lunedì 7 aprile 2025

La Calcara di Pozzuoli

 



La Calcara di Pozzuoli

 Fino a tutti gli anni sessanta sono molti i cortili di Pozzuoli che al loro interno nascondono un variopinto mondo fatto di lavoro e d’umanità.

Tra questi quello detto “La Calcara” in cui ci si immette dallo scenografico androne al civico 9 dell’allora via Miliscola; un vivace borgo che prende nome da una fornace che produce calce, “carcara” in dialetto, a mezzo cottura delle pietre calcaree.

Le calcare hanno spesso rappresentato una parte significativa dell’economia di un luogo, caratterizzandone il paesaggio con la loro mole, e quella di Pozzuoli, seppure vaghe siano le sue origini, risale agli immediati anni post eruzione di Montenuovo; quando forte è la necessità di ricostruire e ritornare nei luoghi natii.

 

Nei Campi Flegrei sono reperibili i tre elementi essenziali per le costruzioni edilizie; il tufo giallo facilmente lavorabile, la pozzolana che ha proprietà cementizie ed il calcare per la produzione di calce.

Si! Il calcare!



Quest’ultimo elemento è anche più facile da trovare; lo si prende dai templi, dagli anfiteatri, dalle grandiose terme e dai ruderi archeologici che abbondano in questa Terra.

Colonne e statue, il cui marmo è costituito da rocce calcaree, sono raccolte e immesse nella grande bocca che con il fuoco ha, per secoli, divorato il nostro passato.

L’iniziale fornace resta in attività fino al XVIII secolo quando, per le sempre più forti richieste di calce, ne sarà costruita una più grande che resta in funzione fino al 1885.

 




La Calcara di Pozzuoli fonda la sua fortuna sull’attiguo “Alveo Campano”, da cui attinge acqua per la formazione di calce viva, e per il piccolo molo in legno sul mare che facilita l’imbarco della calce sulle “bilancelle” che imbarcano anche tufo e pozzolana nelle numerose e vicine cave.

Naturalmente statue e colonne, che iniziano a scarseggiare, non sono sufficienti a fronteggiare una sempre più forte richiesta e pertanto si decide di importare pietre calcaree dai monti in cui sono presenti.

Le cave di Maddaloni sarebbero più economiche e raggiungibili a mezzo strade pianeggianti, ma il trasporto stradale a mezzo traino animale permette la movimentazione di piccole quantità a costi elevati, anche per la necessità di richiedere massi già frantumati.

Così si opta per le cave presenti nelle penisola sorrentina che, a mezzo “bilancelle” e “feluche”, assicurano grossi quantitativi in tempi più rapidi.

Nello stesso periodo in cui arriva la Armstrong, tra l’altro nell’accordo tra Comune di Pozzuoli e Amministratori Inglesi è specificato che il limite meridionale da occupare è costituito proprio dalla esistente Calcara, crolla la volta della fornace ed i proprietari decidono di ricostruirla secondo gli ultimi aggiornamenti; questa volta il suo camino piramidale raggiunge l’altezza d’oltre 18 metri.



Nel novecento, con l’avvento del moderno trasporto stradale, ridiventa conveniente acquistare il calcare dalle cave di Maddaloni e Valle di Maddaloni.

Le grosse rocce sono scaricate dai camion a ridosso della struttura dove vengono frantumate e suddivise in pezzi più piccoli sferrando colpi con grossi martelli.

Quest’operazione è svolta da un nutrito gruppo di manovali che poi afferrano le più grandi portandole direttamente in spalla verso la parte alta della fornace mentre le più piccole sono raccolte in “caldarelle” ed egualmente scaricate alla sommità.

La parte alta della fornace la si raggiunge a mezzo rampe in muratura, parte esterne e parte interne, che girano attorno al focolare; la visione di quegli uomini che portano grandi pesi, a torso nudo e con la testa avvolta in un “maccaturo”, mi riporta ad un infernale girone dantesco dove i dannati sono costretti a girare per l’eternità sotto pesanti carichi in un ambiente infuocato.

 

La struttura è gestita dalla Famiglia di don Gennaro De Falco che come dipendenti fissi dispone solo di un esperto “fuochista” per l’accensione e il controllo della temperatura e di un esperto “carcataro” per la sistemazione e controllo delle rocce.

Tutti gli altri manovali sono avventizi; in genere ragazzi alle prime esperienze, disoccupati o pescatori che necessitano d’arrotondare.

Dopo le rocce si posa il legname nella camera bassa dove si accende un fuoco che raggiunge una temperatura di quasi 1.000 gradi costringendo l’aria, che alimenta la combustione, a filtrare attraverso la massa dei materiali da cuocere.

Il fuoco è tenuto vivo per circa 5/8 giorni quindi, per controllare lo stato di cottura, si prende uno dei sassi e lo si butta nell’acqua fredda per verificarne la tumultuosa (e rischiosa) reazione.

Raggiunta la cottura si spegne il fuoco, si raccolgono le ancora bollenti ceneri che sono depositate in una vicina zona, delimitata da una linea che i bimbi son tenuti a non attraversare, e si lascia raffreddare l’ottenuta calce.



Parte di questa è poi messa a contatto con l’acqua sprigionando calore; comincia a ribollire e, mediante un pericoloso processo, è trasformata in “calce viva”.

 

Tutto questo è durato fino alla metà degli anni sessanta quando la ditta degli Ing. Grillo acquisisce la zona, abbatte questo e vecchi adiacenti edifici, e vi costruisce un moderno fabbricato.

Sono gli anni in cui si completa “L’Autostrada del Sole”, in cui circola il “Treno del Sole”, in cui si canta “La Canzone del Sole”; pertanto sembra loro “alla moda” battezzare “Palazzo del Sole” questo nuovo edificio.

Con la calcara sparisce anche un borgo, un paesaggio, un mondo; solo nei ricordi restano i salti nella cenere bollente, l’autofficina di Fortuna, i pullman dei Fratelli Iaccarino, le suore che insegnano il ricamo e donano grattate irrorate di sciroppo, il cantiere di quel mast Filippo che ha insegnato a fare barche agli ebrei esuli a Bacoli, e la piccola spiaggia da cui ci lanciavamo in un familiare ma rosso mare, ricco di sangue e di vongole veraci.



GIUSEPPE PELUSO 

Pubblicato su Segni dei Tempi di giugno 2024

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