Che festa la mia Pasqua
Tradizioni alla Starza
Da sempre il mondo contadino festeggia la fine dell’inverno ed il risveglio primaverile della natura; così nel Territorio di Villa Maria alla Starza dove la Pasqua degli anni ’50 esalta questo passaggio. Pasqua si annuncia con fioritura, profumi, sensazioni, opportunità; tutto ha inizio la domenica prima, quella delle palme, l’ultima di quaresima.
Per questa particolare festa aiuto i nipoti dei coloni a preparare semplici croci, fatte intrecciando foglie di palme, che poi portiamo in Chiesa. Don Michele le benedice durante la Santa Messa quando ritiriamo anche i ramoscelli di ulivo, una delle poche piante non presenti nel giardino. La palma benedetta è usata quale buon auspicio ed abitualmente viene posizionata dietro le porte del “casone”, del “cellajo”, delle stalle e di altri ambienti.
Pasqua è anche purificazione e, per una comunità semplice e rurale come la nostra, significa candore. Si comandano grandi pulizie casalinghe e questo ci da l’opportunità di eliminare oggetti superflui portati all’interno nel corso del lungo inverno. Praticamente si provvede ad effettuare una vera e propria raccolta differenziata ed ecologica. Il legname viene riposto sotto una tettoia nelle vicinanze del forno; il ferro addossato ad un vialetto dove barre e “buatte” restano preda di erba e ruggine, dando forma a strane figure, in attesa di un eventuale riutilizzo [1]; la carta viene portata nel “cellajo” dove può servire da imballaggio sotto le “spaselle”; i residui alimentari, oggi definiti umido, vengono portati in una apposta buca incavata nel giardino, lontano dal fabbricato; infine quel poco che resta viene deposto nel secchio dell'immondizia che di sera è portato sul pianerottolo fuori della porta di casa. Questa immondizia, che di mattina è ritirata dal netturbino che si fa tutte le scale con un sacco sporco sulle spalle, mancante dell’organico non puzza ed il nostro androne non ne risente, diversamente da tutti gli altri che ho occasione di frequentare. Di solito sono io che porto alla buca l’immondizia da riciclare quale fertilizzante. Per raggiungere questa cavità percorro degli stretti sentieri che attraversano delle piane, coltivate a patate, passando vicino ad un'altra fossa, quella dei conigli. Ogni volta non rinuncio a sporgermi sul suo orlo per osservare, e “sfrocoliare” con bastoni occasionali, i timidi quadrupedi che l’abitano. Abbandonerò questa abitudine un giorno che, con più ardore, mi sporgo eccessivamente cadendo nella fossa; gli spaventati conigli si rifugiano nelle buche che solitamente scavano sul fondo della cavità ma io ancora più spaventato inizio a gridare e sono recuperato, per me dopo una eternità, dai coloni accorsi alle grida.
Le grandi pulizie effettuate nel “casone” dei coltivatori sono sbrigative e dopo una rapida ramazzata si bagna “u‘ ntrassuolo” con poca acqua, raccolta dalla cisterna del cortile, e lasciata cadere dolcemente da un bacile. Tra le loro poche suppellettili ricordo sul comò due campane di vetro che coprono altrettanti ignoti santi, realizzati con la stessa tecnica dei pastori drappeggiati, e poi una grande cornice che, dietro un vetro, custodisce la foto delle Loro Altezze Reali il Principe Umberto e la Principessa Maria Josè il giorno delle nozze. Sono belli e imponenti i principi e Umberto sembra quello azzurro sullo scenario di una favola.
Esco dal Territorio solo per andare a scuola e lungo il percorso incontro carrette e carri, carichi di botti, “sporte” o “spaselle”, tirati da cavalli e somari che sporcano pesantemente le strade. Gli spazzini sono armati di apposite palette atte a staccare e raccogliere così intensa necessità. Per vederli all’opera sbircio fuori dal massiccio cancello e lungo la strada non di rado riconosco avanzare e lanciare richiami una donna che porta, ben in vista, un grosso uovo di cioccolata. Non lo vende, o meglio non lo vende direttamente; vende novanta numeri tra cui il fortunato primo estratto che Sabato Santo uscirà sulla ruota di Napoli. La donna grossa e vociante è ben conosciuta e le sue lotterie sono settimanali, abbinate ad avvenimenti sacri e profani del calendario. Parla molto, alcuni dicono essere una maliarda, i più la conoscono come la “giucessa”.
Il giovedì sera si recuperano i vassoi in cui si è seminato e fatto germogliare il grano e aggravati del loro peso si esce per raggiungere l’altare della Chiesa che per la celebrazione viene con essi addobbato. Così esposti diventano motivo di competizione per avere il merito del vaso più bello. Poi si torna a Villa Maria allungando l’andirivieni per partecipare allo “struscio”.
Altra occasione d’uscita è recarsi alla bottega di “donna Emilia a’ quartaiola”, gran bazar alimentare. La proprietaria è sempre dietro il grosso bancone ed il nipote, Santino, in giro per il negozio a prendere, staccare, misurare, pesare. Ha un fisico atletico associato ad un distinto portamento da vero “gentlman” e, sicuro della sua prestanza, fa la corte a tutte le signorine ed è galante con tutte le signore. Nel contempo è attento a tutto ciò che la zia gli ordina ed è altrettanto attento al marciapiede dove sono allineati in bella vista i sacchi pieni di legumi tra cui ceci abbrustoliti e “sciuscelle” molto ricercati da bande di scugnizzi divenuti improvvisati predoni. La “puteka” ha pane, pasta, farina e zucchero che sono venduti sfusi; legumi, formaggi e salumi venduti a peso così come pure tonno ed acciughe; poi l’olio per il cui acquisto è necessario portare un contenitore in cui viene versato solo dopo essere stato misurato in recipienti di giusta capacità.
Donna Emilia, in anticipo su tempi, ha di già inventato un unico certificato che funziona da Carta di Credito e da Carta Fedeltà. Trattasi di un libricino, con copertina nera, che racchiude piccoli foglietti sui quali la bottegaia, analfabeta ma da “nobel” in aritmetica, annota la somma della spesa giornaliera che poi viene saldata ogni settimana, quindicina o mese adattandosi elasticamente alla instabile retribuzione del debitore. Lei con dolcezza e risolutezza ricorda a tutti le scadenze e spesso, senza malizia, pronuncia: “Chi magna a Natale e pava a Pasca, fa 'nu buono Natale e 'na mala Pasca”.
Frutta e verdura li si raccoglie nel giardino dove si allevano anche i polli che, con l’allungarsi delle giornate, già tardano a ritirarsi nell’apposito recinto creato per loro in un sottoscala. Il latte lo si compra direttamente nel fondo da Vittorio “o vaccaro”, ed il vino che si consuma giornalmente è un ottimo “aglianico” produzione “Starza”. Per Pasqua poi i coloni concedono, come da clausola contrattuale insieme a polli ed uova, il secondo e ultimo barile del “Per' e Palumme”; rosso come la passione che ci si appresta a celebrare. Mio Padre, come a Natale, si concede il lusso di acquistare le bottigliette con le “essenze” per preparare i liquori da fare in casa; per la Pasqua si limita al solo rosolio. Ma la settimana di Pasqua è un supplizio per i golosi; si fanno pizze piene, pastiere, casatelli; arrivano uova di Pasqua e altro, ma non si può assaggiare nulla di ciò; assolutamente nulla fino alla mezzanotte del sabato. Nella spaziosa e calda cucina, accanto al focolare in muratura, le mani impastano e ammassano farina con la partecipazione di noi bambini; attenti ad ogni passaggio e con me impegnato, allora come oggi, nel tagliare e posizionare le strisce della pastiera.
Prodotto tipico è il “casatiello” il cui nome deriva da “cacio”; il formaggio di pecora che simboleggia l’agnello pasquale, la vittima sacrificale. Le uova crude che affondiamo sul “casatiello” rappresentano il simbolo del seme, della vita, e le due strisce che le coprono ricordano la croce di Cristo. Infine i casatielli sono a ciambella, vuoti al centro, a forma della corona di spine di Gesù. In casa se ne fanno più di uno ed ogni bimbo ha il suo fatto apposta più piccolo, ma con egual numero delle ricercate uova che nel forno prendono il caratteristico buon sapore. Fatto bene è un prodotto costoso e pesante; non per niente si dice “che casatiello” di una persona pedante e indigesta. Altro dolciume pasquale è il “casatiello dolce” per la cui preparazione c’è bisogno del “criscito”, una pasta fermentata acida, e di una particolare preparazione per permetterne la crescita al caldo, generalmente sotto coperte o materassi. Naturalmente suscita curiosità ed è forte la tentazione di misurarne la crescita; di nascosto lo si va a scoprire attirandosi “allucche’” e “strille” da parte dei genitori.
Finalmente arriva il venerdì, giorno in cui la “Rosina” solitamente accende il forno; questa volta per più lungo tempo, non solo per il pane settimanale. Tutti noi bambini portiamo giù pastiere, pizze, casatielli, e li poniamo allineati sul muretto, non molto alto, che separa il forno dal casotto dei maiali [2]. Quest’ultimo è costituito da una bassa e coperta costruzione, dove i due maiali riposano di notte, ed un anteriore piccolo spazio pieno di melma, escrementi ed avanzi di ogni genere da cui esala un odore particolarmente penetrante. I ruoti, nel pieno rispetto della natura, sono scoperti e tenuti d’occhio da noi piccoli che ce li indichiamo l’un l’altro per ricordarne la proprietà ed esaltarne la bontà. E’ bello vedere Rosina impegnata con i lunghi attrezzi che servono di volta in volta ad immettere legna, a rivoltare la brace, a posizionare i ruoti; e quando dalla ardente bocca del forno ne tira fuori alcuni, con la lunga pala di legno, si diffonde nell'aria un messaggio di calore e benessere che crea tragici languori di fame. Ma bisogna digiunare, Gesù è a terra e necessita affrettarsi per partecipare alla “Via Crucis”.
Finalmente giunge il Sabato Santo, dopo la penna bianca viene tirato a terra anche il fantoccio della Quaresima ed il tutto viene bruciato così come nelle Chiese brucia il Sacro Fuoco, preludio allo scioglimento della Gloria.
Il giorno di Pasqua, dopo la Santa Messa , riprendiamo i salami dalla cantina dove sono stati riposti l’ultimo di carnevale e, insieme ai dolci, li disponiamo sul tavolo imbandito attorno al quale è raccolta tutta la Famiglia. Allora la persona più anziana benedice tutto e tutti attingendo l’acqua santa con un ramoscello d’ulivo. Solo allora grandi e bambini possono mangiare, lo fanno con gioia ed appetito tenendo d’occhio papà che solo dopo aver terminato il primo piatto si accorge delle letterine da noi riposte sotto di esso. Le letterine, fatte preparare a scuola dalla maestra e scritte da noi ragazzi con paroline buone, vengono lette orgogliosamente dal papà e ascoltate con emozione da tutti i familiari. Il momento più bello è quando papà ci ricompensa con dei soldini; che festa la mia Pasqua!
Il giorno dopo, Lunedì di Pasquetta, tutti noi piccoli di Villa Maria siamo pronti a trascorrere una giornata all’aria aperta in parziale autonomia. Con cesti pieni di ogni ben di Dio percorriamo il lungo viale che, fiancheggiato da aranci e mandarini con i tronchi spruzzati di bianca calce, sembra condurre verso il meraviglioso mondo del Mago di Oz [3]. Nel passeggiare anche noi incontriamo spaventapasseri e figure di latta, ma in fondo non c’è la Città di Smeraldo, c’è un’area che su tre lati è circondata da panchine rivestite di bianco marmo. Al centro troviamo un tondo e marmoreo tavolo e dai quattro angoli partono delle strutture metalliche che vanno a congiungersi in alto, all’epicentro dell’ambiente. A copertura del groviglio non ci sono fiori ma intrecciati rami di viti; di quell’uva della qualità che chiamiamo “a cornicella”. Pomposamente definiamo “Hermitage” questo ambiente, ma esso altro non è che un neoclassico gazebo, coetaneo dell’ottocentesco casino di campagna, smantellato per la realizzazione del mercato ortofrutticolo all’ingrosso e la sua area trasformata in luogo di decenza [4]. In questo spazio ci fermiamo a giocare, a pranzare, a riposare e ci spostiamo per due soli motivi. Raggiungere un vicino “fussatiello” in cui sono piantate le fave ormai pronte e raggiungere, ogni venti minuti, il muro della confinante ferrovia cumana. E’ immensa la gioia quando sentiamo il treno arrivare, il vociare e cantare dei suoi allegri passeggeri diretti alla scampagnata; poi la meraviglia di quelli che, troppo esposti ai finestrini, perdono, con il nostro aiuto, i loro caratteristi berrettini tanto simili a quelli di Coppi e Bartali.
Che gioia riattraversare il giardino della Starza con in testa questi trofei.
Giuseppe Peluso - Pozzuoli Magazine del 31 marzo 2012
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