mercoledì 21 marzo 2012

Una Quaresima puteolana








Una Quaresima puteolana
a Villa Maria alla Starza

La mia lunga infanzia inizia direttamente a Villa Maria dove vengo alla luce nel freddo gennaio del 1947 e dove, poco dopo, mi impartisce il battesimo l’indimenticabile Don Vincenzino Abete. Nascita, iniziazione e seguenti anniversari nel grande appartamento di Famiglia che fu dei nonni, situato al secondo piano della Villa in stile Liberty in via Miliscola.
Ben presto mi portano nel cortile e nelle prime foto, in questo scenario, sono a cavalcioni di una mucca, che fu mia nutrice, tenuta ben stretta dall’allora giovane allevatore. Appena muovo i primi passi inizio a frequentare e giocare con i nipoti dei vecchi coloni che coltivano l’allora esteso territorio non ancora rimpiccolito dagli ultimi espropri come quelli del 1953, subito per la realizzazione del Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso, e del 1987, subito per permettere il raddoppio della Ferrovia Cumana.
Quella che in passato era una estesa masseria conosciuta come “Territorio alla Starza”, ha di già patito negli ultimi 250 anni pesanti decurtazioni con i seguenti espropri:
Nel 1750 circa per la sistemazione dell’Alveo Campano.
Nel 1786 per la costruzione, voluta da Ferdinando IV, della nuova strada, che taglia in due la proprietà, essendo invasa dal mare la vecchia strada costiera.
Nel 1794 per la cessione alla Università di Pozzuoli della parte paludosa rimasta separata dal Territorio principale.
Nel 1885 per la costruenda Ferrovia Cumana.
Nel 1890 per l’adattamento della provinciale in previsione del prolungamento della linea tranviaria fino a Baia.
A tutti questi aggiungiamo l’attuale progettata trasformazione della Villa in stazione per la Ferrovia Cumana. Programma accettabile se fosse attuato e non solo sbandierato a livello propagatore da amministratori comunali, regionali e societari; progetto che da dieci anni blocca proprietari e fabbricato. Credo che nessun Territorio abbia subito tanti espropri, negli ultimi documentati tre secoli, e nessuno dei suoi possessori ha mai effettuato speculazioni su quello che era un ampio e verde polmone al centro della città. Vendendo o lottizzando avrebbero oggi evitato facili mire espropriative; ma torniamo a noi.
In quel 1947 nella Villa ci sono tre appartamenti abitati dai fratelli Antonio, Enrico e Carmine Peluso con le rispettive Famiglie. Mio zio Antonio ha tre figlie, ma solo l’ultima, Rita, è mia coetanea con cui poter giocare. Mio zio Enrico ha cinque figli e solo gli ultimi due, Gianfranco e Lidia, son quasi della mia età; solo nel 1951 arriva anche il piccolo Guido che diventa la mascotte di tutto il podere. Mio Padre, oltre me, ha mia sorella Maria Rosaria più piccola di solo un anno.
Due altri civili appartamenti sono abitati il primo dalla Famiglia Molino il cui Padre, inizialmente pescatore, nel 1955 diviene operaio poiché assunto dal dirimpettaio cantiere “Trione Ferroleghe”. E’ questa la famiglia ideale per i frequentatori del cortile; ha ben cinque figli e si gioca con tutti, dalla più grande al più piccolo. Il secondo appartamento è abitato da due nuclei di origine toscana, i Bertini e i Petrucciani; tutti occupati presso il Grand Hotel Londra di Napoli; sono gli unici residenti che non hanno bimbi piccoli con cui poter giocare.
Al piano terra abitano nell’antico “Casone” i coloni, ovvero Menichiello (Domenico) Biclungo con sua moglie Rosina e sua figlia Brigidina, che per la sua età possiamo lecitamente definire “zitella”. I coloni non sempre sono soli perché vengono a trovarli, e spesso restano li a dormire, tre loro nipoti orfane di un figlio dello stesso Biclungo. Queste tre ragazze, Antonietta, Tina ed Enzina, saranno affiatate compagne di gioco per molte stagioni.
Sempre al piano terra, vicino al “cellajo”, esiste un altro piccolo locale, anticamente adibito ad “uso cavallini”, in cui vive un altro figlio del Biclungo con i suoi figli poco più grandi di me; tutti aiutano i nonni nella coltivazione del Territorio. Infine nei casamenti rustici distaccati, le cosiddette “stallucce”, vive, come nei Sassi di Carlo Levi, la famiglia del vaccaro Vittorio Perrotta, quello visto nella prima foto, che è circondato da una moltitudine di figli scaglionati nelle varie età. Oggi possiedono un importante caseificio a Varcaturo.
La vita del cortile risente delle recenti sofferenze della guerra senza poter ancora assaporare i benefici dell’imminente boom; la filastrocca che maggiormente stornelliamo così recita: “l’apparecchio americano, vott‘ i bombe e se ne va’; se ne va’…..”. Per fortuna non ricordo il prosieguo. Rari i giocattoli, molti i semplici giochi di gruppo, tante le opportunità di apprendere, infinite le tradizioni da rispettare.
Tra queste la “Quaresima”. Così chiamavamo la bambola di pezza somigliante ad una strega che veniva appesa il mercoledì delle Ceneri all’arcata centrale nel cortile di Villa Maria. Un'usanza antica, arcaica, che aveva una originaria funzione pagana legata al culto dionisiaco. Era un fantoccio di donna vestito di bianco e di nero, i colori del lutto, e in basso al di sotto del lungo vestito una patata trattenuta da un fil di ferro che scendeva dalla struttura in legno del pupazzo. In questa patata si infilavano in cerchio sette penne di gallina, sei nere ed una bianca. La patata rappresentava il sesso femminile e le sette penne l’interdizione temporanea ad ogni rapporto nel periodo di astinenza. Un antico calendario simbolico, magico, rituale. Carnevale e Quaresima, infatti, per la cultura popolare sono fratello e sorella ma anche marito e moglie, e con la morte di Carnevale il martedì grasso iniziano, in attesa della Pasqua, le sette settimane di Quaresima. Ogni domenica quaresimale, dopo aver partecipato alla Santa Messa e prima del pranzo, da questa simbolica bambola rituale, veniva estirpata una penna nera. L'ultima penna, quella bianca, veniva sfilata dalla patata la notte del Sabato Santo ad indicare la fine dell'astinenza e del tempo quaresimale. Durante le sette settimane non si potevano mangiare dolci, non ci si doveva pettinare i capelli, non si spazzava il pavimento, non si mangiava carne, non si dovevano aggiustare i letti, non si doveva cucire e non si doveva cucinare in modo troppo elaborato; mio Padre aggiungeva di suo che non bisognava tagliarsi le unghie.
Ma io ero piccino ed il significato di tutte queste simbologie l’ho saputo solo ora chiedendo e leggendo qualche cosa sull’argomento. Per me era solo un gioco cui, finalmente, partecipavo insieme agli adulti.
C’era necessità di adoperare una lunga scala per raggiungere il chiodo al centro dell’arco ed appendere il feticcio. Anche il più grande treppiede era insufficiente e si usava una speciale scala di legno, quella stretta che i contadini utilizzano per penetrare in alto tra il fogliame degli alberi, in particolare sui fichi. Questa operazione veniva eseguita, nei miei primi anni, da Mimì ed in seguito da Gennaro, entrambi nipoti dei coloni Biclungo. Ero troppo piccolo ma guardavo ammirato e con invidia chi compiva quell’atto, per me ardimentoso, sotto l’attento sguardo degli abitanti della Villa ed anche del vicinato. Sognavo il giorno che sarei salito a sfiorare quel trofeo.
L’operazione si ripeteva ogni domenica, il giovane contadino salendo si fermava a metà della scala, noi altri in cerchio recitavamo delle preghiere e la vecchia Rosina mormorava delle indecifrabili parole. Non capivo se fossero orazioni o magiche parole da fattucchiera; ancora oggi me ne resta il dubbio. Poi il ragazzo saliva gli altri gradini, toglieva una penna e ridiscendeva al punto in cui prima si era fermato. Di nuovo recita delle preghiere e poi completa discesa a terra. La penna che era stata rimossa dalla patata veniva bruciata in una “buatta” mentre, ancora in cerchio, riprendevano a pregare tutti coloro che aveva partecipato alla funzione.
La bambolina restava poi sola a dondolare al minimo spirare del vento che certo non mancava in quei mesi di febbraio e marzo. Non nascondo che a volte di sera al buio, quel suo lento ciondolare, mi incuteva un sinistro timore; nella mia giovane fantasia l’associavo all’immagine di una strega condannata alla forca. Nelle serate quaresimali evitavo di restare solo nel cortile e quando dovevo attraversarlo scongiuravo di sollevare lo sguardo fin sotto quell’arco dal quale solitamente pendevano innocui “mellune” impagliati e “piennoli” di pomodori.
Finalmente giungeva il Sabato Santo, dopo la penna bianca veniva tirato giù anche il fantoccio ed il tutto veniva bruciato così come nelle Chiese bruciava il Sacro Fuoco Santo, preludio allo scioglimento della Gloria, alla Pasqua, alla fine di ogni astinenza ed all’inizio di un nuovo periodo che si sperava prospero e fecondo.
Per tradizione e scaramanzia la bambolina doveva essere prima allestita ed infine bruciata dalla “signorina” più grande in età facente parte della famiglia che apprestava il sacro rito. Nella patriarcale discendenza di Menichiello la più anziana “zitella” è sempre stata sua figlia Brigida Biclungo e nei miei ricordi che vanno dalla fine degli anni ‘40 agli inizi degli anni ‘60 sempre lei ha avuto l’incarico di preparare la pupa. La memorabile Brigidina è venuta a mancare solo di recente all’età di circa 100 anni in casa dell’artista La Mura dove aveva seguito sua nipote Tina, giovane sposa del Maestro Peppe.
Ah! Quante bamboline avrebbe dovuto preparare se fosse rimasta a Villa Maria. Non so se sarebbe arrivato anche per me l’ardimentosa opportunità di salire ad estirpare le penne, ma certo i miei occhi non avrebbero visto altra “signorina”, oltre Brigida, impegnata nella preparazione della “Quaresima”.

Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 3 marzo 2012

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