Ci vergogniamo di Mamozio?
Eppure piace più di Pulcinella e fa paura a San Gennaro
Tra settecento ed
ottocento tutte le guide storiche di Pozzuoli e delle sue antichità parlano di una
delle meraviglia che assolutamente bisogna vedere in questa cittadina, il Santo
del paese.
“La piazza di Pozzuoli resta a mano sinistra in
entrare nella porta della città, la di cui strada, per la quale con dolce
declivio vi si scende, pur ora conserva il suo antico nome di pendio di mare,
giacchè un tempo fin qui sotto giungevano le sue acque.
Nel mezzo della piazza evvi una fontana fiancheggiata
da due statue colossali di bianco marmo, poste una in prospetto dell’altra. La
statua alla dritta fu fatta scolpire dalla Città in onore del suo Vescovo
Monsignor Martino di Leon per i molti benefici da esso Prelato ricevuti….
L’altra di prospetto è un’antica statua consolare ben
panneggiata. Si vuole di Q. Flavio Egnazio Lolliano per una iscrizione incisa
nel fronte del piedistallo…”
Chi entra oggi nella
piazza (della Repubblica) non trova più traccia di questa seconda bianca statua,
popolarmente conosciuta come Santo
Mamozio, che pure ha segnato Pozzuoli ed i puteolani. Questa mancanza è susseguente
ai lavori di bonifica e innalzamento eseguiti tra il 1913 ed il 1923 quando,
esattamente nel 1918, la statua è riposta presso l’anfiteatro puteolano in
attesa di nuova sistemazione.
Vedovare la maggiore
piazza di Pozzuoli della statura di Q.
Flavio Egnazio Lolliano, divenuta nel frattempo celebre in tutta Italia ed
all’estero, sembra essere stata una profanazione che storici e sociologi ancora
ci deplorano.
Ma, senza voler nascondere
una scottante verità, per tutti noi puteolani Mamozio sembra essere stata una
beffa atroce; tanto da esserne perseguitati tutta la vita. Pertanto non pochi credono
che la statua sia stata seminascosta dall’allora amministrazione pubblica per
proteggerla da possibili danni che potessero procurargli nostri compaesani che
per sua causa si sentissero burlati al di fuori dei confini comunali. E questa ipotesi
è suffragata da rievocazioni e comportamenti; tanto più che l’altra statua,
quella del vescovo Martino, è ritornata (anche se transitando prima per
piazzetta Cesare Augusto e poi per i giardinetti antistanti la chiesa del
Carmine) nella piazza di Pozzuoli.
E’ noto che la
statua, attribuita al console romano Lolliano Mavorzio per via d’una iscrizione
inserita nel suo piedistallo (che probabilmente reggeva altra statua molto più
piccola), è ritrovata a Pozzuoli nel 1704 senza testa. Il monumento viene
collocato nella piazza principale e, come d'uso all'epoca, il capo mancante è reintegrato;
ma da una testa sproporzionatamente piccola rispetto al corpo, il che gli conferisce
un'aria imbambolata e buffa.
Intanto il nome Mavortio è distorto dai
puteolani in Mamozio e poi il popolino, iniziando ad adorarlo, all’istante lo
promuove da console a santo e così lo battezza "Santo Mamozio".
Diventa il protettore dei verdummari, che in
questa piazza tengono mercato, i quali gli rivolgono suppliche e pare anche che
gli lanciano, quando la stagione è propizia, offerte di fichi e pomodori. Si narra che un contadino avrebbe portato un
paniere di fichi per ingraziarsi il santo,
e dopo avergli lanciato una manciata di fichi, notando che quelli maturi si
appiccicano alla statua, mentre quelli acerbi cadono ai suoi piedi, abbia
pronunciato una considerazione rimasta a proverbio: “Santu Mamozio mio,
'e bbone t' 'e magne e 'e toste m' 'e manne arrete”.
Si dà notizia che gli sono applicate varie
teste, di volta in volta ritrovate o fatte ricostruire, ma sempre con risultati
poco lusinghieri; la statua si ritrova a volte con un capoccione enorme ed a
volte comicamente troppo piccolo.
Ed è così che Mamozio assume sia il significato di persona stupida,
sciocca e sproporzionata sia un alone di santità; tanto da poterlo definire come il
santo degli sciocchi. In questo ben ne rende l’idea il personaggio di Mamozio
interpretato da Macario il quale, cinematograficamente parlando, ha giusto la
faccia del mamozio nel film “Il
monaco di Monza”, a fianco di Totò.
Ezechiele Guardascione, nel suo “Napoli
Pittorica”, narra che la rozza fantasia popolare dei puteolani è scossa dalla
presenza di quel pezzo di marmo. Pertanto vi ricama sopra una leggenda, e gli
tributa onori quasi divini. In certi periodi dell’anno i contadini flegrei
vengono ad offrirgli cesti di frutta e pongono sotto la sua protezione gli
asini, i torelli, le pecore e ogni altro animale.
Inoltre Ezechiele ben racconta lo stato d’animo di tutti noi
puteolani nel confrontarci con i sorrisi maliziosi dei nostri conoscenti, o
compagni di classe, napoletani o di altre cittadine.
Io stesso, un secolo più tardi, ho dovuto sopportare,
come narra di aver sopportato il maestro Guardascione dopo che il suo
professore, all’Istituto Belle Arti di Napoli, ebbe spiegato ai suoi compagni della
ridicola statua di Santo Mamozio.
Preso dallo sconforto Guardascione pensa di
decapitare Mamozio (goliardata che mette in atto in una oscura notte invernale
con la complicità di tre amici) e di buttare in mare, ai ponti di Caligola,
quella testa gaglioffa che sotto i suoi colpi sembra lasciare volentieri quel
corpo non suo. La notizia della decapitazione vola rapida sulla bocca dei
puteolani; molti di loro ridono, ma molti prendono la cosa tragicamente. Sia la
popolazione che gli amministratori si dividono in opposti campi tra chi approva
la decapitazione e chi vuole restaurare la statua che da allora resta comunque acefala.
A Napoli tutti sanno che
è consuetudine delle “parenti di San Gennaro” (le popolane che il giorno
deputato alla liquefazione del sangue affollano già dall’alba la chiesa
incitando, tra una sferruzzata e l’altra, il santo a procedere, a farlo «’o
miracolo»), di passare ai modi bruschi se mai il santo, come talvolta accade,
dovesse indugiare. Dapprima apostrofandolo “faccia gialluta” (per via del
colore assunto dal bronzo della statua), quindi ricorrendo a vere e proprie
male parole, seppur pronunciate con l’affetto che viene dalla familiarità.
L’assalto verbale, però, è mitigato da premurose e al tempo stesso impertinenti
litanie, tra cui una recita: “San Gennaro
San Gennà ’sta città te cerca aiuto tu però te sì addurmuto e ’sta storia adda
cagnà. Nun vulimmo a ‘nu mamozio ca nun
tene autorità, San Gennaro San Gennà vire e nun ce sta a scuccià”.
E va a finire che il
più delle volte, per non prendersi ulteriormente del mamozio, San Gennà esegue.
Nel dicembre 2007 un
lettore scrive al redattore di un famoso giornale in riscontro ad un articolo in
cui ha ritrovato la frase: “... viene dai
mamozi egualitarismi…”. Purtroppo il lettore non conosce il significato
della parola “mamozi” non avendola trovata neppure sul suo Zingarelli, per cui
non ha potuto cogliere pienamente il senso del discorso. Perciò chiede che lo
si gratifichi di una pur brevissima risposta che possa colmare la sua lacuna
linguistica. Gli si risponde subito pubblicamente che il termine “mamozio” è
voce partenopea per pupazzo e, in senso lato, per conformista che
indolentemente adegua il proprio pensiero agli slogan e alle parole d’ordine,
senza carattere, spina dorsale, emasculato intellettualmente. In sintesi, e per
dirla ancora in vernacolo, l’«omme ’e niente». Poi continua spiegando il
ritrovamento della statua a Pozzuoli, …. del Mamozio oltre Pozzuoli (a Procida,
a Ponza, ad Isernia, egualmente antiche statue acefale) e che lo stesso non è
diventato una maschera come Pulcinella perché negli anni non ha mai trovato una
propria identità.
Ma a tal proposito Davide Morganti, sulla
Repubblica del 3 dicembre 2004, confessa di non aver mai amato la figura di
Pulcinella, l'idiota per fame, che nella vita non trova altro sapore che le
necessità del proprio corpo. In lui deflagra una viscida sopravvivenza, simbolo
di un popolo che, assolvendosi, legittima la sua miseria morale. Morganti crede
che maggiore attenzione e studio meriti, invece, la figura del “Mamozio” di
Pozzuoli. Nessun teatro popolare, nessun burattinaio ha mai pensato di metterlo
in scena, eppure proprio perché decollato richiama da vicino Giovanni il
Battista o il “Cavaliere senza testa” e, soprattutto, San Gennaro, decapitato
alla Solfatara durante le persecuzioni imperiali, a pochi metri dal luogo del
ritrovamento della statua. Il Mamozio, sorta di Pietra Nera dove per decenni il
popolo puteolano ha riversato i propri umori e i propri peccati, è dalla parte
dei Peppino, dei Fantozzi, dei Fabrizi, vittime di una comicità che fa ridere
proprio perché subita. Mentre Pulcinella è una maschera fatta di ventre e di
corruzione, il Mamozio consiste di vuoto e di martirio, vicino all' assenza di
volto di Buster Keaton. Oggi, purtroppo, giace indegnamente abbandonato nell'
Anfiteatro Flavio, poco prima dell' uscita, una pietra qualunque esposta al
sole e alla pioggia, non trova spazio altrove, né in un museo, né in una sala
comunale. A questo punto, per recuperare dignità, sarebbe meglio regalarlo a un
teatro, a una discoteca o a un cinema; ai nostri giorni sopravvive ormai
soltanto l'espressione «Si' proprio nu mamuozio» per indicare la stupidità di
un individuo. Dal settecento ai primi del novecento, posta nella piazza di
Pozzuoli, diventò per il popolo un santo, la gente, infatti, da un lato lo
dileggiava, dall' altra gli chiedeva miracoli. La testa veniva ogni tanto
distrutta di notte e rifatta secondo altre proporzioni, mai le stesse,
rafforzando una vis comica mai riconosciuta come dovrebbe. Il Comune di
Pozzuoli potrebbe sul Mamozio non solo organizzare premi e progetti, ma
invitare scultori, pittori, attori, scrittori a rendere vivo un personaggio
incredibile, uno diventato idiota per la santità a cui è stato consacrato,
sottratto, suo malgrado, all'infamia e alla gloria della maschera.
Noi puteolani dovremmo farci perdonare i
maltrattamenti cui lo abbiamo sottoposto ed auspicare che, nella prevista
risistemazione della piazza grande, l’originale, che finalmente ha trovato
degna sistemazione presso il Museo Archeologico del Campi Flegrei di Baia,
oppure una sua copia, possa essere nuovamente collocata nella sua posizione
originale. L’amico Sergio Ambrosino ipotizza il collocamento delle due statue,
quella di Mavorzio e quella del Vescovo Martino, una di fronte all’altra con in
mezzo la fontana che, posizionata all’incrocio degli assi di Via Cosenza e Via Portanova,
creerebbe una quinta scenica alla prospettiva finale di entrambe le strade.
Allora sarà festa grande, inviteremo il mondo
intero a svelare con noi una delle tante meraviglia del passato.
BIBLIOGRAFIA
Ezechiele Guardascione – Napoli Pittorica –
Sansoni 1943
Raffaele Giamminelli - Guida di Pozzuoli – C.
di P. 1986
Davide Morganti – La Repubblica – 3 dicembre
2004
Paolo Granzotto – Il Giornale – 5 novembre
2007
Giuseppe Peluso - Pozzuoli Magazine del 23 marzo 2013
Gradirei più notizie su questo personaggio.
RispondiEliminascotti22@virgilio.it
Piergiorgio Scotti