martedì 23 luglio 2013

Ezechiele Guardascione








Ezechiele Guardascione

Ombre e crepuscoli di un paesaggista flegreo



Insieme a Pasquale Manduca, Vincenzo Ciardo, Giovanni Brancaccio, Leon Giuseppe Buono ed al più giovane Salvatore Volpe, Ezechiele Guardascione appartiene alla Scuola Puteolana di Pittura conosciuta come Gruppo Flegreo.
Ezechiele nasce a Pozzuoli il 2 settembre 1875 da Vincenzo, proprietario terriero, e da Rosa; la sua giovanile formazione di pittore si svolge all'Istituto di Belle Arti di Napoli, all'epoca in cui ancora vi insegna Domenico Morelli. In questa scuola è accolto, su segnalazione del commendatore Alfonso Simonetti, da Filippo Palizzi che lo accetta senza esitazioni al suo corso di pittura. Tale insegnamento lo conduce a preferire il tema del paesaggio ed in particolare le marine del porto di Napoli e Pozzuoli nelle ore misteriose e silenti. Diventa un impressionista d’ingegno vivace e versatile e lavora con la stessa disinvoltura a tempera ed a olio.
Vive a Pozzuoli fino alla fine dell’ottocento partecipando alla vita culturale della città intrecciando fertili rapporti con colleghi artisti e letterati, ospiti della sua casa che svolge funzione di cenacolo culturale. Nel 1892 è tra gli autori del giornale “Don Checco” diretto da Raimondo Annecchino. Ezechiele è responsabile della cronaca e vi pubblica  le gustose “macchiette puteolane” che ritraggono tipiche figure popolari. Risale al 1898 la sua partecipazione all'Esposizione Nazionale di Torino con il dipinto “Nel pantano” raffigurante una veduta della tenuta reale di Licola, attualmente a Napoli nel Palazzo della Provincia, che ottiene il primo premio.
Agli inizi del Novecento sposa Giovanna Scattoni, di nobili origini, dalla quale ha due figli, Vincenzo e Francesco. A partire da questo periodo Guardascione alterna l'attività di pittore a quella di critico, insegnante e promotore della cultura artistica napoletana; dedicandosi con sempre maggior impegno a questi campi e riducendo la partecipazione alle esposizioni.
Nel 1910 inizia ad operare da uno studio galleggiante; una chiatta messa a sua disposizione da un industriale del carbone, il commendatore Roberto De Sanna. Costui, che per un certo tempo è stato anche impresario del teatro San Carlo nonché amico ed ispiratore di Eduardo Scarfoglio, è il padre della signorina Maria De Sanna che nel 1918 acquista dalle sorelle Ferraro, Maria e Immacolata, il Casino Ferraro sito in località la Starza a Pozzuoli. Guardascione racconta che quando Roberto De Sanna vede alcune sue macchie di Napoli gli domanda se per caso conosce il lato del porto dove attraccano i grandi vapori del carbone. “Andate mi disse, telefonerò al capo guardiano che si mette a vostra disposizione. Così ebbi una vecchia zattera sulla quale era stata costruita una specie di baracca che venne imbiancata al mio arrivo”.
Le marine e le scene di porto sono i temi preferiti di quegli anni; le opere dipinte costituiscono un’interpretazione visionaria della vita portuale di una grande città, che Guardascione rende attraverso un colore fuligginoso, mentre le forme si impastano in un’atmosfera grigia, in cui emergono, come fantasmi, sartiame, gru, fumaioli, in un intrigo fitto di segni neri che danno un senso dinamico ed inquieto.
Nel 1911 espone la sua opera “Il Porto” alla XXXIV Promotrice Salvator Rosa che è premiata dal Regio Istituto di Incoraggiamento e acquistata dal suo presidente Achille Minozzi. Il dipinto, impostato secondo un taglio orizzontale che suggerisce quiete e attesa, presenta barche e zattere alla banchina nell'ora serale. Dello stesso periodo e di affine sensibilità è “Sera”, custodito dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, in cui delle baracche di pescatori sono avvolte dalle ombre crepuscolari.
Negli anni immediatamente precedenti e successivi alla prima guerra mondiale partecipa sporadicamente a esposizioni collettive di interesse nazionale, nel 1921 espone quattro dipinti alla prima ed unica edizione della Biennale Nazionale di Napoli. Al 1924 risale la sua prima partecipazione alla XIV Biennale di Venezia, dove presenta il dipinto intitolato “Sera a Pozzuoli”, oggi nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna.
Ma ora gli interessi dell'artista si rivolgono prevalentemente alla critica; conosce Benedetto Croce e Salvatore Di Giacomo, che gli accordano la loro protezione e amicizia; nel 1924 pubblica, per Laterza di Bari, il volume “Gioacchino Toma - Il colore in pittura”. Il saggio, che riscuote un certo successo editoriale e l'apprezzamento di storici e critici d'arte, tende a rivalutare la figura del pittore ottocentesco. Il Guardascione volge in senso positivo le critiche che nei decenni precedenti hanno decretato un declino critico della figura di Toma e tra queste, in primo luogo, quella relativa alla sua sobrietà cromatica, che ne fa un pittore atipico e contestato dell'ottocento napoletano. Ezechiele individua nel frequente ricorso ai toni di grigio da parte di Toma non già una lacuna nell'uso del colore, quanto piuttosto l'efficace espressione di ambientazioni intime e di stati d'animo sommessi.
Tra coloro che si interessano al saggio di Guardascione spicca Ugo Ojetti, con il quale intrattiene, a partire da questa data, una lunga corrispondenza. Il carteggio inedito (Roma, Galleria nazionale d'arte moderna, Archivio storico, Fondo Ojetti) evidenzia la profonda ammirazione di Guardascione per il celebre critico e la costante ricerca della sua approvazione.
Nel 1927 Guardascione redige per l'Enciclopedia Italiana, su commissione di Ojetti, la voce biografica sul pittore Costanzo Angelini; nell'anno successivo, traendo spunto da una riflessione sugli scritti di Ojetti e dagli scambi epistolari con quest'ultimo, Ezechiele pubblica un articolo fortemente critico sull'opera di Vincenzo Gemito.
Il breve saggio, apparso sul secondo numero della Rivista di Cultura, suscita nell'ambiente artistico napoletano delle vivaci proteste, culminate nella richiesta, da parte della Federazione Provinciale dell'Artigianato, di estromettere Guardascione dalla Biennale di Venezia, dove è stato selezionato quell'anno con un quadro intitolato “Castello e barche”. Nello studio su Gemito Guardascione intende ridimensionare la figura dell'artista nel momento della sua massima celebrità, pur riconoscendone la felicità degli esiti nei ritratti di popolane e in talune sculture; in particolare Guardascione, uomo antiretorico e spregiatore dell'ipocrisia in arte, ritiene sopravvalutate le doti di Gemito quale disegnatore, così come le famose superfici materiche delle sue sculture. A una lettura odierna il saggio pressoché dimenticato del Guardascione appare frutto di un punto di vista originale e coraggioso per il tempo in cui vede la luce, oltreché godibile sotto il profilo letterario per il lessico ricco e avvincente. L'eco del contenuto dell'articolo deve essere stato grande se in una lettera a Ojetti del 12 aprile 1928 Guardascione afferma essere andato a Roma da Cipriano Efisio Oppo, direttore della Quadriennale di Roma, e da Margherita Sarfatti per trovare protezione dopo le polemiche sorte dalla pubblicazione del saggio. La partecipazione alla Biennale del 1928, oltre a essere coronata dalla vendita del dipinto esposto, acquistato da Attilio Piscitelli così come attestato dalla lettera che Guardascione scrive a Ojetti ringraziandolo per le belle parole di recensione, vede il pittore impegnato al fianco di Ojetti nella selezione dei dipinti napoletani del XIX secolo, per la mostra sulla pittura ottocentesca italiana che vi si tiene.
Particolare e degna di nota, negli anni venti e trenta, la sua attività di scenografo e decoratore di saloni secondo un gusto neobarocco.
A Napoli dipinge le sovrapporte del caffè Gambrinus con paesaggi e affresca con scene capresi d'ispirazione settecentesca il vestibolo della Banca Commerciale Italiana nello storico Palazzo Zevallos Stigliano. Sue sarebbero le perdute decorazioni dell'Hotel des Palmes di Palermo, delle Terme di Fiuggi e del Palace Hotel di Roma.
Nel contempo la sua produzione pittorica, in cui i paesaggi del golfo di Napoli sono soggetto quasi esclusivo, sono ora presentati con una tavolozza rischiarata e con inquadrature rese con una pennellata veloce e liquida.
Tra i suoi allievi di questo periodo troviamo il pittore Luigi Bellini (1912-1989), uno degli ultimi artisti della Scuola di Posillipo.
Convinto fascista, nel corso degli anni trenta, Guardascione riveste un importante ruolo culturale attivandosi per iniziative a favore dell'Opera Nazionale fascista e scrivendo su riviste vicine al partito. Tra il 1934 e il 1935 firma alcune pagine critiche di rilevante interesse storico, tra cui un violento attacco all'arte novecentista colpevole di spacciare per originalità istanze di stile e di contenuto già appartenute a precedenti movimenti e già risolte storicamente. Queste appaiano nella rivista guidata da Giovanni Preziosi, ”La vita italiana”, e tra esse ricordiamo “Quale sarà la pittura del Novecento?”  del giugno 1934; “Il palazzo del littorio” del dicembre 1934; “La II quadriennale d'arte”  del marzo 1935.
Guardascione è uomo eclettico e incline al cambiamento. Si diletta di poesia e raccoglie un'importante collezione di statuine settecentesche da presepe con la quale allestisce presepi scenografici a scopo benefico per le opere assistenziali del partito; a Milano nel 1930 e nel 1934 quindi presso i Mercati Traianei a Roma (1931 e 1936) e ancora a Bari (1938), riscuotendo un grandissimo successo. Nel 1934 pubblica a Napoli un piccolo libro dal titolo “Il presepe” dal quale riprendiamo:
 “La costruzione del presepe napoletano non dipendeva sempre dalla volontà o dalla sensibilità dell’ artista. Molte volte questa libertà veniva troncata, o mutata, perché interveniva spesso il proprietario e i suoi capricci. Interveniva la moglie, intervenivano i figli e si aggiungevano le più strane e buffe particolarità. Qualche volta il divino pargoletto nasceva ai piedi del Vesuvio in eruzione e, sullo sfondo, attraverso gole di montagne simili a masse di lava raffreddata, si scorgeva la linea del Vulcano, dalla cui sommità, con un gioco di luce rossastra, scorreva la terribile e prepotente lava. E così molte volte anche le stagioni erano capovolte. Dal dicembre si passava con un gioco magico alla primavera; case con tetti ricoperti di neve, accanto ad altre, sui cui ampi loggiati infiorati e ombreggiati da pergole fiorite, al suono di nacchere a tamburelli, si ballava la tarantella.”
Ezechiele sfrutta queste manifestazioni di richiamo per promuovere la sua pittura; nel 1936 espone alcuni paesaggi a Milano, presentato da Elena Somarè, presso la Casa d'Artisti, mostra che gli vale l'acquisto di due dipinti da parte del Museo Civico d'Arte Moderna; nel 1938 vi è una sua personale anche a Bari.
Riporta Curzio Malaparte, in un ritratto del Guardascione tratteggiato nel “Corriere della Sera”, che il pittore realizza un grandissimo telone decorativo (m 20×20) per la Triennale d'Oltremare tenutasi a Napoli nel 1940, dove raffigura "una prospettiva marina, con navi, e moli, e torri, e monti a picco e nuvole", secondo i temi a lui congeniali e con una tavolozza delicata di verdi e azzurri. L'opera, perduta, è forse l'ultimo grande impegno pittorico di Guardascione, che nel 1943 scrive per l'editore fiorentino Sansoni, con prefazione di Alfredo Gargiulo,  il volume “Napoli pittorica. Ricordi d'arte e di vita”, in cui raccoglie memorie autobiografiche e alcuni articoli, già apparsi in varie riviste, sull'ottocento pittorico napoletano; epoca che egli ritiene di massima gloria artistica. Libro interessante, da leggere tutto d’un fiato, con gustose note di vita puteolana. Amedeo Maiuri, nella prefazione al suo saggio sulla “Cena di Trimalchione”, riferisce che le figure della Cena, scritta da Petronio Arbitro, sono identiche ai personaggi napoletani descritti nelle saporose e colorite pagine del libro di Ezechiele Guardascione. Afferma che c’è molta affinità, nonostante i duemila anni trascorsi, e che dopo tutto la graeca urbs è Pozzuoli e non Napoli; continua con la constatazione che Ezechiele del resto è, prima d’essere napoletano, puteolano.

Personaggio stravagante, benevolmente definito Ingordo Autodidatta da Gianni Race, Guardascione è una figura ancora da indagare; la causa principale del disinteresse storiografico e critico è da ricercare verosimilmente nella sua compromettente e piena adesione al fascismo.
Muore a Napoli il 23 novembre 1948 e questo comune dedica alla sua memoria una piazzetta di Ponticelli, già detta di San Rocco, situata sul retro dell’ospedale “Villa Betania”.
 
Bibliografia
Maura Picciau – Ezechiele Guardascione - Dizionario Biografico degli Italiani
Gianni Race – Pozzuoli, storia, tradizioni e immagini
Lucia Lopriore – I duchi di Sangro, storia della famiglia
Gennaro Chiocca – Collezione privata

 Pozzuoli Magazine del 6 aprile 2013

mercoledì 3 luglio 2013

Ci vergogniamo di Mamozio?






Ci vergogniamo di Mamozio?
Eppure piace più di Pulcinella e fa paura a San Gennaro


Tra settecento ed ottocento tutte le guide storiche di Pozzuoli e delle sue antichità parlano di una delle meraviglia che assolutamente bisogna vedere in questa cittadina, il Santo del paese.
“La piazza di Pozzuoli resta a mano sinistra in entrare nella porta della città, la di cui strada, per la quale con dolce declivio vi si scende, pur ora conserva il suo antico nome di pendio di mare, giacchè un tempo fin qui sotto giungevano le sue acque.
Nel mezzo della piazza evvi una fontana fiancheggiata da due statue colossali di bianco marmo, poste una in prospetto dell’altra. La statua alla dritta fu fatta scolpire dalla Città in onore del suo Vescovo Monsignor Martino di Leon per i molti benefici da esso Prelato ricevuti….
L’altra di prospetto è un’antica statua consolare ben panneggiata. Si vuole di Q. Flavio Egnazio Lolliano per una iscrizione incisa nel fronte del piedistallo…”
Chi entra oggi nella piazza (della Repubblica) non trova più traccia di questa seconda bianca statua, popolarmente conosciuta come Santo Mamozio, che pure ha segnato Pozzuoli ed i puteolani. Questa mancanza è susseguente ai lavori di bonifica e innalzamento eseguiti tra il 1913 ed il 1923 quando, esattamente nel 1918, la statua è riposta presso l’anfiteatro puteolano in attesa di nuova sistemazione.
Vedovare la maggiore piazza di Pozzuoli della statura di Q. Flavio Egnazio Lolliano, divenuta nel frattempo celebre in tutta Italia ed all’estero, sembra essere stata una profanazione che storici e sociologi ancora ci deplorano.
Ma, senza voler nascondere una scottante verità, per tutti noi puteolani Mamozio sembra essere stata una beffa atroce; tanto da esserne perseguitati tutta la vita. Pertanto non pochi credono che la statua sia stata seminascosta dall’allora amministrazione pubblica per proteggerla da possibili danni che potessero procurargli nostri compaesani che per sua causa si sentissero burlati al di fuori dei confini comunali. E questa ipotesi è suffragata da rievocazioni e comportamenti; tanto più che l’altra statua, quella del vescovo Martino, è ritornata (anche se transitando prima per piazzetta Cesare Augusto e poi per i giardinetti antistanti la chiesa del Carmine) nella piazza di Pozzuoli.
E’ noto che la statua, attribuita al console romano Lolliano Mavorzio per via d’una iscrizione inserita nel suo piedistallo (che probabilmente reggeva altra statua molto più piccola), è ritrovata a Pozzuoli nel 1704 senza testa. Il monumento viene collocato nella piazza principale e, come d'uso all'epoca, il capo mancante è reintegrato; ma da una testa sproporzionatamente piccola rispetto al corpo, il che gli conferisce un'aria imbambolata e buffa.
Intanto il nome Mavortio è distorto dai puteolani in Mamozio e poi il popolino, iniziando ad adorarlo, all’istante lo promuove da console a santo e così lo battezza "Santo Mamozio".
Diventa il protettore dei verdummari, che in questa piazza tengono mercato, i quali gli rivolgono suppliche e pare anche che gli lanciano, quando la stagione è propizia, offerte di fichi e pomodori.  Si narra che un contadino avrebbe portato un paniere di fichi per ingraziarsi il santo, e dopo avergli lanciato una manciata di fichi, notando che quelli maturi si appiccicano alla statua, mentre quelli acerbi cadono ai suoi piedi, abbia pronunciato una considerazione rimasta a proverbio: Santu Mamozio mio, 'e bbone t' 'e magne e 'e toste m' 'e manne arrete”.
Si dà notizia che gli sono applicate varie teste, di volta in volta ritrovate o fatte ricostruire, ma sempre con risultati poco lusinghieri; la statua si ritrova a volte con un capoccione enorme ed a volte comicamente troppo piccolo.
Ed è così che Mamozio assume sia il significato di persona stupida, sciocca e sproporzionata sia un alone di santità; tanto da poterlo definire come il santo degli sciocchi. In questo ben ne rende l’idea il personaggio di Mamozio interpretato da Macario il quale, cinematograficamente parlando, ha giusto la faccia del mamozio nel film “Il monaco di Monza”, a fianco di Totò.

Ezechiele Guardascione, nel suo “Napoli Pittorica”, narra che la rozza fantasia popolare dei puteolani è scossa dalla presenza di quel pezzo di marmo. Pertanto vi ricama sopra una leggenda, e gli tributa onori quasi divini. In certi periodi dell’anno i contadini flegrei vengono ad offrirgli cesti di frutta e pongono sotto la sua protezione gli asini, i torelli, le pecore e ogni altro animale.
Inoltre Ezechiele ben racconta lo stato d’animo di tutti noi puteolani nel confrontarci con i sorrisi maliziosi dei nostri conoscenti, o compagni di classe, napoletani o di altre cittadine.
Io stesso, un secolo più tardi, ho dovuto sopportare, come narra di aver sopportato il maestro Guardascione dopo che il suo professore, all’Istituto Belle Arti di Napoli, ebbe spiegato ai suoi compagni della ridicola statua di Santo Mamozio.
Preso dallo sconforto Guardascione pensa di decapitare Mamozio (goliardata che mette in atto in una oscura notte invernale con la complicità di tre amici) e di buttare in mare, ai ponti di Caligola, quella testa gaglioffa che sotto i suoi colpi sembra lasciare volentieri quel corpo non suo. La notizia della decapitazione vola rapida sulla bocca dei puteolani; molti di loro ridono, ma molti prendono la cosa tragicamente. Sia la popolazione che gli amministratori si dividono in opposti campi tra chi approva la decapitazione e chi vuole restaurare la statua che da allora resta comunque acefala.


Ma dal suo nascondiglio nell’anfiteatro Santo Mamozio, seppur morto nel cuore della cittadinanza, vola alto nell’immaginario e nella fantasia degli italiani che usano il suo nome per identificare di volta in volta precisi atteggiamenti e con esso indicare la stupidità di un individuo, o meglio, la sua allocchita ingenuità. Tutto questo è dato dalla personalità che questo personaggio ha saputo darsi mostrando tutta la sua testardaggine, la sua apatia e la sua impassibilità. Addirittura un emigrato in America riferisce che quando era in Italia era abituato a non prendere sul serio ì cartelli che segnalano improbabili passaggi di cervi. In California è diverso e nel giardino di casa sua si è trovato una famigliola di cervi capeggiati da un capo branco tamarro che ha soprannominato Mamozio. Racconta che quel cervo se ne frega degli umani. Se ti avvicini mica scappa, anzi con fare guappo ti guarda come la famosa statua di Pozzuoli e sembra chiederti: “cosa vuoi?”. L’emigrato continua raccontando che una sera voleva parcheggiare davanti al garage ma c'era Mamozio che presidiava l'area e che appena lo ha visto gli ha subito rivolto la sua famosa occhiata “cosa vuoi?” Ha dovuto spingerlo con la macchina per farlo andare via e confessa che ha anche attaccato briga e urlato in italiano: "Spostati cornuto di un mamozio”.
A Napoli tutti sanno che è consuetudine delle “parenti di San Gennaro” (le popolane che il giorno deputato alla liquefazione del sangue affollano già dall’alba la chiesa incitando, tra una sferruzzata e l’altra, il santo a procedere, a farlo «’o miracolo»), di passare ai modi bruschi se mai il santo, come talvolta accade, dovesse indugiare. Dapprima apostrofandolo “faccia gialluta” (per via del colore assunto dal bronzo della statua), quindi ricorrendo a vere e proprie male parole, seppur pronunciate con l’affetto che viene dalla familiarità. L’assalto verbale, però, è mitigato da premurose e al tempo stesso impertinenti litanie, tra cui una recita: “San Gennaro San Gennà ’sta città te cerca aiuto tu però te sì addurmuto e ’sta storia adda cagnà.  Nun vulimmo a ‘nu mamozio ca nun tene autorità, San Gennaro San Gennà vire e nun ce sta a scuccià”.
E va a finire che il più delle volte, per non prendersi ulteriormente del mamozio, San Gennà esegue.
Nel dicembre 2007 un lettore scrive al redattore di un famoso giornale in riscontro ad un articolo in cui ha ritrovato la frase: “... viene dai mamozi egualitarismi…”. Purtroppo il lettore non conosce il significato della parola “mamozi” non avendola trovata neppure sul suo Zingarelli, per cui non ha potuto cogliere pienamente il senso del discorso. Perciò chiede che lo si gratifichi di una pur brevissima risposta che possa colmare la sua lacuna linguistica. Gli si risponde subito pubblicamente che il termine “mamozio” è voce partenopea per pupazzo e, in senso lato, per conformista che indolentemente adegua il proprio pensiero agli slogan e alle parole d’ordine, senza carattere, spina dorsale, emasculato intellettualmente. In sintesi, e per dirla ancora in vernacolo, l’«omme ’e niente». Poi continua spiegando il ritrovamento della statua a Pozzuoli, …. del Mamozio oltre Pozzuoli (a Procida, a Ponza, ad Isernia, egualmente antiche statue acefale) e che lo stesso non è diventato una maschera come Pulcinella perché negli anni non ha mai trovato una propria identità.
Ma a tal proposito Davide Morganti, sulla Repubblica del 3 dicembre 2004, confessa di non aver mai amato la figura di Pulcinella, l'idiota per fame, che nella vita non trova altro sapore che le necessità del proprio corpo. In lui deflagra una viscida sopravvivenza, simbolo di un popolo che, assolvendosi, legittima la sua miseria morale. Morganti crede che maggiore attenzione e studio meriti, invece, la figura del “Mamozio” di Pozzuoli. Nessun teatro popolare, nessun burattinaio ha mai pensato di metterlo in scena, eppure proprio perché decollato richiama da vicino Giovanni il Battista o il “Cavaliere senza testa” e, soprattutto, San Gennaro, decapitato alla Solfatara durante le persecuzioni imperiali, a pochi metri dal luogo del ritrovamento della statua. Il Mamozio, sorta di Pietra Nera dove per decenni il popolo puteolano ha riversato i propri umori e i propri peccati, è dalla parte dei Peppino, dei Fantozzi, dei Fabrizi, vittime di una comicità che fa ridere proprio perché subita. Mentre Pulcinella è una maschera fatta di ventre e di corruzione, il Mamozio consiste di vuoto e di martirio, vicino all' assenza di volto di Buster Keaton. Oggi, purtroppo, giace indegnamente abbandonato nell' Anfiteatro Flavio, poco prima dell' uscita, una pietra qualunque esposta al sole e alla pioggia, non trova spazio altrove, né in un museo, né in una sala comunale. A questo punto, per recuperare dignità, sarebbe meglio regalarlo a un teatro, a una discoteca o a un cinema; ai nostri giorni sopravvive ormai soltanto l'espressione «Si' proprio nu mamuozio» per indicare la stupidità di un individuo. Dal settecento ai primi del novecento, posta nella piazza di Pozzuoli, diventò per il popolo un santo, la gente, infatti, da un lato lo dileggiava, dall' altra gli chiedeva miracoli. La testa veniva ogni tanto distrutta di notte e rifatta secondo altre proporzioni, mai le stesse, rafforzando una vis comica mai riconosciuta come dovrebbe. Il Comune di Pozzuoli potrebbe sul Mamozio non solo organizzare premi e progetti, ma invitare scultori, pittori, attori, scrittori a rendere vivo un personaggio incredibile, uno diventato idiota per la santità a cui è stato consacrato, sottratto, suo malgrado, all'infamia e alla gloria della maschera.
Noi puteolani dovremmo farci perdonare i maltrattamenti cui lo abbiamo sottoposto ed auspicare che, nella prevista risistemazione della piazza grande, l’originale, che finalmente ha trovato degna sistemazione presso il Museo Archeologico del Campi Flegrei di Baia, oppure una sua copia, possa essere nuovamente collocata nella sua posizione originale. L’amico Sergio Ambrosino ipotizza il collocamento delle due statue, quella di Mavorzio e quella del Vescovo Martino, una di fronte all’altra con in mezzo la fontana che, posizionata all’incrocio degli assi di Via Cosenza e Via Portanova, creerebbe una quinta scenica alla prospettiva finale di entrambe le strade.
Allora sarà festa grande, inviteremo il mondo intero a svelare con noi una delle tante meraviglia del passato.
  
BIBLIOGRAFIA
Ezechiele Guardascione – Napoli Pittorica – Sansoni 1943
Raffaele Giamminelli - Guida di Pozzuoli – C. di P. 1986
Davide Morganti – La Repubblica – 3 dicembre 2004
Paolo Granzotto – Il Giornale – 5 novembre 2007
Giuseppe Peluso - Pozzuoli Magazine del 23 marzo 2013