La Calcara di Pozzuoli
Tra questi quello
detto “La Calcara” in cui ci si immette dallo scenografico androne al civico 9 dell’allora
via Miliscola; un vivace borgo che prende nome da una fornace che produce calce,
“carcara” in dialetto, a mezzo cottura delle pietre calcaree.
Le calcare hanno
spesso rappresentato una parte significativa dell’economia di un luogo,
caratterizzandone il paesaggio con la loro mole, e quella di Pozzuoli, seppure
vaghe siano le sue origini, risale agli immediati anni post eruzione di
Montenuovo; quando forte è la necessità di ricostruire e ritornare nei luoghi
natii.
Nei Campi Flegrei
sono reperibili i tre elementi essenziali per le costruzioni edilizie; il tufo
giallo facilmente lavorabile, la pozzolana che ha proprietà cementizie ed il
calcare per la produzione di calce.
Si! Il calcare!
Quest’ultimo elemento
è anche più facile da trovare; lo si prende dai templi, dagli anfiteatri, dalle
grandiose terme e dai ruderi archeologici che abbondano in questa Terra.
Colonne e statue, il
cui marmo è costituito da rocce calcaree, sono raccolte e immesse nella grande
bocca che con il fuoco ha, per secoli, divorato il nostro passato.
L’iniziale fornace resta
in attività fino al XVIII secolo quando, per le sempre più forti richieste di
calce, ne sarà costruita una più grande che resta in funzione fino al 1885.
La Calcara di
Pozzuoli fonda la sua fortuna sull’attiguo “Alveo Campano”, da cui attinge
acqua per la formazione di calce viva, e per il piccolo molo in legno sul mare che
facilita l’imbarco della calce sulle “bilancelle” che imbarcano anche tufo e
pozzolana nelle numerose e vicine cave.
Naturalmente statue e
colonne, che iniziano a scarseggiare, non sono sufficienti a fronteggiare una
sempre più forte richiesta e pertanto si decide di importare pietre calcaree
dai monti in cui sono presenti.
Le cave di Maddaloni
sarebbero più economiche e raggiungibili a mezzo strade pianeggianti, ma il
trasporto stradale a mezzo traino animale permette la movimentazione di piccole
quantità a costi elevati, anche per la necessità di richiedere massi già
frantumati.
Così si opta per le
cave presenti nelle penisola sorrentina che, a mezzo “bilancelle” e “feluche”,
assicurano grossi quantitativi in tempi più rapidi.
Nello stesso periodo
in cui arriva la Armstrong, tra l’altro nell’accordo tra Comune di Pozzuoli e
Amministratori Inglesi è specificato che il limite meridionale da occupare è
costituito proprio dalla esistente Calcara, crolla la volta della fornace ed i
proprietari decidono di ricostruirla secondo gli ultimi aggiornamenti; questa
volta il suo camino piramidale raggiunge l’altezza d’oltre 18 metri.
Nel novecento, con
l’avvento del moderno trasporto stradale, ridiventa conveniente acquistare il
calcare dalle cave di Maddaloni e Valle di Maddaloni.
Le grosse rocce sono
scaricate dai camion a ridosso della struttura dove vengono frantumate e
suddivise in pezzi più piccoli sferrando colpi con grossi martelli.
Quest’operazione è
svolta da un nutrito gruppo di manovali che poi afferrano le più grandi
portandole direttamente in spalla verso la parte alta della fornace mentre le
più piccole sono raccolte in “caldarelle” ed egualmente scaricate alla sommità.
La parte alta della
fornace la si raggiunge a mezzo rampe in muratura, parte esterne e parte
interne, che girano attorno al focolare; la visione di quegli uomini che
portano grandi pesi, a torso nudo e con la testa avvolta in un “maccaturo”, mi
riporta ad un infernale girone dantesco dove i dannati sono costretti a girare
per l’eternità sotto pesanti carichi in un ambiente infuocato.
La struttura è
gestita dalla Famiglia di don Gennaro De Falco che come dipendenti fissi
dispone solo di un esperto “fuochista” per l’accensione e il controllo della
temperatura e di un esperto “carcataro” per la sistemazione e controllo delle
rocce.
Tutti gli altri
manovali sono avventizi; in genere ragazzi alle prime esperienze, disoccupati o
pescatori che necessitano d’arrotondare.
Dopo le rocce si posa
il legname nella camera bassa dove si accende un fuoco che raggiunge una
temperatura di quasi 1.000 gradi costringendo l’aria, che alimenta la
combustione, a filtrare attraverso la massa dei materiali da cuocere.
Il fuoco è tenuto
vivo per circa 5/8 giorni quindi, per controllare lo stato di cottura, si
prende uno dei sassi e lo si butta nell’acqua fredda per verificarne la
tumultuosa (e rischiosa) reazione.
Raggiunta la cottura
si spegne il fuoco, si raccolgono le ancora bollenti ceneri che sono depositate
in una vicina zona, delimitata da una linea che i bimbi son tenuti a non
attraversare, e si lascia raffreddare l’ottenuta calce.
Parte di questa è poi
messa a contatto con l’acqua sprigionando calore; comincia a ribollire e,
mediante un pericoloso processo, è trasformata in “calce viva”.
Tutto questo è durato
fino alla metà degli anni sessanta quando la ditta degli Ing. Grillo acquisisce
la zona, abbatte questo e vecchi adiacenti edifici, e vi costruisce un moderno
fabbricato.
Sono gli anni in cui
si completa “L’Autostrada del Sole”, in cui circola il “Treno del Sole”, in cui
si canta “La Canzone del Sole”; pertanto sembra loro “alla moda” battezzare “Palazzo
del Sole” questo nuovo edificio.
Con la calcara
sparisce anche un borgo, un paesaggio, un mondo; solo nei ricordi restano i salti
nella cenere bollente, l’autofficina di Fortuna, i pullman dei Fratelli
Iaccarino, le suore che insegnano il ricamo e donano grattate irrorate di
sciroppo, il cantiere di quel mast Filippo che ha insegnato a fare barche agli
ebrei esuli a Bacoli, e la piccola spiaggia da cui ci lanciavamo in un familiare
ma rosso mare, ricco di sangue e di vongole veraci.
GIUSEPPE PELUSO
Pubblicato su Segni dei Tempi di giugno 2024
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