
altri fondi sempre in dominio della Mensa Vescovile. Essa ancora oggi ne
possiede alcuni residui, condotti in enfiteusi, e racchiusi tra la linea
ferrata della Cumana ed il retrostante costone marino.
Entro i suoi confini il Territorio è di circa sette moggia,
l’antica misura dei terreni agricoli di valore variabile a secondo i luoghi. Il
moggio napoletano, cui ci riferiamo, è di circa 3.365 metri quadri ed a
sua volta si divide in quarte, none e quinte. Quindi il Territorio si estende
per oltre 23.000 metri
quadri e si presenta già ben curato, alberato, particolarmente predisposto
verso la viticoltura e la produzione di frutti pregiati. E’ ben dotato di
comodi rurali costituiti sia da attrezzi propriamente agricoli sia da locali
accessori quali forno, casotto per maiali, cisterna, ed altro. Probabilmente
comprende anche qualche cavità scavata o appena abbozzata nel dolce materiale
che costituisce il retrostante costone.
A metà del ‘700 ancora non esiste la provinciale via
Miliscola (attuale Nicola Fasano) perché la strada che mena a Baia ricalca,
come visto, il percorso dell’antica Via Erculea. Essa inizia dall’attuale via
Roma, grosso modo all’altezza del serapeo, e costeggiando l’antica ripa, ora
occupata dai vari cantieri, si dirige verso Lucrino e Baia. Tracce di questa
strada, abbandonata tra il 1785 ed il 1786 perché invasa dal mare, sono ancora
visibili su foto e cartoline dei nostri anni ’50. Da questa strada si dirama,
all’altezza degli attuali uffici della “Nautica Maglietta”, un viottolo che
conduce al mulino ad acqua e conseguentemente alla nostra masseria. Per mezzo di
un ingresso con piccola lamia e portone di legno ci s'immette nell'anzidetto fondo
ove in principio s’incontra un “bassolino” senza porta e senza “astraco solare”,
poscia una tettoia addossata al muro che fa da confine con l’antico mulino.
Poi a fronte di un piccolo stradone, di circa trenta passi
di più vi esistono:
a - due bassi grandi a lamie per uso
“cellajo” e “casone”;
b - esistono due altri piccoli bassi da
servire uno per uso cavallini accosto
ai cennati due bassi grandi, ed un altro per uso di neri
(maiali), sistente a sinistra entrando detto portone;
c - di più vi esiste un loggiato sostenuto
da quattro pilastri di fabbrica, di palmi quattordici circa ognuno, sistemati
avanti ai detti bassi grandi;
d - esiste l'aja larga circa 20 palmi
quadrati, per tritolare le vettovaglie del Territorio, circondata da muro alto
circa 3 palmi;
e - un tinuccio di fabbrica di circa 6
botti, dietro i due bassi antichi;
f - tavola di fabbrica, con poggi anche di
fabbrica;
g - lavatoio pure di fabbrica;
h - una cucinetta lunga palmi 16 e larga
palmi 8, con focolare e porta lastricata;
i - una cisterna d'acqua piovana, davanti
ai due bassi antichi, che si eleva di circa 20 palmi e capace di circa 50
botti.
Nel cellajo (oltre a botti, barili e tini) sono presenti un
torchio definito “ingegno alla francese” e nove grossi fusti. Poiché ogni fusto
ha la capacità di due botti (la botte ha la capacità di tre pippe, la pippa ha
la capacità di cinque barili, il barile ha la capacità di 44 litri ) facilmente
risaliamo alla capacità totale dei nove fusti che possono contenere in
complesso 11.880 litri
di vino.
Una produzione annua di circa 12.000 litri , ottenuta
tutta con uva fornita dalla masseria stessa, rappresenta un buon dato
considerando le modeste tecniche e sofisticazioni dell'epoca.
Giuseppe Daniele conduce il tutto per mezzo di un contratto
enfiteutico, ma non sappiamo esattamente da quando tempo; stipulato probabilmente
attorno all’anno 1750, durante l’episcopato di Monsignor Nicola De Rosa.
Neppure sappiamo se Giuseppe sia il primo enfiteuta della famiglia Daniele, a
condurre il fondo, o sia subentrato nel contratto per successione di suoi
ascendenti così come poi succede ai i suoi discendenti.
Noi optiamo per questa seconda ipotesi poiché difficilmente,
salvo gravi motivi, questo particolare tipo di contratto viene revocato. Ad ogni
modo solo un approfondito studio dei documenti conservati presso l’archivio
vescovile potrebbe risolvere questo dubbio.
Il periodo di conduzione del fondo da parte di Giuseppe
Daniele coincide all'incirca con il fulgido regno del Borbone Carlo III; un’epoca
relativamente tranquilla, rivolta al miglioramento delle condizioni di vita. Lo
stesso re Carlo inizia la valorizzazione dei beni archeologici flegrei, subito
dopo quelli di Ercolano e Pompei, iniziando a mettere in luce il complesso del
Serapide vicinissimo alla “Masseria alla Starza”.
Nello stesso tempo è definitivamente sistemato lo
scorrimento dell’Alveo Campano e per quest'operazione il Territorio, che come
abbiamo visto con esso confina, è soggetto ad una prima parziale espropriazione.
Perde quella striscia di terreno che, fiancheggiando la sponda destra
dell’Alveo, s'incunea fin dentro il Vallone Mandria venendolo a dividere giusto
a metà; così come appare da alcuni antichi acquarelli.
Giuseppe Daniele,
coadiuvato dalla moglie e dai figli, svolge proficuamente e tranquillamente il
suo compito di contadino fin quando sopraggiunge la sua morte verso la fine dell’anno
1778.
Giuseppe Peluso - Pozzuoli Magazine del 18 maggio 2013
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