L’ULTIMA INVASIONE BARBARICA
L’OCCUPAZIONE NAZISTA NEI CAMPI FLEGREI
Ai primi di Settembre del 1943 la Campania è
presidiata dal XIX Corpo d'Armata del Regio Esercito, al comando del Generale
Riccardo Pentimalli, da cui dipendono:
- XXXII
Brigata Costiera, schierata dal Garigliano alla Foce di Licola;
- Comando
Difesa Porto di Napoli, schierata da Foce Licola a Capo d'Orso;
- 222°
Divisione Costiera, schierata da Capo d'Orso a Maratea;
- Divisione
Pasubio, nel casertano, con comando nella zona di Villa Literno.
A queste grandi unità bisogna aggiungere numerose
truppe dei depositi territoriali, della difesa antiaerea della Milizia, delle
batterie costiere della Marina e una marea di presidi dell’Esercito, dei
Carabinieri, della Guardia di Finanza, etc.
In complesso non poche forze, rispetto a
quelle di cui dispongono i tedeschi, ma sparpagliate e suddivise, male armate e
senza mezzi di trasporto.
Le forze del Reich, oltre a reparti minori sparsi
in tutta la Campania, sono costitute da quattro grandi unità inquadrate nel XIV
Corpo d'Armata [1]:
- 16^ Divisione Corazzata nella zona di
Salerno;
- Divisione “Hermann Göring” nella zona di
Caserta, in fase di riordino;
- 5^ Divisione Panzer Granadier, nella zona
di Gaeta;
- 1^ Divisione Paracadutisti tra alta Calabria,
Campania e basso Lazio.
La proclamazione improvvisa dell'armistizio,
da parte alleata, sorprende Governo e Comando Supremo italiani ma non i tedeschi
che, fin dalla caduta di Mussolini il precedente 25 luglio, sono certi del
prossimo cedimento dell’Italia.
L’otto settembre comincia la corsa delle
unità tedesche verso la testa di sbarco di Salerno e la sola Divisione “Göring”,
rafforzata con vari altri reparti, resta a presidio delle retrovie e delle via
di comunicazioni. I tedeschi si trovano a combattere contro gli alleati e nello
stesso tempo a occupare il territorio della Campania, coincidenza questa che
aumenta il livello della violenza portandolo a non tollerare nessuna disubbidienza
da parte della popolazione.
Nella notte dall'8 al 9 occupano capisaldi
costieri, posti di avvistamento, posti di blocco stradali, aeroporti, batterie
antiaeree.
La giornata del 10 è un accentuarsi e
divampare di piccoli focolai di conflitti, di lotte, di combattimenti,
originati, ora, dai tedeschi, nel deliberato proposito di requisire mezzi, di
impossessarsi di armi, di piegare le nostre forze ai loro finì; ora dai soldati
nostri, decisi a non subire soprusi e violenze; ora dai civili, sconcertati ed
offesi dallo inumano trattamento usato dai primi verso i secondi.
I Campi
Flegrei subito dopo la proclamazione dell’Armistizio
Nei Campi Flegrei si trovano, da tempo, varie
unità tedesche tra cui un autoparco, con i soldati alloggiati in una decina di
baracche mimetizzate costruite appositamente, in località Fusaro [2].
A Cuma si trova, fin dal luglio 1943, una
batteria composta da due pesanti pezzi antiaerei, piazzati sulla terrazza
sottostante il Tempio di Giove. Il personale è composto da circa 20 soldati ed
il posto comando si trova nella vicina Villa Vergiliana, costruita proprio dai
tedeschi nel 1911 per una società archeologica [3].
Altri tedeschi sono a Lucrino, nei capannoni
della ex Fabbrica di Idrovolanti dove ora c’è il Lido Giardino (Industrie
Aviatorie Meridionali),
con una officina che riadatta e collauda i siluri costruiti nella vicina Baia
[4].
I siluri vengono poi inoltrati a vari sommergibili tedeschi che operano nel Mediterraneo e al cacciatorpediniere Hermes, catturato alla marina greca, che ha Pozzuoli come base logistica.
I siluri vengono poi inoltrati a vari sommergibili tedeschi che operano nel Mediterraneo e al cacciatorpediniere Hermes, catturato alla marina greca, che ha Pozzuoli come base logistica.
Sembra pure che ci fosse il comando del 1°
Fallschirm-Jagerer-Regiment (cacciatori-paracadutisti) appartenente alla 1°
Divisione paracadutisti. Alcune fonti riferiscono che questo comando (che
comunque non si trovava a Lucrino) sia stato visitato dallo stesso Rommel e poi
dal Generale Kesselring il giorno 15 luglio 1943.
All’atto dell’armistizio di questo reggimento
è presente il solo III Battaglione che formerà un Kampfgruppe (gruppo di
combattimento) insieme ad altre unità del 115° Panzer-Grenadier- Regiment
(granatieri corazzati)
Di quest’ultimo reggimento, facente parte
della 15° Panzergrenadier-Division, sono presenti sia il I° (Maggiore Julius
Muller) che il III° (Maggiore Vedeking) battaglione e il comando di reggimento
(Colonello Wolfgang Maucke) si trova alloggiato nell’Albergo dei Cesari di
Lucrino mentre nel vicino, e anch’esso requisito, Albergo Sibillo si insedia il
Comando di reparti dipendenti [5].
La 15° Panzergrenadier-Division divisione trae
origini dalla 15° Panzer-Division, distrutta in Tunisia, ed è composta dalle
truppe di complementi che giungono dalla Germania e sono accasermate nel
napoletano in attesa dell’invio in Libia presso l’Afrika Korp. Perso l’ultimo
lembo africano i rincalzi sono inviati in Sicilia dove formano la nuova 15°
Panzergrenadier che poi, perduta pure quest’isola, è fatta ritirare in Calabria.
Il comando del suo 115° Reggimento giunge a
Lucrino il 4 settembre e alle truppe dipendenti, acquartierate tra Bagnoli
(Istituto Costanzo Ciano), Bacoli (zona Fusaro), Baia (Campo sportivo sotto il
castello), Miseno (una cinquantina di soldati nelle vicinanze del potente
radiotrasmettitore), Pozzuoli (Campiglione, San Vito, Torre Santa Chiara) e
Quarto (inizio via Campana e Grotta del Sole), è affidato il compito di
difendere l’area costiera a nord di Napoli e di “bonificarne” il territorio da
vari tentativi di resistenza.
Episodi sporadici avvengono nei Campi Flegrei
per l’accanita difesa messa in atto dai nostri soldati, in special modo dalle
guarnigioni dei capisaldi costieri esistenti nella zona di Baia (Caposaldo
Brindisi),
di località La Schiana (Caposaldo Bergamo) e del Posto di Blocco di Arco Felice
(PBC
Bernardo).
Al Castello di Baia eroici marinai rifiutano
di consegnare la batteria anti aerea ai tedeschi, che inizialmente si ritirano
per timore dell’improvviso arrivo di truppe alleate; inoltre il tenente
Giuliani, coadiuvato dal noto antifascista Pasquale Schiano [6], con un
drappello di fanti cerca dì evitare l’occupazione del “Silurifio Italiano”, ma
non ci riesce anche per la resistenza opposta dal direttore dello stesso
stabilimento, Ammiraglio Eugenio Minisini.
Questo gruppo di soldati, unitamente ad altri
sbandati, si nasconde nei pressi di Capo Miseno e, con l’intento d’impedire il
transito ad automezzi tedeschi, cerca di far saltare il ponte sulla foce del
lago di Miseno.
Unitamente a Schiano sono poi traghettati, il
giorno 13 quando è ormai cessata qualsiasi resistenza, sulla liberata isola di
Procida.
Iniziano
saccheggi e requisizioni forzate
Dal giorno 12 settembre, svanite tutte le
autorità militari e civili italiane, i tedeschi sono padroni dell’intero
territorio; solo parroci e vescovi sono rimaste uniche figure di riferimento e
alcuni di loro cercano di assumere ruoli di mediazione con gli occupanti. Le loro
truppe, che per prudenza e strategia sono decentrate nelle zone periferiche,
iniziano a rientrare nei grossi centri urbani che hanno inizialmente
abbandonato.
In questa prima e ancora confusa fase desiderano
non irritare la popolazione che, presa da grossi problemi alimentari, nell’indifferenza
li lascia occupare caserme, scali ferroviari e portuali, centri di
telecomunicazioni e di produzione, senza presagire i furti e le violenze che
stanno per perpetrare a suo danno.
Anche a Pozzuoli i germanici ritornano a frequentare
bettole e luoghi già conosciuti in precedenza; molti sono frequentatori
della cucina casareccia che i coloni Biclungo hanno messo su a Villa Maria
principalmente per i marinai italiani che dormono in quella che è stata la
Scuola Marittima [7].
Maggior sicurezza acquisiscono i tedeschi il 18
settembre quando è proclamata la nascita della Repubblica Sociale Italiana; ora
possono contare sulla collaborazione del riorganizzato partito fascista locale.
Inizia così la minuziosa depredazione di ogni
bene che possa essere utile alla causa del Terzo Reich, armi (anche nuove
asportate dall’Ansaldo Artiglierie di Pozzuoli e dal Silurificio di Baia),
munizioni, combustibili, automezzi, macchinari.
Nel porto di Pozzuoli è catturata intatta la
corvetta Vespa [8], dai tedeschi ribattezzata UJ.2221, ed altre unità mercantili; tutte subito inviate nei porti
del nord Tirreno.
Uno dei primi divieti impartiti dagli occupanti
è quello di uscire in mare con qualsiasi tipo d’imbarcazione e comunque di
pescare. A questa ordinanza si deve l’uccisione, il 12 settembre, dell’anziano pescatore
Gennaro Di Lieto, nato a Napoli il 12 settembre 1895. Il Di Lieto, ignaro degli
ordini, sta svolgendo il suo lavoro nel tratto di mare tra Coroglio e Nisida
quando è raggiunto da colpi di mitragliatrice provenienti da un reparto tedesco,
appostato sull’isolotto di Nisida. E’ con lui il suo parente Carmine Di Lieto
il quale riesce a salvarsi, buttandosi preventivamente in acqua.
Negli stessi giorni, e per lo stesso motivo,
dovrebbe essersi verificato un altro episodio accennato da Simon Pocock. Egli
riporta un racconto di Giuseppe Di Bonito di Pozzuoli il quale afferma che suo
nonno Alfonso Chiocca ed un altro pescatore soprannominato “o schilizzo” furono
uccisi mentre erano intenti a pescare polipi lungo il litorale di via Napoli.
Afferma che dalla rotonda nei pressi della Chiesa di San Gennaro alcuni soldati
tedeschi intimarono ai due anziani pescatori di avvicinarsi alla costa ma,
presi dal panico, i due iniziarono a remare per scappare; in questo frangente
furono uccisi a colpi di cannoncino. Non c’è altra memoria storica per questo
episodio e, conoscendo i luoghi, sembra difficile richiamare l’attenzione, di
chi si trova in mare, dall’alto del belvedere della Solfatara.
Nel contempo inizia la requisizione forzata d’ogni
specie di commestibili; insaccati, cereali, frutta, olio, pollame, suini e
bovini. La popolazione si affretta a nascondere tutto ma i tedeschi con
violenza prendono specialmente maiali e mucche, li ammazzano e li mangiano,
oppure li caricano sui camion che numerosi e giornalmente partono per il centro
e nord Italia.
I contadini raccontano: “i tedeschi se
pigliavene e galline, se pigliavene o puorche, se pigliavene i sasiccie, lardo.
Tutto, tutto… ievene a mbaz’ì po’ puorche, baste che truvavene o porche subite
l’accerevene e o mettevene a cocere”.
Gli stessi tedeschi vecchi avventori si
ripresentano a Villa Maria e con la forza portano via tutto quanto custodito
nel cellajo e i due maiali presenti nel casotto dove sono allevati [9]. I
coloni, forti delle loro conoscenze, non hanno voluto nasconderli al di là
della recinzione che divide il fondo con il confinante giardino interno dei
Mirabella.
In questo periodo predominano, isolati e ad
opera specialmente di motociclisti tedeschi, furti e rapine che vengono
commessi a mano armata nelle vie e nelle abitazioni; i puteolani iniziano a non
farsi notare in giro e nella memoria comune resta il ricordo dei tedeschi che
portano via tutto.
La
sistematica distruzione degli impianti
Già dal 16 settembre il Comando ha preparato
un dettagliato elenco degli impianti industriali e dei manufatti da distruggere
nella zona flegrea a partire dal giorno 22, prima della prevista ritirata sotto
l’incalzare delle truppe alleate. Incaricati di eseguire queste demolizioni
sono i guastatori della 2° Compagnia del “Pionier Bataillon 60”.
Questo piano è suddiviso in tre fasi da
mettere in atto in tre tempi diversi:
- Inizialmente la distruzione di impianti
industriali e portuali, depositi munizioni e carburanti, postazioni difensive e
devastazione al completo del ciclo di produzione alimentare e degli impianti di
fornitura idrica ed elettrica.
- Negli ultimissimi giorni di settembre, poco
prima d’abbandonare la zona, la distruzione dei ponti ferroviari e stradali, lo
smottamento delle gole e la creazione di frane o di voragini nei punti più
stretti o delicati delle vie di collegamento.
- Infine la collocazione di innumerevoli ordigni
a scoppio ritardato o a strappo (nascosti in tutti gli edifici pubblici o
privati che avrebbero potuto essere utilizzati come acquartieramento o ospedali
dalle truppe nemiche), nonché la disseminazione di mine lungo tutte le arterie
e il rilascio di innumerevoli trappole esplosive.
Già il giorno 22 sul porto di Pozzuoli
abbattono due gru e la stazione di pompaggio che rifornisce i grandi serbatori
della Regia Marina interrati nella parte alta della città, in via Campana e via
Celle. La distruzione di questa sala pompe innesca un incendio d’immensa
proporzione, con densa nuvola di fumo, che spaventa i puteolani rimasti nel
borgo nonostante l’ordine di abbandonare la fascia costiera. Ma l’esplosione spaventa
gli stessi tedeschi che si allontanano evitando così la distruzione di altre
infrastrutture portuali quali il ponte che collega la banchina al molo
caligoliano, postazioni e accasermamenti della MILMART (Milizia Marittima) e
della Regia Marina.
Nella rada affondano cinque imbarcazioni
mercantili, tra cui un grande veliero, e il sommergibile FR 115 (ex
francese Dauphin)
che si trova attraccato al pontile Ansaldo, impossibilitato a navigare perché
in attesa di lavori [10].
Presso lo stesso pontile i genieri cercano di
abbattere la potente gru eretta al termine di questo molo a fine ottocento (Gru
Armstrong),
ma la dinamite da sola non è sufficiente a buttar giù lo storico argano;
pertanto due giorni dopo i guastatori tedeschi decidono di aggredirla con la
fiamma ossidrica [11].
Essa, che con il suo profilo si alzava maestosa al centro della insenatura puteolana, giace ora silenziosa sul fondale di quel mare che dall’alto guardava orgogliosa.
Essa, che con il suo profilo si alzava maestosa al centro della insenatura puteolana, giace ora silenziosa sul fondale di quel mare che dall’alto guardava orgogliosa.
Gli stessi tedeschi, con l’aiuto di
collaborazionisti puteolani, distruggono quasi al completo capannoni e
macchinari della “Ansaldo Artiglierie”, dopo averla depredata di tutto ciò che
poteva essere utili, compreso pezzi di ricambio, che la fabbrica di Pozzuoli
costruisce su licenza, per il loro famoso cannone da 88 [12a, 12b, 12c, 12d].
Il giorno 22 fanno saltare in aria la loro
officina siluristica di Lucrino e la polveriera che la Marina ha creato
all’interno della storica Grotta di Cocceio, tra l’Averno e Cuma. Questo
scoppio fa volare in tutta la zona una pioggia di proiettili, oltre a
distruggere la grande struttura romana [13].
Nel porto di Baia affondano sei imbarcazioni tra
cui una nave soccorso, distruggono due gru ma non riescono nel loro intento di
distruggere al completo il locale stabilimento in cui si costruiscono siluri [14].
Più danni arrecano alla nuova fabbrica del Fusaro che tra l’altro è stata costruita con il loro aiuto e che è collegata alla fabbrica di Baia a mezzo di una galleria che custodisce centinaia di siluri e che stranamente non è minata [15].
Più danni arrecano alla nuova fabbrica del Fusaro che tra l’altro è stata costruita con il loro aiuto e che è collegata alla fabbrica di Baia a mezzo di una galleria che custodisce centinaia di siluri e che stranamente non è minata [15].
Una gru ed altre imbarcazioni minori, tra cui
motozattere e rimorchiatori appartenenti alla Regia Marina, sono distrutte nel
porto di Miseno.
Le polveriere di quest’ultima località, e
della vicina Miliscola, sono piene di proiettili che i tedeschi vorrebbero far
saltare. Il podestà Ernesto Schiano riesce a convincerli a far a scaricare in
mare, a mezzo di tutte le barchette dei locali pescatori, il completo
l’arsenale. Ancora oggi i fondali sono zeppi di casse di munizioni ma il loro
mancato scoppio ha salvaguardato il vicino centro abitato. Nel contempo sono
fatti saltare in aria grossi tratti di pontili tra cui quello di Marina di
Bacoli nel tratto intermedio, quello di Torregaveta nella sua parte finale e
quello dell’isolotto di San Martino [16].
Distrutto è pure il siluripedio dello stesso
isolotto, la stazione radio trasmittente di Miseno [17], nonché vari fari e
postazioni dislocati lungo tutta la costa flegrea.
Gli
eccidi e la razzia degli uomini
Tutta la zona della Campania e del basso
Lazio, essendo vicina al fronte, è definita dai tedeschi “zona di operazione” e
in essa sono applicate le leggi di guerra, che poi sono quelle di un esercito
di occupazione. Perciò qualsiasi atto di disobbedienza della popolazione civile
diventa passibile di fucilazione con estrema facilità.
Il comando tedesco di Lucrino inizia a
fungere anche da Tribunale di Guerra; il 14 settembre vi è condotto in stato di
fermo l’ex sindaco antifascista di Bacoli Ernesto Schiano accusato, e poi
discolpato, d’aver aiutato il figlio Pasquale considerato traditore e spia per
le azioni che abbiamo di già descritto.
Anche il podestà di Monte di Procida,
Agostino Matarese, si reca presso il comando di Lucrino per soccorrere alcuni suoi
concittadini condannati a morte per presunto aiuto offerto a un disertore
tedesco.
Il 16 settembre del 1943, verso le ore 19.00,
un sergente ed un soldato del 115° Reggimento, accompagnati dal Podestà di
Pozzuoli avvocato conte Filippo Falvella, si recano in una casa poco distante
dal lago Lucrino. La casa è abitata dalla famiglia Guardascione e i militari
tedeschi vi trovano Mario Guardascione, il fratello Antonio, il cugino
Salvatore ed un loro zio, Emanato Filiberto, in visita presso questi suoi
parenti. I militari ed il Podestà, spiegano che si tratta solo di una richiesta
di informazioni in merito al taglio di alcuni cavi telefonici che partono da
Lucrino (sede del Comando) ed attraverso Monteruscello arrivano a Grotta del
Sole e Quarto (sedi di accampamenti di due battaglioni dipendenti dal predetto
Comando).
Invitano i presenti a seguirli presso il
vicino comando tedesco e lungo il breve percorso incontrano sia Michele
Costagliola, che rientra dal lavoro, sia un uomo anziano addetto alla
guardiania del lago Lucrino; entrambi sono invitati dai militari a seguirli
presso il comando. Giunti al comando l’anziano guardiano del lago è liberato,
con l’ordine di sorvegliare le linee telefoniche, ma gli altri cinque sono
costretti a salire su un camion militare e condotti al campo tedesco che si
trova in località Grotte del Sole. I cinque prigionieri non sono sottoposti a
nessun interrogatorio ma, alle cinque del mattino del giorno successivo 17
settembre, sono svegliati e costretti nuovamente a salire sull’autocarro.
Sul camion ci sono già dodici soldati
tedeschi e dietro, appena il camion inizia a muoversi, si accoda un’auto in cui
hanno preso posto due ufficiali tedeschi ed un soldato che funge da interprete.
In breve tempo il convoglio raggiunge la zona Conocchiella (all’epoca pratica
strada di collegamento tra Monteruscello ed Arco Felice) e all’altezza del
luogo dove oggi sorge il distributore sulla vicina variante, i cinque
prigionieri sono fatti scendere [18].
Emanato Filiberto comprende ciò che sta per succedere e cerca di spiegare all’interprete che nessuno di loro ha commesso il sabotaggio e poi sono gli unici sostegni delle proprie famiglie. Come risposta alle preghiere del prigioniero uno degli ufficiali tedeschi, con un colpo di pistola alla nuca, uccide Antonio Guardascione. I soldati, a loro volta, con pugni, calci e con colpi assestati con le baionette obbligano i restanti quattro prigionieri a procedere verso il luogo dell’esecuzione. Nel mentre procedono i superstiti quattro prigionieri si ribellarono ed assalgono i tedeschi. Due di loro, Guardascione Mario ed Emanato Filiberto, riescono a fuggire sebbene inseguiti e mitragliati numerose volte. Guardascione Salvatore e Costagliola Michele, sopraffatti dai soldati, sono costretti, con innumerevoli colpi inferti con il calcio dei fucili, a scavare la propria fossa. Guardascione Salvatore e Costagliola Michele, dopo essere stati fucilati, unitamente ad Antonio, che è stato ucciso in precedenza, sono colpiti molte volte con il taglio delle baionette.
Emanato Filiberto comprende ciò che sta per succedere e cerca di spiegare all’interprete che nessuno di loro ha commesso il sabotaggio e poi sono gli unici sostegni delle proprie famiglie. Come risposta alle preghiere del prigioniero uno degli ufficiali tedeschi, con un colpo di pistola alla nuca, uccide Antonio Guardascione. I soldati, a loro volta, con pugni, calci e con colpi assestati con le baionette obbligano i restanti quattro prigionieri a procedere verso il luogo dell’esecuzione. Nel mentre procedono i superstiti quattro prigionieri si ribellarono ed assalgono i tedeschi. Due di loro, Guardascione Mario ed Emanato Filiberto, riescono a fuggire sebbene inseguiti e mitragliati numerose volte. Guardascione Salvatore e Costagliola Michele, sopraffatti dai soldati, sono costretti, con innumerevoli colpi inferti con il calcio dei fucili, a scavare la propria fossa. Guardascione Salvatore e Costagliola Michele, dopo essere stati fucilati, unitamente ad Antonio, che è stato ucciso in precedenza, sono colpiti molte volte con il taglio delle baionette.
Sono però lasciati insepolti e sui loro corpi
i soldati collocano un cartello preparato in precedenza: “Fili rotti, cinque
italiani uccisi”. I corpi sono poi rimossi dal Parroco della chiesetta di Arco
felice, Mons. Gennaro D’Ambrosio. Questi, con il consenso del custode, li
trasporta uno ad uno, sulle proprie spalle, presso il civico cimitero.
Dalle denunce rilasciate dai due sopravvissuti,
si apprende che il giorno dopo i tedeschi ed il podestà, per porre rimedio alla
fuga dei due prigionieri, catturano altre due persone che, successivamente,
sono liberate. Nella stessa denuncia si legge che, nella stessa zona, alcuni
giorni dopo, sono fucilati altri cinque italiani e due prigionieri americani di
cui, però, non si sono mai ritrovati i corpi. Nella serata del 19 settembre
alcuni soldati tedeschi, in servizio sulla spiaggia di Miseno, notano una luce
proveniente da un’abitazione privata.
Aniello Calabrese, nato a Brindisi il 7
settembre 1900, sta infatti camminando in casa sua con una candela in mano e,
involontariamente, la luce della candela è proiettata all’esterno attraverso
una finestra.
Quest’atto del Calabrese, che in alcune fonti
è indicato come guardiamo del faro di Capo Miseno, è interpretato come una
segnalazione al nemico che di già occupa la vicina isola di Procida. E’ bene
ricordare che il giorno 14 è arrivata a Baia una motonave con le truppe
tedesche che sono state convinte dalla popolazione ad abbandonare l’isola di
Ischia in cui erano stanziate. Di conseguenza in questi giorni ci sono scambi
di cannonate tra postazioni o imbarcazioni alleate a Procida e Ischia e
artiglieria tedesca, trainata da semicingolati, che si sposta tra Miseno,
Torregaveta e Cuma.
Nonostante alcune garanzie fornite sul suo
conto Calabrese è portato al comando tedesco presso l’Albergo dei Cesari e
fucilato a Lucrino il giorno successivo, 20 settembre; le stesse precedenti
fonti lo danno ucciso a Monte di Procida.
Nello stesso giorno 20 un manifesto del
Prefetto di Napoli, che esegue gli ordini del comando tedesco, intima la
chiamata al servizio di lavoro obbligatorio per tutti i maschi di età compresa
fra i diciotto e i trentatré anni; in pratica una deportazione forzata nei
campi di lavoro in Germania.
Questa è un'altra vicenda che resta forte
nella memoria collettiva di queste zone; a differenza delle regioni del nord,
in cui si dà la caccia ai giovani renitenti alle varie chiamate di leva emesse
dal governo repubblichino, questa è una vera e propria razzia di uomini.
Civili, militari ed ecclesiastici;
giovanissimi padri di famiglia e anziani; alcuni sono inviati sulla linea
Gustav per l’approntamento delle difese ma la maggior parte inviati nell’allestito
campo di raccolta di Sparanise, per essere poi deportati in Germania.
In verità già dal
giorno 15 il Podestà di Pozzuoli ha ricevuto ordine dal comando tedesco di
provvedere alla compilazione degli elenchi delle classi 1910/25 per il servizio
obbligatorio del lavoro, pertanto ne incarica l'ufficio di Stato Civile. Il
personale comandato si destreggia in lungaggini per ritardarne la consegna,
benché sottoposto a continue e pressanti minaccia di denunzia. A lavoro
ultimato nel tardo pomeriggio del giorno 21, noncuranti del mortale
avvertimento, gli impiegati Luigi D’Alfonso Gennaro Chiocca trafugano le schede
e le inceneriscono all’angolo della popolazione) della chiesa della
Purificazione, in una strada deserta per l’avvenuto esodo di gran parte dei
puteolani. Il giorno successivo, alla constatazione della sparizione del
materiale, nell' ambiente comunale si diffonde una cupa atmosfera di
sbigottimento e il Podestà assume sembianze patibolari, certo di essere raggiunto
dalla immancabile rappresaglia tedesca.
Anche Giovanni Caruso,
impiegato presso il Comune di Bacoli, rilascia carte d’identità con date di
nascita fasulle onde evitare il forzato arruolamento di giovani nelle sempre
più frequenti retate.
A proposito di queste
retate sono interessanti le memorie di Pietro Scotto Di Vetta di Bacoli, intervistato
dall’amico Elio Guardascione:
“Salimmo
sul treno [cumana], ma quando
arrivammo a Bagnoli, il treno fu fermato da molti tedeschi che avevano i fucili
pronti per sparare. Fecero scendere tutti gli uomini e pure me. Mia madre,
piangendo, diceva che io non avevo ancora 18 anni e perciò non potevano
prendermi; mostrò loro anche la mia tessera dove si vedeva che avevo 17 anni.
Ma i tedeschi la minacciarono con i fucili, gridando “Raus, Raus” [fuori,
fuori] e poi spingendomi con la canna del fucile, mi portarono vicino a un
camion dove c'erano altri uomini e mi fecero salire. Mia madre arrivò piangendo
fino al camion e urlava che ero piccolo, ma i tedeschi non rispondevano. Allora
un uomo che stava sul camion cercò di calmarla e le promise che mi avrebbe
aiutato lui. Il camion partì e ci portò fino al Collegio “Costanzo Ciano” di
Bagnoli (Collina di San Laise), qui ci fecero scendere e ci portarono
in un tunnel sotterraneo dove c'erano prigionieri stranieri. Mi pare che
fossero neozelandesi [19].
Più tardi ci fecero salire di nuovo su
un camion e ci portarono a Sparanise in un campo grandissimo dove non c’era niente
se non la recinzione. Per dormire raccogliemmo dei pezzi di legno e costruimmo
dei ripari che assomigliavano alle cucce dei cani. Sono rimasto nel campo una
decina di giorni, mangiavamo pochissimo e la fame ci faceva stare male. Quei
disgraziati dei tedeschi per divertirsi ci buttavano dei pezzi di pane e
ridevano quando litigavamo per arrivare primi ma, quando eravamo vicini al pane
loro si avvicinavano e ci allontanavano colpendoci con il calcio dei fucili.
Dopo una decina di giorni, una guardia
austriaca, forse impietosito dal fatto che ero un ragazzo, fece scappare me ed
altri due dal campo. Cominciammo a scappare ma altre guardie ci videro e
cominciarono a sparare. Penso che gli altri due furono colpiti perché, ad un
certo punto, quando mi fermai, ero solo.
Dopo un giorno di cammino, riuscii ad
arrivare a Pianura dove ritrovai mia madre e le mie sorelle, avevo i capelli
bianchi perché erano pieni di uova di pidocchi. Nessun barbiere volle tagliarmi
i capelli e allora lo fece mia sorella Filomena. Dopo, poiché avevo i capelli a
scaletta, per la vergogna volevo coprirli. Però non avevo un cappello e,
allora, presi una calza nera di mia madre e la misi in testa a tipo cappello.”
La mattina del 22 settembre Solimeo Gennaro,
nato a Pozzuoli il 23 settembre 1915, tra gli uomini rastrellati per essere
adibiti ad alcuni lavori nella zona di Licola, tenta di scappare ma è ucciso a
colpi di mitragliatrice.
Il 23 settembre intanto una ordinanza prevede
lo sgombero di tutta la fascia costiera cittadina sino ad una distanza di 300
metri dal mare; in pratica migliaia di puteolani e di bacolesi sono costretti
ad abbandonare in poche ore le proprie case ed in maggioranza si rifugiano,
come fatto con le prime invasioni barbariche, nella zona di Cigliano, di Quarto
e di Pianura. In una masseria di Cigliano, appartenente a loro parenti, si
rifugiano i coloni Biclungo ormai depredati di tutto. Nascosti all’interno di
Villa Maria restano mio Padre Carmine Peluso con il fratello maggiore
Sebastiano e l’anziano genitore Giuseppe.
I tedeschi vorrebbero sgombrare anche
l’intero territorio di Monte di Procida ma il Podestà, Agostino Matarese, si
adopera per farli restare nelle loro case.
In merito agli sgombri sentiamo, sempre dalla
citata intervista di Elio Guardascione, ancora Pietro Scotto Di Vetta di
Bacoli:
“Quella
mattina, era quasi la fine di settembre mia madre ed io ci recammo a casa di Rusina, una vicina, e mia madre le
chiese se era vero che dovevamo sgomberare. Rusina, piangendo, disse che forse era vero ma per essere sicura
si rivolse ad un uomo, che non conoscevo, e chiese conferma. Quell’uomo rispose
che era vero e che i tedeschi avevano affisso dei manifesti che ordinavano alla
popolazione di sgomberare tutto il paese perché dovevano far saltare le
polveriere di Miseno, di Miliscola, il ponte di Casevecchie e molte strade.
Allora, mia madre cominciò a piangere pure lei e tornammo a casa. Noi abitavamo
rint’ i Trebbitiell’.
Mia
madre preparò un poco di roba chiamò me e le mie sorelle Filomena e Anna e
insieme andammo a Baia per prendere il treno della Cumana per arrivare prima a
Fuorigrotta e poi andare a Pianura a piedi.”
Il 24 settembre Francesco De
Vivo, nato a Marano il 28 settembre 1890 e residente a Quarto (ancora comune di
Marano) è tra i primi rastrellati, insieme ad altri civili, per essere
impiegato in lavori a favore dell’occupante. E’ portato in località Grotta del
Sole dove tenta di scappare, ma i tedeschi gli sparano alle spalle,
uccidendolo. Comunque questo episodio è completamente assente nella memoria
locale come pure l’uccisione di Biagio Anicelli avvenuto poco distante, nei
pressi di Torre Santa Chiara.
Il 25 settembre nelle
vicinanze del Comando Albergo dei Cesari è fucilato Giacomo Lettieri, nato a
Napoli il 5 maggio 1928, insieme ad altri civili ignoti.
Il giorno dell’armistizio, 9
settembre 1943, il Lettieri sta lavorando come manovale in piazza Principe
Umberto a Napoli quando vede alcuni soldati tedeschi sparare e uccidere un
soldato italiano. Tolto un moschetto a un carabiniere, che ha assistito alla
scena senza intervenire, il ragazzo fa fuoco e uccide due tedeschi. Subito dopo
scappa e si nasconde ma un suo compagno di scuola lo tradisce facendolo
catturare. I tedeschi lo conducono a Lucrino e lo fucila, forse insieme ad
altre persone. Alla memoria di Giacomo Lettieri è stata conferita la medaglia
d’argento al valor militare. Fino a pochi anni fa gli era intitolata una scuola
media del quartiere Vomero.
I
tedeschi si ritirano e interrompono ogni via di comunicazione
Negli ultimissimi giorni di settembre i
tedeschi, poco prima d’abbandonare la zona a seguito della rivolta napoletana e
l’incalzante avanzata degli alleati, iniziano l’ultima fase che possiamo
definire come “bruciarsi i ponti alle spalle”. Praticamente provvedono alla distruzione
di ponti ferroviari e viari, allo smottamento di gole e strettoie, a creare voragini,
ostacoli e campi minati nei punti più stretti o delicati di tutte le possibili vie
di collegamento.
Sulla via Campana nella strettoia scavata dai
romani, e conosciuta come “Montagna Spaccata”, i tedeschi fanno scoppiare delle
mine sul lato sinistro facendo crollare una grossa quantità di roccia e
terreno; in pratica ostruiscono la strada per Quarto [20].
Con una voragine artificiale sulla nuova via
Domiziana, poco dopo via Antiniana andando verso Napoli, bloccano al traffico
questa importante arteria nel punto in cui, con un terrapieno artificiale,
attraversa un vallone.
Anche la “direttissima”, come è appellata la
linea metropolitana tra Pozzuoli e Napoli essendo parte integrante della linea rapida
che collega con treni “direttissimi” Napoli con Roma, è interrotta in vari
punti.
C’è, tra la galleria di Monte Olibano e la
stazione di Pozzuoli, un lungo viadotto poggiante su sette arcate che permette
alla linea ferroviaria di superare il vallone naturale che dalla Solfatara
scende verso il mare là dove la terrazza marina è stata corrosa da eventi
pluviali [21].
La distruzione di questo ponte, che
costituisce uno semisconosciuto ma interessantissimo pezzo di storia puteolana,
cì è raccontato dall’amica Anna Maria D’Isanto.
Anna Maria narra che i tedeschi, prima della
ritirata, avvisano le famiglie che abitano nei pressi dei binari e della
galleria e le invitano ad allontanarsi perché avrebbero minato i ponti e la
stessa galleria che sbuca in località La Pietra, poco prima della successiva
stazione di Bagnoli.
Tra le poche famiglie avvertite c’è quella
del marito di Annamaria, la Famiglia Sorbo, il cui capofamiglia è ferroviere ed
abita proprio nel casello, ancora oggi esistente, situato tra il ponte e la
galleria.
Disastroso lo scoppio che rende irrecuperabile
l’elegante viadotto che non sarà più ricostruito; l’importante linea
ferroviaria, non potendo attendere i lunghi tempi che richiederebbe la
costruzione di un nuovo viadotto, è subito ripristinata dagli alleati innalzando
un antiestetico terrapieno al posto del precedente elegante ponte.
Anche l’imbocco della vicina galleria è reso inagibile
al traffico ferroviario a mezzo di una frana provocata dal brillamento di mine.
Questa galleria è utilizzata quale rifugio da
tutti i puteolani residenti nella zona alta o comunque a ridosso della linea
ferroviaria; tra questi Sofia Loren che nelle sue memorie ricorda i tragici
giorni trascorsi in questo tunnel con la sua famiglia;
In pratica l’ingresso della galleria è
ostruito e durante l'ultimo bombardamento avvenuto al tramonto del 21 ottobre
1943 ad opera, questa volta, di aerei tedeschi, quelli che vogliono rifugiarsi al
suo interno debbono fermarsi all'imbocco e solo arrampicandosi sulla frana riescono
ad arrivare al soffitto e poi ridiscendere nel tunnel [22].
Il piccolo Salvatore Sorbo è portato a
cavalcioni sulle spalle dal fratello Bernardino che, passato il pericolo, con
lo stesso sistema lo riporta al casello.
La signora Gigliola Fortezza ci narra della
distruzione di un altro ponte ferroviario; questa volta della Ferrovia Cumana
nel tratto tra le stazioni Cantiere e Arco Felice [23].
I treni si fermano ma ben presto riprendono servizio perché, facendo ricorso alle scarse risorse disponibili, si provvede in poco tempo a rappezzare la tratta. Sono impiegate le traverse di legno, conservate nei depositi, che sono accatastate a guisa di tronco di piramide; sotto passa la strada e sopra sono ancorati i binari.
I treni si fermano ma ben presto riprendono servizio perché, facendo ricorso alle scarse risorse disponibili, si provvede in poco tempo a rappezzare la tratta. Sono impiegate le traverse di legno, conservate nei depositi, che sono accatastate a guisa di tronco di piramide; sotto passa la strada e sopra sono ancorati i binari.
Una soluzione
provvisoria, gli alleati non hanno interesse a ripristinare questa linea per
loro non strategica, che nasconde non poche insidie; la struttura volteggia
paurosamente all'incedere lento dei veicoli; i viaggiatori lasciano le vetture,
scendono lungo la scarpata per risalire quell'altra sul lato opposto per poi riprendere
il treno.
La paura di questo
passaggio serpeggiava anche in seno ai ferrovieri e allora è deciso di individuare
colui che si sente più impavido; quest’uomo, che prenderà poi il soprannome di
"Temerario", ha il compito di percorrere alla guida dei convogli quei
cento passi di una pericolosità estrema. Tutto è fatto con i mezzi, gli uomini
e le intelligenze di quella azienda, senza interrompere i collegamenti, senza
che l'utenza subisca disagi.
Tra Bacoli e Miseno il già nominato ponte, che
passa sulla foce del lago di Miseno [24], è questa volta fatto saltare dai
guastatori tedeschi che inoltre disseminano di mine i suoi dintorni provocando
la morte di due italiani.
Gli
eccidi si infittiscono
Il 24 settembre, secondo una versione
riportata ai Carabinieri di Pozzuoli, un soldato tedesco si introduce in un
fondo agricolo di via Luciano, in Contrada Fascione, e a colpi di moschetto
uccide Antonio Masson, nato il 14 agosto 1915, figlio del proprietario.
Secondo altre fonti l’episodio sarebbe
avvenuto il giorno 26 e il Masson, che è un Tenente di Cavalleria, sta
preparando alcune armi che ha nascosto con l’intenzione di utilizzarle contro i
tedeschi. Forse è catturato dopo
delazione ed è sgozzato davanti ai suoi familiari in quanto accusato di aver
organizzato azioni di sabotaggio. Il suo corpo è esposto nelle vicinanze
dell’attuale Olivetti e poi recuperato dal parroco della Chiesa
dell’Annunziata, Mons. Giovanni Moio, che lo porta al cimitero.
Il 27 settembre De Matteo Francesco, nato a
Napoli il 30 maggio 1920, è catturato nel capoluogo e condotto a Lucrino nel
provvisorio campo di detenzione. Da qui tenta di evadere ma è ucciso dai suoi
aguzzini.
Nello stesso giorno sono giustiziati,
sembrerebbe sempre a Lucrino, i fratelli Gennaro e Eduardo Colucci. Di loro non
si possiedono dati anagrafici e non si hanno altre notizie certe.
Il 29 settembre in Località Cupa Fredda, nei
pressi della via Montagna Spaccata a Pianura, sono catturati sette partigiani
combattenti delle Quattro Giornate di Napoli. Nascosti sotto l’arcata di un
ponte sono scovati da 20 soldati tedeschi, capeggiati da un ufficiale; sono
radunati e falciati da sventagliate di mitragliatrice, cinque sono uccisi
subito e due sopravvissuto moriranno in seguito per le gravi ferite riportate. Di sei si conoscono le generalità, dell’ignota
settima vittima solo l’apparente età:
-Gallo Gaetano, nato a Napoli il 4 aprile
1918;
-Mangiapia Fedele, nato a Pianura nel 1917 (secondo
una fonte) o a Napoli il giorno 11 febbraio 1923 (secondo altra fonte);
-Mele Evangelista, nato a Pianura il giorno 8
settembre 1881, morto poi il 1 gennaio 1944;
-Vaccaro Antonio, nato a Pianura il 5 ottobre
1908, morto poi in ospedale;
-Varriale Luigi, nato a Napoli il 5 gennaio
1910 (secondo altri nel 1911). Manovale;
-Virgilio Salvatore, nato a Napoli il giorno
1 gennaio 1925 (o 7 gennaio secondo altri), manovale;
-Ignoto, apparente età di 30 anni.
Il 30 settembre Giulia Fasano, nata a
Pozzuoli il 21 luglio 1927, si sta recando con la sorella Emilia alla fontana
pubblica in via Miliscola Località Arco Felice, per attingere acqua, quando è
colpita da alcuni colpi di mitra sparati da soldati tedeschi appostati nella
vegetazione [25]. La sorella, illesa, recupera il corpo di Giulia, venendo per
questo schernita dai soldati.
Secondo un’altra versione Giulia Fasano, il
cui fratello Nicola sarà deputato alla Camera per il Partito Comunista
Italiano, ha provveduto a tagliare alcuni cavi telefonici in via Montenuovo,
scoperta dai tedeschi è da questi mitragliata.
Tutte le versioni concordano sui dati della
giovane donna, sulla località e sulla data dell’eccidio, ma alcuni riferiscono
che Giulia sia stata uccisa da militari di passaggio su di un camion ed altre
dicono che sia stata sparata da un ultima motocarrozzetta che si accingeva a
lasciare la zona.
Probabilmente la stessa motocarrozzetta che
poco prima incomincia a lasciare Pozzuoli fermandosi all’ingresso di Villa
Maria, in via Miliscola. Ne scende un sottoufficiale che entra nel cortile e
con il calcio del fucile cerca di sfondare i battenti dell’ormai vuoto cellajo
e della disabitata casa colonica. Passa poi a sbattere il vicino portone,
anch’esso sbarrato, e sul ballatoio delle scale, al primo piano, si trova mio
padre Carmine Peluso ancora armato di moschetto e bombe a mano. Il tedesco
spara qualche colpo contro la massiccia serratura e mio Padre, che nascosto
segue la scena, è ormai pronto a sganciare una bomba non appena l’invasore
metta piede nell’androne.
Ma intanto l’altro camerata, con la sua
motocarrozzetta, si è diretto verso la fontana romana posta davanti al vecchio
mulino; dalle socchiuse persiane mio Padre lo vede armeggiare con bustine
svuotate nel serbatoio del motoveicolo in cui poi versa l’acqua della fonte
(benzina sintetica?) [26].
Poi a gran voce richiama il suo capopattuglia che fortunatamente lo raggiunge ed entrambi provvedono a riempire quelle che sembrano le loro borracce; nel desolato silenzio ripartono velocemente verso Arco Felice e forse verso il tragico destino della giovane Giulia.
Poi a gran voce richiama il suo capopattuglia che fortunatamente lo raggiunge ed entrambi provvedono a riempire quelle che sembrano le loro borracce; nel desolato silenzio ripartono velocemente verso Arco Felice e forse verso il tragico destino della giovane Giulia.
Il 2 ottobre 1943, il
gruppetto di amici composto da Scamardella Leonardo (nato a Bacoli il 24 giugno
1926), il fratello Scamardella Biagio (nato a Bacoli il 5 novembre 1909),
Michele Carannante (nato a Bacoli il 1 ottobre 1927) e Bartolomeo Scotto di
Luzio (nato a Monte di Procida il 22 marzo 1909), corrono ai piedi dell’acropoli, nell’area degli appena minati bunker della
difesa costiera, dove trovano vari residui bellici abbandonati dalla
guarnigione italiana (vedi i Bunker di Cuma).
I quattro iniziano a
giocare con queste armi ed uno di loro spara anche qualche colpo in aria che
però attira l’attenzione di una pattuglia tedesca che ancora si aggira nei
paraggi.
Quando la squadra tedesca
si avvicina i tre gettano le armi e scappano, riescono a percorrere solo pochi
metri perché sono subito abbattuti dal fuoco, raffiche di mitra e lancio di
bombe a mano, dei soldati che non perdonano l’imprudenza e la curiosità dei
poveri giovani.
Unico superstite è Bartolomeo Scotto di Luzio
che, seppure ferito, riesce a scappare; sui corpi dei caduti i tedeschi
infieriscono a colpi di baionetta.
Lo stesso giorno (qualche fonte parla del
giorno 3 ottobre) nella vicina Licola è fermato dai tedeschi Galassi Dino, nato
a Villamarzana (Rovigo) il 1 aprile 1928. Il Galassi, di una delle tante
famiglie venete venute a coltivare le nuove terre bonificate, si aggira per le
paludi che ancora circondano gli insediamento della Opera Nazionale Combattenti,
probabilmente in cerca di selvaggina. Pertanto è armato di un fucile da caccia
ma questo particolare non è gradito dai soldati tedeschi che lo uccidono
direttamente sul posto.
Il 4 ottobre l’ultima uccisione già ai limiti
del Campi Flegrei, in località Varcaturo, comune di Giugliano. Bovenzi
Giovanni, nato a Cancello Arnone il 26 luglio 1901, è ucciso con colpi di
pistola alla fronte mentre sta attraversando il ponte Varcaturo per recarsi in
casa della sorella in contrada Campanariello. Il reparto tedesco è la 10° batteria
del Panzer-Artillerie-Regiment della Divisione “Hermann Göring“.
L’eredità
lasciata dai tedeschi
Il primo ottobre 1943 gli ultimi tedeschi,
inseguiti dalle prime pattuglie meccanizzate alleate, lasciano le coste flegree
e, attraverso la Domiziana, si ritirano oltre la foce del Lago Patria.
Qui si attestano dietro la nuova linea di
difesa, da loro denominata “Anni”, che iniziando dalla costa prosegue
nell’entroterra seguendo il corso dei Regi Lagni. E’ questa la prima di una
lunga serie di linee di fortificazione create per ritardare l’avanzata alleata;
poco dopo c’è la linea “Viktor”, che va dalla foce Volturno, agli Appennini
alla foce del Biferno in Adriatico; poi la linea “Barbara” che va dalla foce
del Garigliano agli Appennini alla foce del Trigno, sempre in Adriatico; e
infine la linea “Bernhardt”, che è una variante della definitiva linea “Gustav”,
che attraverso Cassino e gli Appennini arriva ad Ortona seguendo il corso del
fiume Sangro [27].
Gli ordini sono di resistere su queste varie linee per un certo numero di giorni e pian piano indietreggiare per poi attestarsi su Cassino.
Gli ordini sono di resistere su queste varie linee per un certo numero di giorni e pian piano indietreggiare per poi attestarsi su Cassino.
Durante la loro ritirata lungo la statale
Domiziana alcuni loro autocarri sono attaccati da alcuni civili armati e da un
gruppo di Carabinieri, comandati dal sottotenente Pasquale Mastrogiovanni,
nella zona di Licola.
Con il ritiro dei tedeschi dietro le linee
fortificate non finiscono i guai per le nostre popolazioni; anzi inizia quella
terza fase rappresentata dalle improvvise detonazioni di ordigni a scoppio
ritardato.
C’è la necessità tattica di fare terra
bruciata agli alleati che stanno arrivando; pertanto la distruzione del
territorio, già disastrato, è perpetrata con grande violenza poiché cìè la
volontà di vendicarsi contro gli italiani che hanno “tradito”.
Mettono mine dappertutto e lasciano congegni
in tutti quegli edifici pubblici o privati (alberghi, scuole, municipi, ville e
palazzi nobiliari) che potrebbero essere utilizzati come acquartieramento o
ospedali dalle truppe nemiche.
Un classico esempio ci è dato dell’Albergo
dei Cesari dove i guastatori tedeschi innescano una serie di detonazioni ad
orologio destinate a scoppiare, come in effetti avverrà, alla mezzanotte del 5
ottobre quando la struttura, presumibilmente, sarà occupata da truppe alleate [28].
L’esplosivo può essere attivato in modi
diversi, principalmente in seguito a strappi, fili tesi o a pressione, ma
quello in cui eccellano i tedeschi è prevedere come il nemico avrebbe innescato
l’ordigno. Si ricorda un curioso episodio in cui i tedeschi hanno piazzato una
carica esplosiva dietro ad un quadro attaccato appositamente storto sul muro di
un albergo. Quando un ufficiale alleato lo vede, seguendo uno schema mentale
metodico, decide di raddrizzare la cornice saltando in aria insieme a tutto il
muro.
Tutto questo dispiegamento di piccole
trappole esplosive fa diverse vittime tra le forze alleate ma ne fa molte di
più tra i nostri bambini.
Finalmente i tedeschi vanno via e la gente
dimentica le violenze, tra le altre il ferimento, a Pozzuoli, di Angela
Loffredo che cerca di impedire che i tedeschi portino via la figlia
quindicenne, Claudia Gragnaniello.
Solo nel maggio 1945, a guerra conclusa, alla
porta di città è posta una targa che commemora le vittime dei nazisti con
queste parole [29]:
CADUTI IMPAVIDI
SULLA VIA SANGUINOSA
E GLORIOSA DEL RISCATTO
VITTIME DI TEUTONICA
BARBARIE
I PATRIOTI E LA
CITTADINANZA PUTEOLANA
VINDICI
NEL MERIGGIO DEL
SECONDO RISORGIMENTO
POSERO
BIBLIOGRAFIA
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G. Gribaudi - Le stragi naziste sul fronte meridionale – 2003
S.
Pocock – Campania 1943 – Provincia di Napoli - 2009
Sacro
Cuore ai Gerolomini – Per non Dimenticare – 2010
E.
Samuele Guardascione – Testimonianza Scotto di Vetta – 2012
G.
Fortezza – Ricordi Ferrovia Cumana – 2017
A.M.
D’Isanto – Ricordi di Famiglia
G.
Chiocca – Collezione Privata
I.
Insolvibile – Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia
GIUSEPPE PELUSO