domenica 22 gennaio 2017

Strage di Garibaldini


Strage di Garibaldini a Pozzuoli
Il non facile inizio della unità nazionale

Siamo a Pozzuoli [1] nel novembre del 1860; dal giorno cinque Francesco II e i superstiti soldati napoletani si sono rinchiusi in Gaeta che inizia ad essere assediata dall’esercito piemontese.
Poco prima, il 21 ottobre, si è svolto il plebiscito che ha sancito l’unione dell’ex regno borbonico al resto dell’Italia.
Nelle province napoletane è stato posto il seguente quesito:
Il popolo vuole l'Italia Una e Indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?”
Il popolo nulla deve scrivere, la sua possibilità di scelta si limita a poter inserire la scheda, che riporta il laconico quesito, in un’urna contrassegnata dal “SI” oppure in un'altra contrassegnata dalla scritta “NO”.
Nella nostra Pozzuoli la votazione si svolge presso la Chiesa della Purificazione, dove nel 1870 sarà apposta una lapide ricordo [2].

Gli ammessi al voto sono 5403, ed altrettanti appaiono i votanti; i “Si” raggiungono quasi l'unanimità, vi sono solo quattro “No”.
Nessuno vuole andare controcorrente e nessuno quasi osa contraddire i “garibaldini” che, ben armati, e con gesta esplicite invitano ad inserire la scheda nella giusta urna.

Un mese dopo a Pozzuoli ancora bivaccano truppe d’occupazione di questa armata di volontari, ora appellata “Esercito Meridionale” che, dagli iniziali mille dello sbarco a Marsala, son diventati migliaia di migliaia [3].

La popolazione continua a chiamarli “garibaldini” poiché indossano la rossa camicia che sempre più spesso si tinge con le tonalità dei loro frequenti delitti consumati in questi mesi di transazione e confusione.
Tra loro ci sono sbandati, delinquenti ed avventurieri saliti sul carro del vincitore e, come fan sempre gli occupanti di ogni era storica, si comportano da provocatori, rissaioli, assassini.

Di già nel settembre avviene a Pozzuoli una deplorevole rissa tra popolani e garibaldini inviati dal vicino capoluogo. Queste truppe sono giunte perché ci sono preoccupazioni circa la condotta del castello di Baia, presidiato da una guarnigione di veterani borbonici; soprattutto per la notevole quantità di polvere pirica che vi è depositata.
Il castello resta l'ultimo presidio del napoletano del detronizzato Re [4].

Il 18 settembre, vigilia della festa di San Gennaro e nella quale suole concorrere molta gente al Santuario di Pozzuoli, suscita allarme la voce diffusa che Giacomo Livrea, il comandante del castello, vuole dar fuoco alle polveri.
A Pozzuoli è mandato il maggiore Giuseppe Mangili, con un distaccamento di garibaldini che si accampano nella pubblica piazza della Malva, con la decisione di non attaccare il forte ma di bloccarlo. 
Come tutte le truppe occupanti anche i garibaldini di Mangili hanno necessità di vettovaglie, per il loro sostentamento, pertanto procedono a requisizioni forzate di viveri. Commercianti, contadini e pescatori ben sanno che i beni requisiti mai verranno risarciti, pertanto aizzano il popolino del borgo contro queste truppe che comunque, per evitare ulteriori disordini, sono prontamente richiamate e sostituite da altro distaccamento comandato dal capitano Viggiano, ufficiale che non proviene dai garibaldini.

Queste nuove truppe s’avvicinano al forte di Baia il giorno 26 settembre ma una sortita di quella guarnigione mette in fuga tutti coloro che hanno osato accostarsi troppo alla roccaforte.
Però, mancando i viveri e vedendo sempre più ingrossarsi le file del nemico assediante, Livrea invia a Gaeta, per mare, tutta la polvere che ha superflua e tratta la resa con il capitano Viggiano. Fra i patti della capitolazione c’è quella di pagare gli arretrati alla guarnigione borbonica, per l'ammontare di circa 600 ducati, e consentire di raggiungere il Re a Gaeta ai moltissimi che esprimono tale desiderio.
Si conclude così l'attività bellica di quel Castello che per vari secoli è stato uno dei più importanti baluardi della difesa costiera del regno.
Il primo ad entrare in quel forte è Marino Caracciolo, disertore della marina militare borbonica che come molti ufficiali, incoraggiati e ben pagati dall’ammiraglio piemontese Carlo Pellion di Persano, ha violato il giuramento reso alla real marina napoletana.
Nasce da questi moltissimi episodi di tradimento l’esclamazione tipica "mannaggia ‘a Marina", che si dice sia stata per la prima volta pronunciata da “Franceschiello”, ancora oggi diffusissima.

Ma ora il giorno 22 novembre, per motivo d’interesse, avviene un più grave incidente tra il beccaio puteolano Antonio Gaudino e alcuni garibaldini che, come al solito, vorrebbero “requisire” parte della merce in vendita.
Il macellaio, che probabilmente avrà di già subito simili attenzioni, chiede aiuto e giustizia al concittadino Gennaro Barletta che fa parte della Guardia Nazionale; una specie di polizia locale creata dai nuovi governanti al posto della Gendarmeria borbonica [5].

Il Barletta non riesce a domare gli animi dei “valorosi” garibaldini; pertanto ne nasce una furiosa rissa che provoca la morte dello stesso don Gennaro.
Subito la notizia si sparge per tutta Pozzuoli ed i suoi abitanti, stanchi di soprusi e promesse non mantenute, in preda al furore fa strage di undici garibaldini.
I sopravvissuti, del piccolo presidio militare di Pozzuoli, scappano verso Napoli ed i corpi degli uccisi sono frettolosamente sepolti dalla plebaglia, come riferiscono le fonti filogovernative, sotto la sabbia che forma la spiaggia antistante il Tempio di Serapide [6].

Giunta la notizia a Napoli, così come riportata dai superstiti garibaldini i quali giurano d’aver udito grida di “Viva ‘o Re”, si crede che a Pozzuoli sia in atto una sommossa borbonica.
Per questo motivo subito sono inviate truppe per sedarla, ma ben presto si chiarisce l’equivoco e tutto ritorna alla calma.
Probabilmente non vengono rintracciati i veri colpevoli sia tra la “plebaglia” sia tra i “garibaldini” che ormai, malvisti anche dai “piemontesi”, sono in procinto d’essere congedati e definitivamente allontanati dall’Italia meridionale.
Garibaldi ha donato il regno a Vittorio Emanuele e subito e ritornato a Caprera; Bixio, ora generale italiano, non può mettere in atto rappresaglie come fatto a Bronte; il nascente Regno d’Italia ha bisogno d’esperta gente di mare che Pozzuoli può fornire in abbondanza.

Giuseppe Peluso 


P.S.
Nello scrivere queste note, con il programma “Word” di Microsoft, ho evidenziato la parola “borbonica”, per cercarne un sinonimo, e con sommo dispiacere mi sono stati restituiti i seguenti termini: reazionaria; conservatrice; retrograda, retriva.


BIBLIOGRAFIA
www.brigantaggio.net – Pozzuoli: Vicende storiche che portarono al plebiscito
Raimondo Annecchino – Storia di Pozzuoli


Giuseppe Peluso

mercoledì 11 gennaio 2017

Guglielmo Giannini


Guglielmo Giannini
Dall’Uomo Puteolano all’Uomo Qualunque

Guglielmo Giannini [1] nasce a Pozzuoli il 14 ottobre 1891 da Federico, eccentrico giornalista d'origine pugliese, e dall'inglese Mary Jackson.
E’ piacevole ricordare che durante il ventennio a Papà Federico, ormai anziano e senza sostegni, il regime fascista propone un impiego, a sua scelta, e lui si offre al Duce come assistente quotidiano, con l’incarico di ripetergli ogni mattina: «Benì, nun te scurdà ca si fesso».
Una funzione simile a quella dello schiavo che ammoniva i duci romani durante i trionfi; purtroppo il regime non apprezza l’ironia e il pover’uomo resta senza sussidio.
Della Madre Mary sappiamo che nasce a Glasgow da Giovanni Guglielmo e da Elisabetta Kennedy, decana delle giornaliste irlandesi.
Mary è sorella di Giovanni Giorgio Jackson che fu dirigente del cantiere Armstrong di Pozzuoli, raffinato traduttore [2] e,

unitamente alla moglie Assunta D’Oriano, acquirente del secondo e poi del terzo piano dell’edificio, ubicato nella principale piazza di Pozzuoli, che da allora è comunemente riconosciuto come “Palazzo Jackson”.
Dalla Madre il nostro Guglielmo eredita probabilmente una certa dose di “empirismo” che nel futuro gli tornerà comoda.

Fondamentale, nella formazione di Guglielmo, è la figura del padre il quale, coerente con la propria fede anarchica, limita la frequenza scolastica del figlio alla quinta elementare provvedendo personalmente alla sua ulteriore istruzione che basa su ideali libertari.
Il comunismo è la passione giovanile del Giannini che nel 1946 ricorda:
"È orribile pensare che, da ragazzi, c'entusiasmava il comunismo di cui avevamo un'idea idilliaca. Poi, un po' più avanti negli anni, leggemmo il “Capitale” di quel fregnone di Carlo Marx, e ne rimanemmo affascinati per anni; fino a che la ragione, soccorrendo la naturale intelligenza, non ci provò che la biblica fesseria di Marx era la biblica fesseria che è".

Da bambino Guglielmo gioca “abbascio ‘o mare”, in quei vicoli che gli forniranno idee per le sue commedie dialettali, spunti per i suoi discorsi politici, esempi per le sue scaramanzie.
Si diverte tra nasse, reti, gozzi, mare e sole; tanto che il suo volto di rosea aragosta, scrive Gianni Race, sembrava quello di un qualunque marinaio puteolano.
Dopo svariati mestieri, da muratore a commesso in un negozio di tessuti, svolti tra la sua Pozzuoli e Napoli, dove la Famiglia s’è trasferita e dove nasce la sorella Olga che sarà deputata eletta nel fronte creato dal fratello [3].

Giovanissimo Guglielmo intraprende, forse per contrasti con la Famiglia, vari viaggi per l’Europa e al rientro in Italia inizia a farsi strada nel mondo del giornalismo introdotto dal Padre, al quale si è riavvicinato, che gli trasmette la passione per la scrittura.
Nel 1910, a soli diciannove anni, collabora al “Giornale del Mattino” diretto da papà Federico; passa poi al giornale umoristico “Monsignor Perrelli” e nel contempo si occupa con successo della rubrica mondana "Le Vespe" su “Il Domani”. Scrive con una prosa vivace che rapidamente gli porta popolarità.

Combattente di leva nella guerra di Libia (1911-12), e da volontario nella prima guerra mondiale (1915-18), dopo nove anni tra servizio militare e prigionia, va a vivere a Roma e torna al giornalismo come redattore capo del “Contropelo”. E’ poi direttore del “Monocolo”, infine fondatore e direttore della rivista cinematografica “Kines”.
Nel frattempo si sposa ed ha tre figli; la bellissima Gloria [4],

Yyvonne che diventerà una brava giornalista (dopo una parentesi da attrice in qualche film diretto dal Padre) e direttrice del settimanale “La Donna Qualunque”, e poi Mario, l’amatissimo figlio maschio.

Guglielmo diventa piuttosto famoso anche perché ha un fisico massiccio, alto e biondo e con portamento da gentiluomo va in giro avvolto in un doppiopetto di vistosa eleganza [5]. 

Ha sempre una sigaretta tra le labbra e una catenella che gli attraversa il panciotto per infilarsi in un taschino nel quale è nascosto un ciondolo a forma di pitale. Il tutto, assieme all’inseparabile monocolo, gli dà decisamente un’aria d’altri tempi.

E’ un napoletano verace e stravagante, amabile e irruente, divertente e sopra le righe, anticonformista, pirotecnico e contestatore. Ama circondarsi di amuleti, sfoggia un portachiavi che ha un fallo d’oro, munito di ali, che getta con noncuranza sotto il naso delle signore della Roma bene; come a dire:
“a buon intenditore, poche parole”.
Si racconta che gli venne presentato un giovanissimo Giovanni Spadolini già noto per la sua immensa erudizione. Spadolini gli snocciola un buon quarto d’ora di sapienza storica. Giannini gli tocca la guancia paffuta e gli dice:
«Ne’ giuvinò! Chiavamm’!»
Un invito esplicito ad occuparsi meno dei fatti della storia e più della carne, come fa lui che ama le belle donne, la bella vita, la buona cucina.

Nonostante sia in possesso della sola “Licenza Elementare” è un uomo amabile e geniale; scrive benissimo e parla quattro lingue; suona il piano, il mandolino e la chitarra [6].

Del suo essere partenopeo così riferisce:
«Essere napoletano dà un senso di sventura; io che non posso dimenticare di esserlo ogni tanto mi umilio e mi faccio piccino. Poi, come accade in questi speciali momenti, mi credo di nuovo superiore a tutti e proclamo che solo la mia terra partorisce gente degna. Tutto il resto dell’umanità mi appare allora composta di stomachevoli burattini; noi almeno abbiamo il pernacchio.»

Col passare degli anni viene fuori la sua estrosa personalità e tutto il suo talento; con lo pseudonimo di “Zorro” è autore di moltissime canzoni di successo che sono diventate dei classici ed è l’autore della “Canzone dei Sommergibili” che ancora oggi è l’inno ufficiale dei sommergibilisti italiani [7].

E’ attratto dalla nascente arte cinematografica per la quale si definisce uno esperimentatore e da solo costruisce una moviola che poi durante la guerra sarà costretto a vendere per acquistare alimenti alla borsa nera. Per il cinema scrive decine di soggetti ed è apprezzato regista di molti film, in alcuni dei quali recita la figlia Yvonne [8].

Ma Giannini è attratto soprattutto dal teatro che lo riporta agli anni della sua giovinezza, ai personaggi della strada.
Le sue commedie, in totale ne scriverà 54 spesso rappresentate da proprie compagnie teatrali e da attori famosissimi, gli procurano, negli anni trenta, un certo successo e benessere.
Queste, appartenenti al genere giallo-comico e rosa, sono attaccate dalla critica fascista perché non esprimono il "tipico teatro del tempo". In effetti titoli come “La bambola parlante” (1932), “Mimosa” (1934), “La casa stregata” (1934), “Mani in alto” (1935), “Supergiallo” (1936), “Maschio e femmina” (1937), “Eva in vetrina” (1939) esprimono, per i seguaci del regime, soltanto il "tipico teatro borghese, il tipico teatro da cucina”.

Come molti italiani, Giannini accetta passivamente, anche se benevolmente, il fascismo durante il quale la sua vita è caratterizzata da un sostanziale disimpegno politico; "fu una vita (ricorda sempre nel 1946) che mi piaceva trascorrere giocondamente, poco curandomi delle sciocchezze che udivo o leggevo”.
Ammise poi di aver scritto due commedie fasciste, “L'angelo nero” (1935) e “Il miliardo” (1942), e qualche articolo, come “Il granello di pepe”, contro il monopolio inglese di tale spezia, apparso sul “Corriere di Napoli” il 21 luglio 1940. Nel procedimento d'epurazione avviato contro di lui nel 1945, inoltre, viene fuori una sua lettera del 10 agosto 1940 al ministro Pavolini nella quale paragona il fascismo a un nuovo rinascimento e Mussolini a Lorenzo il Magnifico.
Comunque i compromessi col fascismo non vanno oltre questi episodi; non costituiscono certo gravi colpe l'aver ottenuto dal ministero della Cultura Popolare, come altri autori, contributi per le proprie compagnie teatrali, né l'iscrizione al Partito Nazionale Fascista nel 1941, indispensabile, evidentemente, per poter proseguire in tranquillità l'attività professionale.

Ma la seconda guerra mondiale muta radicalmente l’atteggiamento del commediografo puteolano che è profondamento segnato dalla perdita dell'unico figlio maschio, Mario morto in un incidente aereo mentre si trova sotto le armi. Così Giannini lo ricorda:
"Una meravigliosa creatura d'amore, che cessò di vivere all'età di ventuno anni, undici mesi, ventisette giorni, nel pieno della salute e della bellezza, il 24 aprile 1942. Una versione ufficiale dice che egli cadde nell'adempimento del proprio dovere verso la patria, ma in realtà fu assassinato insieme a milioni di altri innocenti esseri umani da alcuni pazzi criminali che scatenarono la guerra".

Giunge il 25 luglio 1943 e Giannini, con 25 anni di più e lo strazio dei suoi lutti nel cuore (nel 1943 perde anche il Padre morto quasi di stenti per una polmonite buscata in un rifugio durante gli allarmi aerei) matura avversione per il fascismo e un impellente desiderio di impegno politico.
Si rende conto che con quella sua assenza dalla politica, durata un quarto di secolo, ha contribuito a rovinare la sua Patria, poiché solo a causa dell'assenza sua e d'altri milioni d'italiani che, come lui, hanno egoisticamente badato solo ai propri affari, Mussolini è divenuto padrone d'Italia.
Diventa urgente, nell'animo semplice del Giannini, tentare di realizzare una grande riforma del potere, capace di impedire l'eterno susseguirsi, nella storia, di guerre, lutti e distruzioni.
Propone, come soluzione all'eterno dramma dell'umanità, il passaggio dallo "Stato etico" allo "Stato amministrativo", che significa il trasferimento dell'effettivo governo dai politici alla burocrazia, composta "di persone che sanno governare, illuminandoci le strade di notte, provvedendo a che le fognature funzionino, e che le derrate arrivino sui mercati e a tutti gli altri bisogni pubblici".

Giannini decide di riparare al suo errore e d'entrare in un partito politico; tenta di farsi accogliere, con le sue idee rivoluzionarie in qualcuno dei ricostituiti partiti, ma è respinto da tutti. Vani risultano anche i suoi contatti per entrare nella redazione di un giornale; così decide di presentare alle occupanti autorità alleate domanda per poterne stampare uno proprio.
Nel 1944 fonda a Roma il settimanale “L'Uomo Qualunque” [9], dal quale prenderà il nome il movimento d'opinione detto appunto “Qualunquismo”.

Il successo del nuovo settimanale, 80.000 copie vendute in due giorni, è accresciuto dal procedimento d'epurazione conclusosi il 16 maggio 1945 con una sentenza che si limita a infliggergli, quale giornalista, la "sospensione di un mese, col significato di censura solenne".
L'episodio conferma l'inconsistenza dei trascorsi fascisti di Giannini che abilmente lo sfrutta per porsi come simbolo degli italiani "oppressi" dalle ingiustizie dell'epurazione, dal comportamento dittatoriale dei Comitati di Liberazione e dai presunti progetti rivoluzionari delle sinistre.
Nell’autunno del 1945 la diffusione di “L'Uomo qualunque” tocca le 850.000 copie e Giannini, nella sua martellante polemica, fa sfoggio di tutto il suo stile che oscilla tra ironia, sberleffi e insulti volgari. Al fondo delle sue ingiuste generalizzazioni esiste una verità di cui sono consapevoli anche gli esponenti dei partiti antifascisti; l’epurazione, lungi dal punire i veri responsabili e complici della dittatura, sta colpendo soltanto i "pesci piccoli", in una generale situazione di trasformismo che vede il pieno reinserimento della classe dirigente del periodo fascista nella nuova realtà politica.
In giro si dice: «Solo da noi i fascisti diventano antifascisti» e celebre diventa la sigla “UPP” (Uomini Politici di Professione), coniata dallo stesso Giannini.

Nel luglio 1945 pubblica anche il volume "La folla" [10],

dedicato al figlio Mario e, in fondo, anche al padre; il libro parla delle dittature, della storia, delle guerre, dei governi, dei partiti, dei popoli. In questo trattato esprime le sue idee e "Capi" e "Folla" sono, in questo testo, gli elementi antagonisti della storia dell'umanità. I primi si identificano negli "uomini politici professionali" in eterna lotta tra di loro per la conquista dei vantaggi personali conferiti dal potere; la “folla” è invece costituita dai "galantuomini", cioè dalla gente di "buon senso, buon cuore e buona fede, onesta laboriosa e pacifica che forma l'enorme maggioranza della popolazione in tutti i paesi del mondo".
In fondo sono le stesse affermazioni di Totò nel film “Siamo uomini o caporali?”, quando parla degli “uomini qualunque” che nella loro semplicità si contrappongono agli odiosi caporali avendo puntualmente la peggio.

In questo periodo Parri è il leader della coalizione alla guida del Paese e grande è, specie nel Meridione che non ha vissuto la stagione della Resistenza, la diffidenza nei confronti di questo governo che si è presentato dopo la Liberazione come espressione del "vento del nord" e che Giannini ribattezza "rutto del nord". Nel dicembre 1945 questo governo è costretto alle dimissioni, per iniziativa del Partito liberale italiano, e questa caduta è considerata conseguenza dell’enorme successo scaturito delle battaglie di dura opposizione a mezzo stampa del Giannini che convince i liberali a rendersi anch'essi interpreti del malumore dei moderati.
Impressionato dall'impetuosa crescita dei consensi attorno alla sua azione giornalistica, Giannini scrive con enfasi di non poter rimanere insensibile di fronte al "grido di dolore" che si leva verso di lui da ogni parte d'Italia.
Pertanto intensifica gli sforzi per convincere il partito liberale ad accettare la confluenza in esso del suo movimento d'opinione. Il secco rifiuto dei dirigenti liberali e dello stesso Benedetto Croce induce Giannini a scendere in prima persona nell'agone politico, con la pubblicazione, nel novembre 1945, del programma politico dell'uomoqualunque.
Cerca finanziatori per il suo progetto e li trova nei Fratelli Scalera, industriali del cinema proprietari di una importante villa a Bacoli, con cui ha già lavorato e che accettano di servire da prestanome. Nasce così il “Fronte dell'Uomo Qualunque” e a Roma, nel febbraio 1946, si celebra il suo primo congresso nazionale [11].

Il Movimento partecipa, seppure non in tutte le circoscrizioni, alle elezioni per l'Assemblea Costituente del 2 giugno 1946 che, come è noto, si svolgono in simultanea con il quesito referendario sulla scelta istituzionale, tra Monarchia o Repubblica.
Giannini, nel corso dell’animata campagna elettorale, percorre l’intera Italia e tiene un comizio [12] anche nella piazza principale di Pozzuoli dove tra gli oltre duemila ascoltatori ci sono studenti repubblicani che fischiano, comunisti che gridano, socialisti che protestano.

Insomma, come già successo in altre “piazze calde” tentano di boicottarlo e di non farlo parlare; ma quando la gazzarra si fa alta Guglielmo grida:
«Ma come, mi fanno parlare dovunque… Vengo in piazza per parlare ai miei concittadini e questi mi prendono a fischi.»
C’è un momento di smarrimento tra la gente che poi si accalca curiosa.
«Vi meravigliate? Sono puteolano come voi e vi chiedo di ascoltarmi!»

Giannini ottiene un significativo successo nelle elezioni rivelandosi, con oltre 1.200.000 voti, il 5,3% di percentuale e 30 seggi, il quinto partito a livello nazionale.
La sua affermazione è destinata a rivelarsi ancora più strepitosa nei mesi successivi quando Alcide De Gasperi, con la sua Democrazia Cristiana, conferma la sua strategia politica varando un governo fondato essenzialmente sulla collaborazione con comunisti e socialisti. Questa scelta diventa l'obiettivo polemico centrale dell'opposizione qualunquista; Giannini presenta il suo partito come il "vero" partito dei cattolici in contrapposizione alla DC accusata, in quanto alleata dei comunisti, di tradimento della religione e di "bolscevismo nero"; in un suo discorso proclama:
"C'è un partito che dovrebbe essere un partito di ordine e che invece è il partito del disordine e dell'equivoco, il quale ha monopolizzato quella che è la Cattolicità; questo partito non ha fatto altro che compromessi, trattative, mancando all’obbligo contratto con otto milioni di italiani.”

Questa politica porta ad ulteriori forti consensi e i risultati delle elezioni amministrative del novembre 1946 rivoluzionano il quadro politico italiano. Il Fronte dell'Uomo Qualunque si rivela, a Roma e nell'Italia meridionale, il partito più votato, e la maggior parte del suo incremento elettorale avviene ai danni della D.C. che esce da queste elezioni letteralmente sconfitta.
Lo strepitoso successo qualunquista assume l'evidente significato di una protesta di massa della piccola e media borghesia moderata contro la continuazione della collaborazione con comunisti e socialisti perseguita dal governo De Gasperi.
Ma nel 1947 il partito "qualunquista" assume un atteggiamento più conciliante verso la DC che, dopo ampia riflessione critica, ha estromesso i comunisti dalla compagine governativa; questo rappresenta l’inizio della fine del successo popolare del Fronte che poi subisce un netto ridimensionamento con le politiche del 1948. Il clima di estrema contrapposizione ideologica fa rifluire da destra verso la DC le masse dei ceti medi moderati, convinte che il partito di De Gasperi rappresenti l'unica diga sicura contro il comunismo.
Giannini definisce “false e bugiarde" le ideologie che si affrontano e semplici "fesserie la sinistra e la destra, il fascismo, l'antifascismo, il comunismo, l'anticomunismo" [13].

L'Italia, a suo avviso, non dovrebbe aderire a nessuno dei due blocchi, ma impegnarsi nella costruzione degli Stati Uniti d'Europa, i quali dovrebbero dire all'Oriente e all'Occidente: “fate i vostri affari all'infuori di noi e tenetevi lontani dai nostri territori e dai nostri interessi".
Interessante un suo discorso, con cui lancia segnali in codice che non lasciano insensibile Togliatti, che fornisce un saggio della sua arte oratoria:
"Se il comunismo è elevazione degli umili, abolizione della povertà, benessere per tutti, Cristo era comunista, San Francesco era comunista, io sono comunista. Disgraziatamente il partito comunista italiano si rivela sempre più come movimento nazionalista straniero.
Trovi modo di liberarsi dalle catene che lo avvincono a mentalità e poteri che sono fuori dai confini d'Italia e troverà in noi dei fratelli che lo aiuteranno a compiere la sua nobile missione sociale ".

Ufficialmente si crede che la mancanza di ideologia e l’inesperienza abbiano contribuito al fallimento dell’avventura politica del movimento che inizia così la sua parabola discendente. Prima delle elezioni politiche del 1953, abbandonato dalla maggior parte dei suoi collaboratori, Giannini scoglie il partito da lui stesso fondato.
Ma Achille Lauro, nelle pagine della sua autobiografia, ci svela i retroscena di quella che lui stesso definisce una “sporca operazione”.

Il segretario della DC Piccioni, con la benedizione di Costa, si reca da Lauro e lo prega di intercedere da concittadino con Giannini; “Bisogna fermarlo” gli dice, e questa è la grande occasione del Comandante.
Lauro si reca a casa del battagliero giornalista-politico, degente a letto per una fistola anale che gli produce dolori intensissimi tali da renderlo irrequieto. Giannini è poco incline al dialogo e non fa che ripetere in maniera ossessiva:
"Debbo dare un colpo in testa alla Democrazia Cristiana e lo darò!"
Non c'è spazio per alcuna trattativa, non resta che convincere singolarmente i deputati del partito a tradire. A tale scopo Lauro li convoca tutti ad una riunione segreta in una sala dell'Albergo Moderno di Roma e lì, con lusinghe mielose e velate minacce, riesce a convincerli in massa, assicurando loro la rielezione alle prossime consultazioni in un nuovo partito, che egli s'impegna solennemente a fondare e a finanziare.
Il 5 ottobre 1947 la mozione di sfiducia al governo De Gasperi è respinta con 270 voti contro 236, grazie unicamente ai 33 voti dei qualunquisti. E' il trionfo di Lauro e il tracollo di Giannini, che infuriato è messo in disparte a tacere.
I suoi giornali cessano le pubblicazioni dopo pochi giorni, perché vengono tagliati i fondi e, inquietante, cala il silenzio.
Lauro eredita il suo elettorato, quasi tutto meridionale, e sposta a destra anche notevoli frange di sottoproletariato, che sono così sottratte alle ammalianti sirene della sinistra. Una massa di voti per appoggiare il governo a Roma in cambio del “Nulla Osta” nell'amministrazione della città di Napoli.
Giannini, il nemico dei partiti che ha fondato un partito, il nemico degli uomini politici di professione che finisce soffocato dai politici di professione, assiste incredulo alla veloce fuga di questi professionisti che con altrettanta velocità erano saliti sul suo carro vittorioso.

Nel frattempo Giannini è tornato al suo grande amore, il Teatro, per il quale scrive ancora “Il sole a scacchi” (1950), “Il pretore De Minimis” (1951), “L’abito nero” (1951), “L’attesa dell’Angelo” (1952).
Comunque non rinunzia all'idea di un personale rilancio politico; nelle elezioni politiche del giugno 1953, rifiutato l'invito di Togliatti a candidarsi con il PCI, si presenta come indipendente nelle liste della DC e nelle successive, del maggio 1958, in quelle del Partito Nazionale Monarchico; in entrambe le occasioni, anche se eletto per un ricorso, subisce una cocente delusione.

Egli è tra i primi a intuire le potenzialità dell'immagine; memorabile la sua performance canora al "Musichiere", con il conduttore Mario Riva entusiasta che un politico, per la prima volta, mostri il suo lato ironico [14].

Giannini muore a Roma il 10 ottobre 1960 e sarà ricordato, più che per le sue indubbie doti artistiche ed oratorie, per il termine “qualunquismo” che nel tempo ha acquisito una valenza dispregiativa.
Da aggiungere che nipote prediletta di Guglielmo è la nota valletta e showgirl Sabina Ciuffini, nata dalla figlia Yvonne, lanciata da Mike Buongiorno nel programma televisivo “Rischiatutto” [15].

Indubbiamente Giannini ha sofferto di ingenuità e di dilettantismo, ma di sicuro ha avuto qualche giusta intuizione.
Come suoi concittadini possiamo ben dire che nella sua vita è stato di tutto, tranne che un uomo qualunque.


BIBLIOGRAFIA
Piero Melograni – L’Uomo Qualunque non ama la folla – 2002
Gianni Race – Pozzuoli – 1984
Sandro Setta – Guglielmo Giannini - Dizionario Biografico degli Italiani
Piero Vassallo - L’Uomo Qualunque, Geniale movimento in un vicolo cieco.
Generoso Picone – I napoletani – Ed. Laterza
Simona Capodanno – Guglielmo Giannini – Radio 24

Giuseppe Peluso